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Una Carbon Tax serve, ma non è abbastanza

Post n°4633 pubblicato il 07 Aprile 2021 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Ambiente & Veleni - 6 Aprile 2021  Fridays For Future Italia

Nel mezzo delle tenebre, mentre la terza ondata del virus si infrange contro le nostre imbarcazioni già precarie, intravediamo una luce. La campagna vaccinale, su cui il governo punta, ci porterà fuori da questo incubo. Ma la tanto agognata serenità e spensieratezza non durerà a lungo. Come ha scritto all’inizio della pandemia l’ex direttore del The Guardian Alan Rusbridger, il virus è solo l’antipasto della crisi climatica. Non è quindi più il tempo di vuoti proclami o discorsi strappalacrime: è ora di agire.

Tra le proposte più gettonate per combattere la crisi climatica occupa un posto privilegiato la Carbon Tax.
Questa tassa affonda le sue radici nella teoria economica mainstream: le emissioni nocive sono, infatti, un chiaro esempio di esternalità negative. Semplificando: un’azienda ha come obiettivo il profitto, quindi si tratta di ridurre i costi e aumentare i guadagni. Ma nel computo, in questo caso dei costi, ve ne sono alcuni che non ricadono sull’azienda ma sull’intera comunità. Siamo quindi in presenza di un fallimento del mercato, condizione necessaria per un intervento dello Stato.

La suddetta tassa sarebbe imposta sul consumo da parte delle attività economiche e produttive dei combustibili fossili – dal gas al carbone. Non ha funzione di gettito, e anzi nel lungo periodo esso dovrebbe essere nullo: nonostante ciò, con quanto ottenuto nel breve periodo si potrebbe finanziare una parte della transizione ecologica. Tuttavia è necessario porre l’accento su alcune importanti questioni.

 

Primo: da sola la Carbon Tax non solo non è sufficiente, ma rischia di essere dannosa. Innanzitutto, è necessario – perché sia efficace – che essa sia implementata in maniera graduale, il che significa non ritardare troppo la sua imposizione, considerati i pochi anni che rimangono per riuscire ad agire contro la crisi climatica. È dunque opportuno che una tassazione di questo tipo sia posta il prima possibile. Inoltre, a livello di Unione Europea, da una parte manca un’armonia fiscale (che sarebbe invece assolutamente necessaria al funzionamento di una tassazione di questo tipo), dall’altra senza una sua controparte “alla frontiera” (i.e. una tassazione sui prodotti di importazione basata sulla CO2, ed equivalenti, emessa per la produzione di tale prodotto) rischia semplicemente di portare alla delocalizzazione della attività produttive.

Secondo – ma non certo per importanza – c’è da tenere di conto del principio fondamentale che deve essere posto alla guida della transizione ecologica: la giustizia sociale. Se da una parte il concetto di imposta sull’esternalità risponde all’ideale di fondo – patrimonio anche del diritto Ue vedasi l’Art. 191, comma 2 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea – del “chi inquina paga”, senza una riforma complessiva del sistema fiscale e una estrema attenzione alla questione sociale e lavorativa l’onere di una tassa del genere rischia di ricadere sul lato rigido del mercato, e conseguentemente sulle fasce meno abbienti della popolazione.

Infine, per impedire il collasso climatico e per garantire una giusta transizione ecologica è necessario abbandonare il paradigma del non-interventismo statale nell’economia. Per fronteggiare la crisi climatica serve un ripensamento della politica industriale. Ovviamente questo punto non è indolore: il rischio di un’eccessiva politicizzazione è sempre dietro l’angolo. Per questo il rinnovato interesse per l’intervento statale nell’economia si deve accompagnare a una seria riflessione sulla governance e sulle strategie da adottare.

