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Messaggi di Febbraio 2020

Coronavirus, se la Cina si ferma le conseguenze sull’economia possono essere positive

Post n°4548 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Loretta Napoleoni Società - 16 Febbraio 2020

 

Da settimane si parla solo del coronavirus. A parte la paura di essere contagiati, si temono le conseguenze sugli equilibri economici. Si sa, l’impatto delle epidemie sull’economia mondiale è sempre catastrofico, viene spontaneo pensare che più gente muore più si contrae l’economia. Ma è vero anche il contrario, la scomparsa di milioni di persone può creare nuove opportunità per chi rimane in vita. E’ quello che in effetti è successo con la peste nel 14esimo secolo.

Secondo i dati riportati dalla Chiesa, la peste uccise un terzo della popolazione europea, la percentuale di mortalità si pensa fosse del 75%, quindi altissima. Storici e antropologi sostengono che una tale catastrofe cambiò il sistema economico perché venne a mancare l’abbondanza di lavoro. Chi aveva bisogno di braccianti, ad esempio, li doveva pagare invece di farli diventare servi della gleba perché la domanda di lavoro era inferiore all’offerta. Tutto ciò spinse anche la ricerca tecnologica per massimizzare la produttività della forza lavoro.

Sebbene la peste finì ufficialmente nel 1353 come epidemia continentale, ricomparse in alcune zone dell’Europa fino al 1400, mantenendo la popolazione europea costante, e quindi l’offerta di lavoro bassa. Durante questo secolo di grandi cambiamenti demografici l’economia europea crebbe. I salari dei braccianti, che fino allo scoppio della peste erano stati costretti ad essere servi della gleba si raddoppiarono, i maggiori proventi si tradussero in un miglioramento in tutte le classi basse, mentre la contrazione della popolazione produsse un rapporto ottimale con le terre disponibili.

La migliore distribuzione della ricchezza portò anche ad un aumento della scolarità: nel 1343 l’alfabetizzazione in Europa e nel Medio Oriente era sotto il 5%, nel 1800 in Europa era salita al 50% mentre in Turchia era rimasta invariata.

Sul piano tecnologico in risposta alla catastrofe della peste gli europei migliorarono i sistemi di estrazione delle miniere, quelli di navigazione e introdussero l’aratro pesante trainato non più da un bue ma da un cavallo, che permise un miglior sfruttamento della terra e un’ulteriore aumento della ricchezza.

L’analisi delle conseguenze economico-sociali di lungo periodo della peste ci deve far riflettere sull’impatto di lungo periodo del coronavirus, qualora l’epidemia non venga debellata velocemente, come avvenne con la Sars. Sebbene il coronavirus non possa essere paragonato alla peste, di gran lunga più infettiva e mortale, il ruolo centrale che la Cina svolge nell’economia globalizzata può ampliarne l’impatto e trasformare radicalmente gli equilibri attuali.

La Cina è una fonte essenziale di approvvigionamento per diversi settori produttivi, basta menzionare l’industria elettronica e quella automobilistica. Nella prima Pechino è ormai leader con al suo attivo il 30% delle esportazioni globali, pari a cinque volte il fatturato della Germania. Ma anche nell’industria automobilistica la Cina è leader per quanto riguarda le componenti.

La dipendenza dalle catene di approvvigionamento cinesi può mettere in ginocchio interi settori, come quello automobilistico, adesso che queste si sono fermate. La Fiat Chrysler si trova già in una situazione critica, mentre all’inizio di febbraio la Hyundai ha dovuto chiudere le fabbriche nella Corea del Sud e la Volkswagen ha posposto la riapertura di quelle in Cina fino alla settimana prossima.

A livello globale i numeri sono ancora più preoccupanti: la Cina importa l’11 per cento del volume totale delle esportazioni, il 2,7% in più di 20 anni fa. Un cambiamento di un paio di punti percentuali nel consumo cinese ha quindi un impatto enorme sulla domanda globale.

Una riflessione da fare a questo punto è la seguente: la peste ridisegnò il sistema economico-sociale del vecchio continente perché uccise un terzo della popolazione, il coronavirus potrebbe avere un impatto simile senza mietere altrettante vittime, semplicemente attraverso il contenimento dell’epidemia, e cioè la quarantena imposta in gran parte della Cina che blocca le catene di approvvigionamento mondiali.

