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Messaggi di Novembre 2019

Fondo salva-Stati, cosa c’è e cosa no nella riforma

Post n°4530 pubblicato il 26 Novembre 2019 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia & Lobby - 26 Novembre 2019 Lavoce.info

Al momento della firma della riforma del Meccanismo europeo di stabilità, che sembra piombata dall’alto (ma così non è), l’arena politica si è infiammata. Utile quindi uscire dal fuoco incrociato per capire cosa prevede effettivamente e se gli allarmi sono fondati.

di Angelo Baglioni e Massimo Bordignon (Fonte: lavoce.info)

La riforma del cosiddetto Fondo salva-Stati, discussa dal governo Conte 1 con i partner europei e sulla quale il governo Conte 2 è chiamato ad apporre la sua firma nel prossimo vertice europeo di dicembre, sta suscitando preoccupazioni e polemiche nel dibattito politico di questi giorni. Cerchiamo di capire quanto esse siano fondate, rispondendo ad alcune domande.

Cos’è il Fondo salva-stati?

Il suo vero nome è in realtà Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Si tratta di un’istituzione europea, nata alla luce di un accordo intergovernativo tra i paesi che hanno adottato l’euro. Il Meccanismo eroga prestiti ai paesi che si trovino in difficoltà a finanziarsi sui mercati finanziari a tassi favorevoli. Lo ha fatto in passato con programmi di assistenza a favore di Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Cipro. Ha un capitale versato da tutti i paesi dell’Eurozona e si finanzia emettendo debito sul mercato.

Con la riforma sul tappeto, sarà più difficile accedere ai prestiti erogati dal Mes?

No. Il Mes ha due strumenti a sua disposizione: prestiti e linee di credito. I primi prevedono l’effettiva erogazione di soldi in prestito ai governi in difficoltà, il secondo fornisce una garanzia di intervento, che può essere attivata dal paese beneficiario in caso di necessità. Finora solo il primo strumento (il prestito) è stato utilizzato e su questo la riforma non prevede alcuna novità.
Per quanto riguarda le linee di credito, da un lato la riforma rende più precisa e cogente la cosiddetta “condizionalità ex-ante” per accedere a un primo tipo di linea di credito (Precautionary conditioned credit line – Pccl). Dovranno essere rispettati i paletti posti dalle regole europee di finanza pubblica, tra cui: rapporto deficit/Pil sotto il 3 per cento, rapporto debito/Pil sotto il 60 per cento o in avvicinamento a questo livello, saldo strutturale al di sopra di un minimo prestabilito.

D’altro canto, la riforma elimina la cosiddetta “condizionalità ex-post” su questa linea di credito: non sarà più necessario concordare un Memorandum of understanding (Mou) contenente condizioni di aggiustamento fiscale e macroeconomico per l’ottenimento dei prestiti (come avvenuto per esempio nel caso greco). Sarà sufficiente una lettera di intenti, nella quale il paese interessato dovrà indicare come intende soddisfare i criteri di ammissibilità; la coerenza di questa lettera con le regole e le procedure fiscali europee sarà valutata dalla Commissione europea.

In ogni caso, se anche un paese non soddisfi alcuni paletti posti dalle regole fiscali europee, potrà comunque accedere a un secondo tipo di linea di credito (Enhanced conditions credit line – Eccl), ma in questo caso occorrerà la firma di un Memorandum of understanding.

La riforma imporrà la ristrutturazione del debito pubblico?

No. Non si prevede alcun nesso automatico tra richiesta di assistenza finanziaria al Mes e ristrutturazione del debito pubblico. Quello che avverrà, ma è già previsto dalle regole attuali, è che vi sarà un’analisi di sostenibilità del debito del paese che fa richiesta di assistenza. In sostanza si valuta se, grazie agli aiuti europei e alle misure concordate, un paese sarà in grado di riportare il rapporto tra debito pubblico e Pil su una traiettoria discendente, tale da scongiurare una futura insolvenza. Se questa valutazione desse un esito negativo, prima di accordare il prestito si dovrebbe procedere a una ristrutturazione del debito, imponendo dunque dei costi ai detentori dei titoli: taglio del valore delle obbligazioni e/o degli interessi, allungamento delle scadenze di rimborso. La novità rispetto alla situazione attuale è un maggiore coinvolgimento del Mes nella analisi di sostenibilità, attualmente affidata alla Commissione e alla Banca centrale europea (ed eventualmente al Fondo monetario internazionale).