Il nostro Paese non ha ancora implementato una Carbon Tax e invece di sussidiare attività che vanno nella direzione della transizione ecologica fa l’esatto opposto, dando 19 miliardi all’anno ai combustibili fossili. Con il gettito ottenuto nel breve periodo, oltre a finanziare la transizione, si potrebbe intervenire sulla tassazione: abbassare infatti le aliquote marginali più basse dell’Irpef porterebbe a un aumento dei consumi, quindi della domanda. Questo, unito a un programma di incentivi statali, ci avvierebbe sulla strada di quella che potremmo chiamare “transizione ecologica gentile”.

Per agire sul lato della domanda è altresì necessario un piano di investimenti pubblici, sulla falsariga del “Green New Deal” presentato al Congresso da Alexandria Ocasio Cortez. Così facendo, inoltre, si andrebbero a creare “good jobs”, in grado di aumentare la produttività stagnante del nostro Paese.

Questo perché gli investimenti nella transizione creano molta più occupazione di qualsiasi investimento fatto nel fossile. Si parla, infatti, di un rapporto di circa 3:1. Tirando le somme, dunque, come direbbero i matematici: la Carbon Tax è una condizione necessaria, ma non sufficiente.

 

 
 
 

Spionaggio russo, si fa presto a dire Guerra Fredda

Post n°4632 pubblicato il 04 Aprile 2021 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Stefania Limiti Cronaca - 31 Marzo 2021

Si fa presto a dire Guerra Fredda ma allora, quando veniva scoperta una spia, non seguiva un comunicato stampa. L’incredibile vicenda del capitano di Fregata beccato con le pive nel sacco dal Ros dei Carabinieri scuote gli ambienti diplomatici e militari ed evoca la Guerra Fredda. Gli ingredienti ci sono tutti: un ufficiale della Marina e un militare russo, accreditato all’ambasciata di Mosca a Roma, i due da tempo si scambiano documenti, non sanno che l’Aisi, l’Agenzia Informazioni Sicurezza Interna, li tiene d’occhio e ha già informato lo Stato Maggiore della Difesa.

L’affaire potrebbe avere contorni pazzeschi, vedremo. Se non fosse per quei miseri 5000 euro: tanto ha intascato il capitano di Fregata per passare documenti top secret che riguarderebbero sistemi di telecomunicazione militare e carte della Nato. Ora l’uomo si trova in stato di fermo per spionaggio e rivelazione di segreto mentre il cittadino russo e un suo complice sono stati immediatamente espulsi dalla Farnesina. Non sappiamo dunque da quanto tempo andasse avanti questo mercato e quali danni possa aver creato alle informazioni riservate, ma quei 5mila euro e questo immediato rimbalzo delle notizie....

Un tempo, stanato lo sporco traffico, si sarebbe stappata una bottiglia al chiuso di un ufficio impregnato di fumo, se proprio si voleva festeggiare. Poi si passava a studiare la faccenda e lì iniziava un contorto dialogo a distanza da una sponda all’altra, si aprivano trattative o ricatti, c’era sempre qualcosa da scambiare. Di certo non arrivava il pm di turno, a nessuno veniva in mente di condurre le operazioni chiedendo permesso. Roba da far tremare i polsi a pensarci oggi, ma allora era così.

La storia della Guerra Fredda è accaduta fuori da ogni ufficialità, ancorché gli storici cerchino documenti ufficiali. Figurarsi cosa accadeva per le faccende di spie. Vi immaginate il folle James Angleton chiamare l’ufficio del procuratore per spiegare come veniva reclutate le ex spie naziste? O il mitico colonnello Yuri Drozdov, immortalato ne Il ponte delle spie da Steven Spielberg, discutere i particolari di un comunicato stampa?

La brutta storia di oggi ci fa pensare, piuttosto, a poveracci in cerca di soldi, magari persi al gioco, improvvisati felloni che si vendono carte nell’era del digitale, più che a spie. Ci ricorda, in definitiva, che la Guerra Fredda è lontana.