Non importa se il numero dei morti sarà inferiore a quello della grande influenza del 1917, la cosiddetta Spagnola, che fece fuori 40 milioni di persone: ciò che conta è la caduta della produzione e della domanda cinese prodotta dalle norme per prevenire il contagio.

 

 
 
 

Usa, le mail trafugate a George Soros finiscono online: “È architetto di ogni colpo di Stato degli ultimi 25 anni”

Post n°4547 pubblicato il 16 Febbraio 2020 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano | 17 Agosto 2016

Dc Leaks pubblica i file rubati dai database della Open Society Foundation dell'imprenditore ungherese americano: "A causa sua e dei suoi burattini gli Stati Uniti sono considerati come una sanguisuga e non un faro di libertà e democrazia"

Ci sono i dossier sulle elezioni Europee del 2014 ma anche quelli sul voto nei singoli Stati, i fascicoli sui finanziamenti elargiti alle organizzazioni non governative di tutto il mondo e persino i rapporti sul dibattito politico in Italia ai tempi della crisi dell’Ucraina. Sono solo alcuni dei documenti rubati dai database della Open Society Foundation di George Soros. Appena pochi giorni fa Bloomberg aveva raccontato che, oltre ad aver violato i server del partito Democratico, avrebbero anche trafugato le mail dell’imprenditore americano.

E adesso Dc Leaks ha varato dcleaks.com, un portale interamente dedicato ai documenti trafugati dalle caselle mail del magnate statunitense. Nove categorieUsa, Europa, Eurasia, Asia, America Latina, Africa, World bank, President’s office, Souk – migliaia di documenti consultabili online o da scaricare in pdf.

Dentro c’è un po’ di tutto: commenti sulle elezioni nei Paesi di mezzo mondo, rapporti sui “somali nelle città europee” e sul bilancio di previsione statunitense, ma anche dossier sulla crisi tra Russia e Ucraina con una serie di allegati che spiegano la posizione dei vari stati Europei sulla vicenda.

In homepage, poi, c’è un post che spiega il motivo della pubblicazione dei file. “George Soros – scrivono gli hacker –  è un magnate ungherese- americano, investitore , filantropo, attivista politico e autore che, di origine ebraica. Guida più di 50 fondazioni sia globali che regionali. È considerato l’architetto di ogni rivoluzione e colpo di Stato di tutto il mondo negli ultimi 25 anni . A causa sua e dei suoi burattini gli Stati Uniti sono considerati come una sanguisuga e non un faro di libertà e democrazia. I suoi servi hanno succhiato sangue a milioni e milioni di persone solo per farlo arricchire sempre di più. Soros è un oligarca che sponsorizza il partito Democratico, Hillary Clinton, centinaia di uomini politici di tutto il mondo. Questo sito è stato progettato per permettere a chiunque di visionare dall’interno l’Open Society Foundation di George Soros  e le organizzazioni correlate. Vi presentiamo i piani di lavoro , le strategie , le priorità e le altre attività di Soros. Questi documenti fanno luce su uno dei network più influenti che opera in tutto il mondo”.

 
 
 

Sempre meno lavoratori e sempre più profitto. È il progresso, bellezza!

Post n°4546 pubblicato il 13 Febbraio 2020 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano


Nella triste prevedibilità delle cose c’è anche questa: per i prossimi mesi sentirete in sottofondo, laggiù, nascosta nel rumore di fondo, la noiosa tiritera della vertenza Unicredit. Cronache sindacali, penultime notizie nei telegiornali, trafiletti stanchi nelle pagine dell’economia, incontri interlocutori al ministero, eccetera eccetera. Numeri da qui al 2023: 6.000 lavoratori da licenziare (o prepensionare, o agevolare all’uscita, o tutti i pietosi eufemismi che si usano in questi casi) e profitti che salgono (5 miliardi l’obiettivo) per la gioia degli azionisti.