Qui potrebbe inserirsi un aspetto critico, dovuto alla diversa governance politica del Mes, che è una istituzione intergovernativa: nel suo Board of governors siedono i ministri delle finanze dei paesi membri. La preoccupazione è che la valutazione affidata ai paesi creditori possa essere più severa di quella della Commissione, che riflette invece un punto di vista europeo. Ma c’è da domandarsi quanto in pratica ci sia differenza. Le risorse del Mes sono soldi dei Paesi membri ed è già previsto che ciascuno di questi debba approvare il finanziamento perché questo avvenga, in qualche caso anche coinvolgendo i propri Parlamenti.

Cosa cambia per le Clausole di azione collettiva?

Un aspetto tecnico rilevante della proposta di riforma è l’introduzione delle cosiddette single-limb Cac (Clausole di azione collettiva) per i titoli di debito emessi in futuro. Per procedere alla ristrutturazione del debito tramite un accordo con i creditori privati (il cosiddetto private sector involvement) occorre avere il consenso di una maggioranza qualificata dei creditori. Una volta ottenuto, l’accordo vale per tutti. Attualmente questo principio viene applicato a ogni serie di debito emesso. Ciò permette a un singolo creditore, tipicamente un fondo d’investimento che detenga una quota significativa di una emissione, di bloccare la ristrutturazione del debito (o di una sua parte). La riforma prevede un meccanismo diverso, che misuri il quorum di consensi su base aggregata, cioè sull’insieme delle emissioni: in questo modo sarà più difficile per un singolo investitore detenere una quota tale da essere in grado di bloccare la ristrutturazione.

Come sempre, queste misure, se utili ex post, nel caso un paese avesse deciso di ristrutturare il proprio debito, possono essere pericolose ex ante, nel senso di poter spaventare gli eventuali futuri sottoscrittori, spingendo verso l’alto gli interessi da questi richiesti per detenere i titoli. C’è dunque la preoccupazione che l’introduzione del single limb possa creare un terremoto sui mercati finanziari. Tuttavia, l’introduzione delle attuali Cac nel 2013 aveva suscitato gli stessi timori che però sono stati disattesi; l’introduzione è avvenuta nella totale indifferenza dei mercati.

La riforma del Mes ha qualcosa a che fare con l’Unione bancaria?

Si. Essa prevede che il Mes possa erogare prestiti al Fondo europeo destinato a gestire le crisi bancarie: il Single Resolution Fund (Srf). Questa è una novità positiva e da tempo richiesta nel dibattito europeo da paesi come il nostro. Essa consentirà al Srf di disporre di una linea di sicurezza (common backstop) in caso esaurisca le sue risorse. Il fatto che questa linea di sicurezza sia fornita dal Mes è significativo: si tratta di una prima forma, seppure limitata, di condivisione dei rischi tra i paesi della zona euro. Finora, le risorse fiscali usate nelle crisi bancarie erano solo quelle nazionali. Certo è che il completamento dell’Unione bancaria richiede anche altre riforme, a cominciare dall’introduzione di una assicurazione europea dei depositi.

Su questo fronte, la recente proposta avanzata dal ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz è ancora molto deludente: non si tratta di una vera assicurazione, ma solo di un sistema di prestiti che interverrebbe in seconda battuta, una volta esaurite le risorse dei fondi di assicurazione nazionali. Ed è su questo fronte che il governo italiano dovrebbe dare battaglia.

