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Messaggi del 21/10/2020

... l’Italia che vuole Confindustria....

Post n°4602 pubblicato il 21 Ottobre 2020 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano 12 Ottobre 2020 Lobby

Le parole volano, gli scritti rimangono. E capita persino che, ogni tanto, qualcuno se li legga. Nel volume di 385 pagine “Il coraggio del futuro” in cui Confindustria delinea la sua visione dell’Italia di domani, gli industriali, discettano un po’ di tutto tra. Non solo di industria e lavoro, ma anche di assetti istituzionali, regolazione bancaria, politiche europee, formazione, sanità, pubblico impiego. Il comun denominatore è che il “modello impresa” dev’essere replicato più o meno in ogni ambito. Nel testo ci sono tutti i tradizionali cavalli di battaglia di viale dell’Astronomia e quindi si ai prestiti del Mes, no al reddito di cittadinanza e al salario minimo, richiesta di incentivi alle imprese e sgravi per chi investe. Nelle quasi 400 pagine la parola mercato compare 160 volte, il termine società, intesa come collettività una ventina. “Evasione fiscale” appare appena nove volte, per chiedere meno controlli (“la lotta all’evasione fiscale che deve essere fondata anche e soprattutto sull’azione non massiva ma casistica di controllo e verifica, concentrati sui soggetti economici che presentano maggiori profili di rischio fiscale”) e sanzioni più blande (“all’inasprimento delle sanzioni tributarie penali si attribuisce ciclicamente il potere, quasi taumaturgico, di far arretrare l’evasione fiscale. Un obiettivo che dovrebbe essere invece, più efficacemente, perseguito con altri strumenti che passano per la valorizzazione degli istituti cooperativi”). Fin qui più o meno tutto già noto. Ma nel volume sono presenti anche nuovi “affondi”, sul tema dei licenziamenti, della flessibilità e del welfare.

Il licenziamento che “non è un trauma” Il capitolo forse più importante, quello dedicato al lavoro, si intitola “Prendersi cura del lavoro e dei lavoratori”. Leggendo si capisce però che a prendersi cura dei lavoratori non sono le imprese, che anzi dovrebbero poter licenziare più o meno come e quando vogliono, ma lo Stato che deve incaricarsi di sostenere e riqualificare il dipendente silurato. Si arriva infatti velocemente al sotto capitolo “Un mercato del lavoro più libero e leggero” in cui si auspica che le procedure di licenziamento vengano rese più semplici, facilmente percorribili, estendendo i meccanismi introdotti dalla legge Fornero del 2012, con cui il reintegro sul posto è stato sostituito da compensazioni economiche. Nel testo si legge “Si propone di generalizzare la c.d. procedura Fornero applicandola anche ai rapporti sorti sotto il regime del contratto a tutele crescenti, superando l’istituto dell’“offerta conciliativa”. In concreto si propone di far sì che ogniqualvolta il datore di lavoro si veda costretto a recedere dal rapporto per giustificato motivo oggettivo possa attivare una procedura di confronto, non solo da vanti agli Ispettorati del lavoro ma anche avanti alle Commissioni di conciliazione costituite dalle associazioni datoriali e dalle organizzazioni sindacali Sempre meno giudice del lavoro insomma, e pratica da gestire semplicemente con i sindacati. Anni fa Elsa Fornero raccontò in un’intervista delle pressioni ricevute da ambienti confindustriali per rendere ancora più semplici e rapidi i licenziamenti. “In Italia non abbiamo i giudici che ci sono in Germania”, argomentavano gli industriali. “Può darsi, ma non abbiamo neppure imprenditori come quelli tedeschi”, replicò l’allora ministro del Lavoro. Nel capitolo “Una gestione non traumatica della risoluzione del rapporto di lavoro per motivi oggettivi” Confindustria spiega che “occorre avere il coraggio di affrontare in modo equilibrato anche il tema dei licenziamenti per motivi oggettivi, in modo tale che non costituiscano più un evento traumatico ma possano essere vissuti dal lavoratore in un quadro di garanzie tali da renderlo un possibile momento fisiologico della vita lavorativa”.