Quindi lo dico qui, prima che la questione diventi logoro tran-tran quotidiano e noiosa ripetizione: 6.000 persone che perdono il lavoro non sono solo una voce di bilancio, ma famiglie che vanno in crisi, ragazzi che vedono l’orizzonte incresparsi, programmi futuri che vanno a rotoli, ansia, insomma migliaia di vite che cambiano in peggio, ceto medio che scivola verso la povertà e la paura del futuro. Detta semplice e brutale, è uno scambio di ricchezza tra lavoratori e azionisti, milioni e milioni di euro che si spostano dal lavoro al profitto, dai salari di molti alla rendita di pochi.

Il piano Team 23 viene annunciato quando appena si è messo via lo champagne per la “felice” conclusione del piano Transform 19, che ha fatto la stessa cosa nel triennio precedente: via qualche migliaio di lavoratori e su i profitti. Non si tratta quindi dell’azienda in crisi, dell’imprenditore che piange e che non ce la fa, che è costretto a licenziare con la morte nel cuore, che “salva” i dipendenti rimasti (narrazione tradizionale di stile marchionniano, da tutti accettata mentre gli Agnelli stappano). Bensì di una semplice partita di giro: soldi contanti che passano dalle tasche dei lavoratori a quelle dei proprietari, azionisti, supermanager, fondi sovrani che già guadagnano molto e vogliono guadagnare di più. Segue lo spiegone tecnico-pratico: i clienti non vanno più allo sportello, pagano col telefono e le app, che è un po’ come dire: mi spiace gente, ma siccome abbiamo inventato il telaio a vapore, nelle filande c’è un sacco di gente che non ci serve più, cioè non è la prima volta che il profitto si fa scudo della tecnologia per far pagare il conto ai lavoratori.

Non si tratta naturalmente “solo” di una banca (il tratto è comune a tutto il sistema bancario italiano: meno posti di lavoro e più utili, e più bonus ai manager), ma di capire come sarà il disegno del futuro. Le imprese attive e sane che licenziano non sono una novità, ma anzi una tendenza in atto da anni. In più, si tratta di un evidente, quasi plastico, allargamento di quella famosa forbice delle diseguaglianze che tutti dicono di voler combattere e fronteggiare: chiamatelo come volete, il piano, ma alla fine chi ha di più avrà ancora di più e chi ha meno avrà ancora di meno.

Ora, prima che tutto divenga trattativa difensiva, tira e molla e stanca cronaca sindacale, resta il disegno generale: una progressiva proletarizzazione del ceto medio, un mercato che detta le regole della selezione e della qualità della vita della gente: certi saperi non servono più, c’è l’algoritmo, c’è la app, però serve gente che consegna i pacchi, possibilmente pagata a cottimo e con turni e carichi di lavoro, quelli sì, da filanda ottocentesca.

In questo caso la narrazione corrente è: il mondo cambia, che ci possiamo fare. Ma in questa enfasi sul cambiamento non si inserisce però il profitto, che non deve cambiare mai, che è l’unica variabile indipendente riconosciuta, benedetta e intoccabile. Accettando questo impianto culturale, peraltro dominante da decenni, tra un po’ avremo veramente bisogno di un Dickens a raccontare come una volta qui era tutta piccola borghesia, sicurezza e futuro tranquillo, e adesso… Dickens ai tempi dell’iPhone.

 

 
 
 

elezioni irlandesi: un altro mattone che crolla..