*Massimo Bordignon è membro dello European Fiscal Board

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ho pubblicato ieri l'articolo che ne decantava le verità nascoste e le miserie.... questo, pur  essendo 'tecnico (i suoi contenuti non li discuto sono all'altezza di chi li scrive e di chi li legge')' in realtà ne esalta l'europeicità perchè ragiona sempre all'interno del quadro dell'italia che resta nel torcibudella europeo ormai sempre più 'tedesco' e sempre meno europeo.

 

 
 
 

Fondo salva-Stati, vi chiedete cosa sia il Mes? In breve un’evoluzione della Troika

Post n°4529 pubblicato il 25 Novembre 2019 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro - 22 Novembre 2019 Lidia Undiemi

Era il 2012 quando per la prima volta andai in Rai (a Linea Notte) a spiegare il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e le conseguenze di una sua approvazione.

Presentatore e ospiti erano visivamente spiazzati, perché l’argomento principale era l’insediamento – tra festeggiamenti e grande ottimismo – di Mario Monti. Io dissi chiaramente che Monti avrebbe fallito, e che noi avremmo pagato a caro prezzo le riforme volute dall’Europa. Così è stato.

Sebbene riuscii a sensibilizzare una discreta parte dell’opinione pubblica, una volta approvato dal Parlamento il Mes fu pian piano dimenticato. Destino diverso per il Fiscal Compact – approvato anch’esso nello stesso periodo –, evidentemente perché la sua comprensione era di gran lunga più intuitiva.

Oggi anche il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, si preoccupa della sua approvazione.

Cos’è il Mes? In breve è l’evoluzione della Troika, un’organizzazione internazionale dotata di ampi poteri sanciti nel suo trattato fondamentale (appunto quello che è stato approvato dal Parlamento). Il suo obiettivo principale è quello di prestare denaro ai Paesi in difficoltà, ma solo se gli viene concesso di sostituirsi al governo democraticamente eletto per imporre le proprie riforme. La conseguenza è piuttosto ovvia, la democrazia cessa di funzionare, i cittadini possono votare chi vogliono, ma l’agenda politica è quella del Mes. Leggere il trattato per credere (sulla lettura del trattato nel 2013 ebbi un simpatico battibecco con il giornalista Massimo Giannini nel 2013 a Ballarò). Loro le chiamano condizionalità, con ciò imitando il Fondo Monetario internazionale, di cui il Mes, in special modo con la riforma, vuole assumere in Europa gli stessi compiti che il Fondo svolge in altre parti del mondo, come in America Latina.

Per il paese che non realizza le riforme del Mes-Troika sono guai, perché il prestito viene erogato in tranche, solo se (a parte concessioni discrezionali) lo Stato in difficoltà realizza le riforme.

Grecia docet. I prestiti ad Atene sono stati concessi solo con l’applicazione di politiche di austerità estremamente pesanti. Per esempio, l’approvazione della legge di bilancio per il 2014 fu condizionata dal fatto che la Troika decise di rinviare il suo ritorno ad Atene, da cui dipendeva l’erogazione dell’ulteriore tranche di prestito, perché aveva dettato 135 riforme e ne erano state attuate soltanto 60.

Non se l’è passata meglio Cipro, con il prelievo forzoso sui conti correnti, che il Parlamento cipriota aveva per la prima volta respinto, salvo poi essere costretto ad accettare per le pressioni dei mercati e delle istituzioni internazionali.

La riforma vuole andare oltre tutto questo. Perché se attualmente il Mes è progettato per funzionare principalmente in caso di gravi crisi finanziarie, con la riforma finirebbe per governare in via precauzionale tutti i paesi dell’Eurozona creando un sistema di gestione del debito pubblico e delle crisi bancarie dal quale nessuno potrebbe scappare.

Uno dei punti fondamentali della riforma è infatti il rafforzamento delle linee di credito precauzionale (leggasi commissariamenti permanenti anche per i Paesi con solide basi) e della possibilità per il Mes di imporre concretamente le condizionalità.