Flessibili e partecipativi ma senza antagonismi – Non sorprende che l’associazione degli industriali apprezzi e celebri la flessibilità nei rapporti di lavori auspicandone anzi un’estensione. “Occorre ripensare profondamente, rispetto all’attuale regolamentazione, l’apporto al mercato del lavoro che può derivare dall’utilizzo dei contratti “flessibili”, contratto a termine e somministrazione a termine in primis, che assicurano la piena parità di trattamento rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato di pari livello. Per rendere concreta l’attenzione al capitale umano, occorrerebbe poi che l’apprendistato costituisca la porta d’ingresso al mercato del lavoro per i giovani (…) l’apprendistato offre quelle garanzie di flessibilità e adattabilità del rapporto che vanno valorizzate e incentivate. Anche sotto questo profilo un ruolo importante può svolgere la somministrazione di lavoro come strumento “flessibile”, adatto a verificare le competenze del lavoratore e, nel contempo, in grado di fornire una formazione al lavoratore, risolvendo, per le imprese più piccole o meno strutturate, il problema di impostare validi piani di formazione“. Sullo smartworking, la novità del momento, Confindustria scrive: “lo smart working può essere un terreno ideale per portare avanti questa maturazione culturale che chiede di “essere” partecipativi: non è certamente foriero di risultati stabili pensare la partecipazione in termini di “avere” – cioè ottenere attraverso la contrattazione –se poi la mentalità di fondo è e rimane quella antagonista”. I lavoratori devono quindi maturare culturalmente e smettere di avanzare pretese. Si arriva persino a prospettare quella che sembra essere l’idea di un lavoro a cottimo, con una retribuzione parametrata ai risultati. “Occorre disciplinare questo rapporto non restando rigidamente ancorati a tutte le caratteristiche del contratto di lavoro classico, connotato da uno spazio e da un tempo di lavoro. Serve una regolamentazione che consenta, da un lato, di vedere il lavoro “in purezza” come creatività, sempre più orientato al risultato, e, dall’altro, di remunerarlo per il contributo che porta all’impresa nel processo di creazione del valore”, scrivono gli imprenditori. Il lavoro “in purezza”. In tema di spirito partecipativo, Confindustria chiude una porta blindata sull’ipotesi di una presenza di rappresentanze di lavoratori negli organi dirigenziali delle fabbrica, come avviene diffusamente in Germania. L’idea degli industriali italiani è quella di una partecipazione a senso unico in cui bisogna dare tutto senza ricevere nulla.

 

Ai dipendenti pubblici, su cui consulenti di viale dell’Astronomia amano sparare ad alzo zero, si mostra il pugno duro: “La valutazione (dei risultati, ndr) dovrebbe prevedere l’utilizzo di competenze tecniche specialistiche esterne, volte a garantire maggiore indipendenza del processo. Ciò dovrà accompagnarsi a misure sanzionatore in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi, come blocchi della carriera, rimozioni dall’incarico, retrocessioni economiche, in modo da evitare una deriva autoreferenziale dell’intero processo valutativo e favorire, al contrario, l’incremento della produttività”

La scuola al servizio dell’impresa – La strada per avere il tipo di lavoratore sognato, flessibile, comincia dalla scuola. Un posto dove, nella visione confindustriale, si formano lavoratori più che persone. “Al sistema educativo nel suo complesso, dalla scuola dell’infanzia all’università, è affidato il difficile compito di preparare le nuove generazioni a gestire e non subire il cambiamento tecnologico: formare donne e uomini artefici del proprio destino”. Qui il documento inizia a introdurre il concetto di “homo faber” che è la chiave di volta della visione confindustriale. “Il sapere, scrive viale dell’Astronomia il saper fare, il saper essere insiti nelle risorse umane, combinati insieme, influiscono positivamente sulla produttività del lavoro a livello di singola azienda e, per aggregazioni successive, innalzano il potenziale di crescita del sistema nel suo complesso”. Purtroppo, o per fortuna, quello dell’uomo artefice unico del proprio destino è concetto già da tempo sconfessato e accantonato dalla storia. Si insiste molto sull’attribuzione alla scuola del compito di dotare gli studenti non meglio precisate “competenze digitali”. Vale qui forse la pena ricordare quanto disse anni fa il co fondatore di Microsoft Paul Allen: “mettere bambini di 6 anni davanti ad un computer non serve a nulla. La scuola deve insegnare a pensare. Se riesce in questo un computer si impara ad usare in due settimane”. C’è un vago richiamo all’importanza della creatività in un’epoca di robotizzazione. Ma non in quanto valore in sé, tutto è infatti declinato in funzione della sua resa produttiva.