Post n°4545 pubblicato il 11 Febbraio 2020 da ninograg1
 

.. ci siamo. Dopo la Brexit, nonostante i mugugni scozzesi ( e li si può anche capire visto che la loro economia e i finanziamenti dipendono in toto dalla UE), che ha creato un mercato alternativo a quello 'europeo', ora anche l'Irlanda si avvia sulla stessa strada: il Sinn Fein partito (storico partito indipendentista di sinistra del paese) ha stravinto (col 24,5%) le locali elezioni: non abbastanza da governare da solo ma da condizionare le future scelte si, eccome: con una piattaforma economica e sociale radicale. Ora non è che sarà dall'oggi al domani ma il processo sotteso esiste e ormai entra nel panorama politico del paese. Sono cose lunghe e vanno trattate con cura ma l'euroscetticismo non è più una cosa di pochi e divisi elementi disturbatori del fango in cui tutti ci siamo cacciati ma una realtà a cui guardare non solo da destra ma pure da sinistra. Il seme gettato comincia, lentamente, a frutti... si rassegnano i nostalgici del mercato unico e livellatore: Isaiah Berlin, vero liberale (premio della fondazione agnelli negli anni '60 come importante esponente del pensiero liberale nel XX secolo), sosteneva che il liberalismo politico era auspicabile come humus su cui costruire un regime democratico al contrario di quello economico perchè difficilmente le persone avrebbero accettato di restare nelposto che il mercato gli assegnava senza lottare sia per cercare di migliorarsi sia per evitare di affogare; ed aveva ragione come ben sappiamo visto che decenni di UE e relativa burocretineria che decide anche sul colore delle cipolle hanno fatto nascere ovunque tantissimi movimenti 'glocal' che, al di là delle etichette che gli vengono date dai soliti corifei senza apertura mentale e al soldo, anche involontario, dei padroni del vapore (c'è sempre la ricerca nelle menti deboli della ricerca del capo che decide e guida; gli italiani in questo vi si sono sempre distinti.. fin dall'impero romano) che guardano non più alla UE come espressione dei cittadini ma come moloch lontano preda della finanza e delle lobbye a cui vi si oppongono senza se e senza ma; tranne che in italia perchè cui le pecore, anche travestite, sono maggioranza, purtroppo o per fortuna lo dirà la storia. Quali sviluppi? Bé è molto probabile che l'irlanda del nord veda rinascere la voglia di riunirsi alla madre patria così come la Scozia, super assistita dalla UE, vedrà rinascer la propria voglia indipendentista; poi c'è il problema catalogna e infine le convulsioni germaniche: eh già anche al centro del reich non fila tutto liscio ossia la 'successora' di sua maestà ha dato forfait rimettendo in gioco tutte le scelte fatte prima della merkel, come mai? Non ha carisma, tutto qui e il caso Turingia ne è la prova (un preisdente eletto con i voti degli euro-scettici di destra) e, si spera, ne determinerà il de profundis. In Francia continua, imperterrita, la lotta dei cittadini contro il proprio governo e le sue riforme pro-mercato; mi verrebbe da dire 'je suis français' se non fosse per quel manifesto, peraltro avevano ragione, 'nous ne sommes pas italiennes'... e in italia? Calma piatta: addomesticati i 5 Stelle cosa rimane? Piaccia o meno la destra, quella vera non acquisita in transito dalla sinistra. Naturalmente non è così semplice ma alcuni segnali sono importanti: dopo i 5 stelle come sopra un altro punto è stato chiarito ossia le sardine che si fanno foto-opportunity con le famiglie industriali, e si dividono in mille rivoli (quelle romane ad esempio hanno mandato un vaffa ai presenzialisti nazionali), mentre partecipano a convegni per spartirsi l'elettorato con prodiani, ex-dc, pd e altre strane figure che si sperava fossero cadute nel cestino della storia come a dire: gratta gratta e cosa spunta da sotto le scaglie delle sardine e loro amici? Balene.. bianche (invecchiatissime ma pur sempre vitali) e questo la dice lunga, molto lunga, su chi decide e guida questo c.d. movimento e sulle sorti del nostro sfigatissimo paese.La sola cosa che mi fa ben sperare è che gli italiani si sono sempre distinti per essere spesso e volentieri i primi a scendere dai carri in difficoltà e i primi a salire su quello dei probabili vincitori: sfruttando questa caratteristica forse si riuscirà, si parla delle ns tasche, a cambiare cavallo e cavaliere; la domanda, comunque e solo per ora, sorge spontanea: per chi diavolo votare alle prossime elezioni?

Naturalmente non è nel mio stile dare indicazioni ma mio obiettivo è fare il c.d. 'grillo-talpa: figura mutuata dal rugby che si connota come un giocatore con la capacità di infilarsi nella ruck e rubare la palla agli avversari; questo perché rimanda alla capacità del grillotalpa di utilizzare le zampe anteriori per "estrarre" con forza la terra (nel caso del rugby l'ovale).

 
 
 

Brexit, Johnson punta a un rapporto più stretto tra economia e governo. Ma non ha fatto i conti con Bruxelles

Post n°4544 pubblicato il 09 Febbraio 2020 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro - 9 Febbraio 2020 Loretta Napoleoni

A dieci giorni dalla Brexit Londra e Bruxelles sono già ai ferri corti. C’era da aspettarselo, Boris Johnson vuole trasformare il Regno Unito in una nazione con poche tasse, ancor meno restrizioni legislative e molte opportunità. Bruxelles vuole esattamente il contrario, e cioè continuare a condizionare il Regno Unito con le proprie leggi e minaccia di alzare barriere all’importazione se ciò non succede.