A questo punto però vi starete chiedendo chi c’è dietro al Mes. Anche qui, basta leggere il trattato per rendersene conto. I soci del Mes sono sostanzialmente i paesi dell’Eurozona, il cui potere di influenza all’interno dell’organizzazione dipende dalle quote di partecipazione possedute, che sono tutte diverse. In testa Germania e Francia, cui seguono Italia e Spagna e via via gli altri. Chi ha più potere finanziario conta di più, e tra l’altro se un paese aderente ha difficoltà a versare la propria di partecipazione allora viene privato del diritto di voto. A confronto una banca privata è più democratica.

Non solo Germania e Francia, perché anche investitori privati possono partecipare ai piani di finanziamento degli Stati, e non si capisce bene sino a che punto possono partecipare alla redazione delle riforme.

Altri aspetti decisivi della riforma sono il contributo che il Mes per le risoluzioni europee delle crisi bancarie ed una maggiore collaborazione tra Commissione Europea e il Mes stesso. Tralasciando in questo momento l’accavallamento di ruoli, ricordiamoci che l’Ue e il Mes sono soggetti distinti, e quindi potrebbero crearsi conflitti di governance, che in realtà ci sono già stati e che hanno portato allo scontro titanico tra Germania e Bce. La riforma del Mes altro non è che il compromesso tra Ue e Germania, perché probabilmente i tedeschi hanno intenzione di tenere in piedi la baracca solo se gli altri paesi accettano le condizionalità.

Questa è l’Europa che si sta consolidando con la riforma del Mes. Una Europa squilibrata e antidemocratica, che in quanto tale, comunque, non avrebbe lunga vita.

 

 
 
 

Internet: grazie alla rete siamo connessi al virtuale, ma disconnessi dal reale

Post n°4528 pubblicato il 22 Novembre 2019 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Società - 17 Novembre 2019 Diego Fusaro

Nell’apoteosi della rete dell’internet propria dell’evo della “scomparsa delle lucciole”, come la appellava Pasolini, la comunicazione ipertrofica sostituisce la relazione, sempre più latitante e rarefatta. Quelle disseminate per lo spazio cosmico del web, infatti, non sono mai vere relazioni: figurano, nella migliore delle ipotesi, come promesse di relazione, che, per attuarsi, necessitano del rapporto reale tra i “volti”, secondo la dinamica messa a tema da Lévinas.

Favoriscono, in altri termini, i processi di isolazionismo individualistico e di privatizzazione dell’immaginario collettivo degli “incantati dalla rete” (riprendendo il titolo del libro di Carlo Formenti). Confermano la tendenza generale di un’epoca connessionista che aspira al moltiplicarsi delle relazioni fluide e, insieme, opera affinché esse mai si condensino in forme stabili.

Nella pellicola del 2012 del regista Henry-Alex Rubin, intitolata Disconnect, è magistralmente tratteggiata l’aporeticità della nuova condicio virtuale a cui le nuove generazioni sono condannate. Sempre connessi, gli abitatori della rete dipendono integralmente dall’internet per ogni azione e per ogni pensiero.

Un numero sempre crescente di giovani ha apertamente scelto di vivere on line, disertando la vita reale, svilita al rango di esistenza off line. È l’imago parossistica dell’esistenza al tempo del globalismo: l’homo cosmopoliticus coincide con una soggettività puntiforme e uniforme, solitaria ma sempre connessa, globale ma isolata, vicino al distante e distante dal vicino.

Per questa via, non solo la relazione umana si fa digitale, ma, in maniera convergente, l’azione è inibita e lo spirito critico è anestetizzato: il tempo dell’esistenza è speso in rete, nel controllo ossessivo della mail e del telefonino, nella cura delle relazioni digitali e nella rielaborazione permanente del proprio profilo virtuale quale appare sul palcoscenico delle reti sociali.

Quella che già nel 1995 lo psichiatra americano Ivan Goldberg aveva definito come la “sindrome della dipendenza dalla rete” (Internet Addiction Disorder) si è a tal punto estesa da conquistare, di fatto, pressoché ogni abitatore della cosmopoli a reificazione integrale. Non è difficile comprendere come, in forza del proliferare delle relazioni digitali proprie della community virtuale, il nuovo potere seducente del tecnocapitalismo abbia realmente ottenuto, a mo’ di conquista, l’inibizione dei reali rapporti interpersonali, di fatto dissolvendo la base di una rivolta corale.