Una strana idea di sanità Finita, per ovvie ragione di decenza, la stagione della richiesta di tagli senza se e senza ma Confindustria adotta una nuova strategia per quanto riguarda gli interventi sul nostro sistema sanitario nazionale. Si chiedono più soldi, si ribadisce l’opportunità di accedere ai fondi europei del Mes. E poi si aggiunge: “è necessario misurare gli effetti delle politiche sanitare in base al loro impatto sulla struttura industriale (occupazione e produzione) e sulla capacità di attrarre investimenti (…) Occorre valutare le prestazioni, non solo in base al costo, ma anche al rendimento, quindi ai risultati generati, che nel caso della sanità sono di natura clinica, scientifica, sociale, ma anche economica. Abbandonare modelli di gestione che non tengono conto delle forti interazioni nei percorsi di cura e determinano costi molto elevati per le imprese, a danno dell’innovazione e della sostenibilità industriale”. Un giro di parole per dire, in modo accattivante, che le prestazioni sanitarie e l’offerta ospedaliere deve essere gestita in base a criteri di ritorno economico più che guardare a quelle che sono le reali esigenze della popolazione. Il piatto della sanità è talmente ricco (oltre centro miliardi di euro l’anno) che la voglia di banchettare è tanta. E quindi si chiede di sviluppare assicurazioni private e cliniche private. Con il duplice risultato di ridurre il carico di welfare in capo alla contribuzione aziendale e spostare risorse dal pubblico verso l’imprenditoria privata. Scrive Confindustria: “Sul fronte della sanità integrativa, lo sviluppo del settore – ormai divenuta fenomeno di massa soprattutto nel mondo del lavoro dipendente – è essenziale per “organizzare” la spesa sanitaria privata in modo più efficiente e per diffondere nella popolazione la cultura della previdenza sanitaria che consenta ai cittadini di tutelarsi per le spese sanitarie, evitando di essere finanziariamente colpiti nel momento dell’emersione del bisogno sanitario”. Pur riconoscendo a parole i meriti del modello di Welfare europeo, si pianta quindi un seme per tendere verso il modello Usa. Perché “in vista dell’invecchiamento della popolazione l’assistenza sanitaria dev’essere sostenibile”

E poiché la sanità non sarà più solo pubblica, le prestazioni sanitarie entrano a far parte della merce di scambio tra imprese e lavoratore, a scapito della retribuzione. Esattamente la linea che Confindustria sta seguendo nei rinnovi contrattuali di questi giorni: niente aumenti in busta paga ma pacchetti di welfare. Il documento spiega: “La contrattazione, dunque, si svolgerà sempre più su tematiche che non atteranno puramente e semplicemente alla determinazione dei valori salariali da corrispondere tempo per tempo ai lavoratori ma si articolerà sugli interventi, anche e soprattutto, di welfare aziendale, che costituiranno, in prospettiva, forme di “copertura” sempre più ampia per i lavoratori: dalla sanità alla previdenza integrativa, già diffuse nella contrattazione, alla garanzie relative alla non autosufficienza, al concorso alle spese per l’istruzione e la formazione, per il lavoratore e il suo nucleo familiare, fino ai servizi alla persona in senso lato”. L’operazione è ingegnosa. Quello che prima era fornito a tutti (sanità, pensioni decenti, scuole di buon livello) e pagato con la fiscalità generale ora ce lo “vendono” le aziende e ce lo fanno pagare in forma di mancati aumenti di stipendio.


Confindustria auspica poi anche una riflessione sul rapporto tra Stato e mercato. Infatti, “la crisi innescata dalla pandemia ha accentuato una tendenza già in atto presso la classe politica e l’opinione pubblica, vale a dire prospettare e richiedere forme di intervento pubblico più intense nel sistema economico”. Questa visibile mano pubblica tesa alla imprese a Confindustria può stare anche bene (“non siamo pregiudizionalmente contrari”) ma ad alcune condizioni “E’ imprescindibile il carattere temporaneo dell’intervento dello Stato, la cui permanenza e la cui uscita dagli assetti proprietari dovrebbe essere corredata da cautele che, da un lato, non compromettano le dinamiche concorrenziali e, dall’altro, consentano di assicurare una seppur limitata profittabilità dell’investimento pubblico”. Traduzione: va bene entrare nelle nostre aziende ma una volta che le avete risanate ce le ridate.

 
 
 

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