Al centro della disputa c’è una visione relativamente nuova: creare una sorta di Singapore sul Tamigi, uno stato diverso da quelli che lo circondano. Adesso che sappiamo con certezza che alla fine dell’anno Londra non farà più parte delle capitali dell’Ue vale la pena approfondirne il significato, anche se in questo blog ne ho già parlato.

Lanciata nel 2017 dall’ex cancelliere Philip Hammond, la visione di una Singapore sul Tamigi è piaciuta molto fin dall’inizio ai Brexiters che l’hanno spesso usata per descrivere il futuro assetto della nazione. Tuttavia, non è mai stata accompagnata a un chiaro piano d’azione. Più di un piano a lungo termine, la frase Singapore sul Tamigi è stata un motto, una promessa di modernizzare il paese e di reinventare il suo ruolo geopolitico una volta libero dal condizionamento di Bruxelles. Ciò non ha impedito le critiche. Tra queste la paura che il Regno Unito si trasformi in un paradiso fiscale, un paese con legislazione lassista ed economia non regolamentata, a pochi chilometri dal suo vicino super regolamentato, l’Unione europea.

Ma è proprio così? Singapore non è un paradiso fiscale per coloro che vogliono evitare le tasse, piuttosto è un sistema politico in cui il governo e l’economia sono indissolubilmente interconnessi, e infatti dopo il crollo finanziario del 2009 Singapore si è ripresa proprio grazie alla sua solida e onnipresente burocrazia che detiene quote di controllo azionario nella maggior parte delle più grandi imprese del paese. Tutto ciò, unito a una meticolosa pianificazione economica da parte di funzionari tecnocratici, consente al governo di Singapore di influenzare il proprio mercato per garantire che la crescita rimanga sulla buona strada. Boris Johnson vorrebbe disegnare il futuro del Regno Unito alla luce di una relazione altrettanto intima tra il governo e l’economia sullo sfondo di una liberalizzazione prodotta dall’uscita dall’Ue.

Poco ancora si sa sui dettagli, ma di certo l’agenda del governo includerà: l’introduzione di regolamenti finanziari meno rigidi; la riduzione delle imposte per attrarre società e investimenti stranieri; una deregolamentazione per dare una spinta alla produzione; finanziamenti statali per sostenere le imprese nazionali e quindi avvantaggiarle rispetto ai concorrenti europei; la negoziazione di nuovi accordi commerciali e una politica di immigrazione altamente selettiva, che di fatto consente solo alle persone di cui il paese ha bisogno di venirci a vivere.

I sostenitori di Johnson sono fermamente convinti che il Regno Unito sarà in grado di ridurre le tasse perché non più vincolato dalle norme Ue in materia di imposta sul valore aggiunto e potrà liberalizzare e investire nella propria economia perché controlla la moneta nazionale. Naturalmente, l’Unione europea si opporrà a tutte queste riforme riducendo l’accesso dei prodotti e servizi britannici al proprio mercato.

Boris Johnson non se ne preoccupa, è convinto che se il Regno Unito accetta il suo nuovo ruolo, e cioè di essere un concorrente dell’Unione europea e non più un membro o un partner – come è stato sottolineato da molti leader europei tra cui Angela Merkel – allora il ridotto accesso all’Ue non sarà poi cosi problematico: Londra guarderà ad altri mercati e farà di tutto per aumentare la competitività.

A tal fine, la Gran Bretagna potrebbe svalutare la sterlina e anche annacquare gli standard europei, spesso eccessivi, relativi alla produzione. In alcune aree, poi, come i servizi digitali, lo sviluppo di software e l’editing genetico nella biotecnologia, il Regno Unito potrebbe abbandonare la normativa dell’Ue e introdurne una sua. Così facendo diventerebbe una nazione molto più attraente dove fare affari e condurre ricerche.

Il 2020 sarà un anno interessante per il Regno Unito, ma forse la vera svolta avverrà nel 2021 quando sapremo che strada prenderà Londra fuori dall’Unione europea.

 

 
 
 

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