L’internet e la società dei like, con le loro relazioni effimere e superficiali, hanno appieno guadagnato lo statuto di nuova droga che, equivalente del “soma” descritto dall’Huxley del Brand New World, risarcisce rispetto alla sofferenza e alle storture del mondo reale, destando l’illusione di una comunità più vera, proiettata in un’altra dimensione rispetto al tradizionale mondo off line. Sotto questo profilo, si potrebbero applicare alla società dell’internet e ai suoi “paradisi digitali” le considerazioni a suo tempo svolte da Marx in relazione all’Opium des Volks, all'”oppio del popolo” religioso, alla comunità celeste escogitata come falsa compensazione per le storture di quella terrena.

 

 
 
 

Climate change rischia di mandare in fumo il 3% del Pil mondiale

Post n°4527 pubblicato il 20 Novembre 2019 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I. 20 Novembre 2019, di Mariangela Tessa

 

Il cambiamenti climatici rischiano di mandare in fumo il 3% della crescita mondiale nei prossimi trent’anni. Tradotto in numeri assoluti, si tratta di 7,9 mila miliardi del Pil mondiale destinato a scomparire entro il 2050.

È quanto riporta uno studio condotto dall’Economist Intelligence Unit, dal quale emerge che saranno l’Africa (4,7%), il Sud America (3,8%) e il Medio Oriente (3,7%) le tre aree più colpite dall’aumento delle temperature medie. Niente di buono in vista per l’Europa, che lascerà sul terreno l’1,7% del Pil.

Più contenuti gli effetti negli Usa

Anche gli Stati Uniti, la più grande economia del mondo, non riusciranno ad evitare gli effetti negatici dei cambiamenti climatici, anche se saranno più contenuti rispetto alle altre principali aree. Nello stesso arco temporale, secondo le previsioni sopportate nello studio, l’economia a stelle e strisce potrebbe rallentare di oltre l’1%.

Un allarme era già stato lanciato la scorsa estate dal National Bureau of Economic Research, che aveva  sottolineato in agosto che la crescita pro capite negli Stati Uniti potrebbe ridursi del 10,5% nei prossimi 81 anni, in previsione di temperature più elevate in tutto il mondo.

“Il modello di cambiamento climatico dell’EIU calcola che entro il 2050, l’economia degli Stati Uniti sarà dell’1,1% più piccola di quanto non sarebbe stata in assenza di cambiamenti climatici”, afferma il rapporto. “I recenti eventi negli Stati Uniti hanno dimostrato le gravi vulnerabilità che esistono anche nelle principali economie sviluppate”, si legge nel report in cui si menziona la maggiore frequenza e intensità degli incendi che hanno comlpito negli ultimi anni la California.

L’anno scorso, un rapporto del governo degli Stati Uniti affermava che i cambiamenti climatici sarebbero costati miliardi di dollari all’economia degli Stati Uniti.

Il report, diffuso oggi, arriva pochi giorni prima della prossima conferenza dei cambiamenti climatici delle Nazioni Unite. La 25esima conferenza delle parti contraenti dell’Unfccc, la cop25, appunto, avrà luogo dunque a Madrid dal 2 al 13 dicembre prossimi.

 

 

 
 
 

Climategate, ovvero quando denunciare il riscaldamento globale era roba da complottisti

Post n°4526 pubblicato il 18 Novembre 2019 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Ambiente & Veleni - 18 Novembre 2019 Ugo Bardi

Sono passati 10 anni da quando, nel 2009, esplodeva sui media la storia che poi sarebbe stata chiamata “climategate” – qualche volta “climagate” in Italia. Era successo che qualcuno aveva violato il server della “Climate Research Unit” (CRU) dell’Università di East Anglia, in Cambridge, portandosi via e poi diffondendo le e-mail private che alcuni scienziati del clima si erano scambiate. Da lì, è nata una polemica a livello planetario che dura tuttora. I dati diffusi sono stati interpretati da molti come la “prova” che gli scienziati del clima erano impegnati in un grande complotto globale per inventarsi un riscaldamento globale inesistente. Forse lo hanno fatto per pura incompetenza, forse per far soldi, forse per renderci tutti schiavi, forse per imporre il comunismo in tutto il mondo, insomma qualcosa del genere.

Rivista a distanza di tanto tempo, sembra incredibile che si sia fatto tanto rumore per una cosa del genere. Non c’era niente di male in quei messaggi, salvo che sono state esaminati con un atteggiamento da inquisitori alla ricerca di eretici da mandare al rogo. Ma, nonostante l’accanimento, tutto quello che gli inquisitori hanno potuto trovare sono un paio di frasi che sono state prese fuori contesto e fraintese, tipo “il trucco di Mike” e “nascondere il declino” e che non indicavano assolutamente una manipolazione illecita dei dati. Poi i messaggi contenevano opinioni personali che sono stati anche quelle prese fuori contesto, ingigantite, e presentate come prova di colpevolezza. Ma non c’era traccia di complotto in nessuno dei messaggi, niente che indicasse che gli scienziati avevano alterato i dati per adattarli alle loro opinioni pregresse.

Insomma, tanto rumore per nulla: un semplice trucco propagandistico gonfiato dai media. Ma è stato un trucco efficace: la parola “climategate” è diventata rapidamente uno slogan che non aveva bisogno di spiegazioni. Come risultato, molta gente ha creduto alla storia dei “climatologi cattivi” e se leggete i vari commenti che appaiono oggi in occasione del decennale, vedete che ancora oggi tanta gente ci crede. Il potere della propaganda è grande.

Non è facile quantificare quali danni la storia del climategate abbia fatto a tutti noi, ma certamente è stato un punto di svolta nel dibattito sul clima. Fino a qualche anno prima, era ancora possibile fare dibattiti dove partecipavano persone con qualifiche scientifiche che avevano opinioni opposte e dove si rimaneva entro i limiti del dibattito civile. Ma il climategate ha cambiato tutto, scaraventando lo scontro dalla scienza alla politica. Per essere precisi, l’idea che tutta la faccenda del riscaldamento globale fosse una bufala serpeggiava da tempo, ma con il climategate l’idea del complotto era stata sdoganata. E’ da allora che gli attacchi contro la scienza del clima non hanno avuto più che una vaga pretesa di essere basati un’interpretazione scientifica alternativa. Sono diventati attacchi puramente politici e si sa che in politica si fa tanta polemica, ma si riesce male ad agire sulla base dei dati.

E così sono passati 10 anni in cui si è fatto ben poco per fermare il cambiamento climatico che, a questo punto, sta galoppando e rischia di travolgerci tutti quanti. Forse il fatto di aver visto mezza Italia sott’acqua in questi giorni ci da un’idea di quanto drammatica sia la situazione, ma non è solo questo: c’è ben di più! Il fatto è che tutto l’ecosistema planetario da segni di una grave crisi in atto: sparizione degli insetti, perdita della biodiversità, estinzioni, fusione dei ghiacci, ondate di calore, incendi, disastri vari e, alla fine dei conti, le temperature che continuano ad aumentare inesorabilmente.

Di fronte a questa situazione, è impressionante vedere che da noi ci sia ancora chi raccoglie firme e organizza convegni contro gli “allarmisti climatici,” mentre Vittorio Feltri ci racconta in completa serietà che “del clima non mi frega niente: con 2 gradi in più a Bergamo si sta meglio.” Se ci siamo ridotti a questi livelli, non sarà stata tutta colpa del climategate ma, insomma, anche quello ha dato una mano. Ma prendiamola in termini costruttivi: in fondo, dalla storia del climategate potremmo imparare come non farsi imbrogliare da questi trucchi propagandistici.

 

 

 
 
 

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