 
 
 

Perché si parla poco del costante calo del quoziente intellettivo della popolazione

Post n°4631 pubblicato il 29 Marzo 2021 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Paolo Ercolani Società - 28 Marzo 2021

 

Uno degli esempi più lampanti di quanto poco la nostra epoca si preoccupi dell’intelligenza è dato dall’hashish. Legalizzarlo sì, legalizzarlo no, un favore alla malavita, però lenisce le sofferenze dei malati terminali (vero), placa l’ansia (vero solo in alcuni casi). Nessuno, però, che si concentri sull’unico effetto accertato: i danni provocati al cervello, in particolare la riduzione del volume della materia grigia orbito-frontale, in molti casi con un riscontrato calo del quoziente intellettivo.

Già, il quoziente intellettivo. Al netto di tutte le critiche legittime sui criteri, e sulla pretesa di misurare un fenomeno così complesso come l’intelligenza, se ci atteniamo ai dati degli ultimi cento anni facciamo una scoperta interessante. Per larga parte del XX secolo e fino al 2009 il livello medio di intelligenza della popolazione è aumentato (fenomeno noto come “effetto Flynn”). Ciò è dovuto a vari fattori, tra cui un ambiente sociale e intellettuale più stimolante, il protrarsi e l’intensificarsi degli studi scolastici, le sfide intellettuali lanciate quotidianamente dalla società (attraverso libri, giornali, inchieste eccetera), i progressi della Scienza dell’educazione e, infine, la maggiore attenzione dei genitori nel curare il livello e la qualità dell’apprendimento dei loro figli.

Insomma, la società lavorava per l’intelligenza della popolazione. Fino alla notizia shock del 2016, a cui stranamente si dette scarsa risonanza. Un nuovo studio condotto da Richard Flynn e da un suo collega mostrò che tra il 1990 e il 2009 il Q.i. aveva cominciato lentamente ma inesorabilmente a calare. Un calo costante che, oggi, è diventato vero e proprio tracollo, se pensiamo alla percentuale di persone afflitte dal cosiddetto analfabetismo funzionale (sanno leggere, ma non capiscono il senso né sono in grado di rielaborarlo e spiegarlo). Le cause di questo tracollo sono molteplici, come sempre, ma una emerge su tutte le altre: la comparsa di nuove tecnologie digitali che, specialmente nel caso dei più giovani, rappresentano un potentissimo e pervasivo elemento di degradazione delle facoltà cognitive, emotive e relazionali.

E dire che l’uomo, fra le creature più deboli fisicamente e povere di istinti di tutto il pianeta, ha un bisogno fondamentale della propria intelligenza, perché è con essa che riesce a sopperire ai limiti di cui sopra e adattarsi alle insidie del mondo esterno. Il processo che consiste nell’immagazzinare dati, creando così la memoria, per poi elaborarli creando un ordine di senso con cui “afferrare” le cose del mondo, si chiama apprendimento. Il fatto che ogni individuo impari il processo di cui sopra in maniera funzionale e singolare, rende possibile la formazione di un pensiero “autonomo e critico”, che significa non meccanicamente generato da dogmi superiori né passivamente omologato alle “leggi” imposte da un regime.

Il guaio è che oggigiorno è l’Intelligenza Artificiale a occuparsi del processo di immagazzinamento, memoria ed elaborazione dei dati, con l’intelligenza umana ridotta a svolgere un ruolo ausiliario e sempre più ininfluente. Ecco cosa scrive a tal proposito il neurobiologo Laurent Alexandre, a pagina 73 del suo La guerra delle intelligenze. Intelligenza artificiale contro intelligenza umana, EDT, Torino 2017: “Laddove il libro favoriva una concentrazione duratura e creativa, Internet incoraggia la rapidità, il campionamento distratto di piccoli frammenti d’informazioni provenienti da fonti diverse. Un’evoluzione che ci rende più che mai dipendenti dalle macchine, assuefatti alla connessione, incapaci di procurarci un’informazione senza l’aiuto di un motore di ricerca, dotati di una memoria difettosa e alla fine più vulnerabili a manipolazioni di ogni sorta”.

Spogliati da ogni pregiudizio o istinto reazionario, bisognerebbe riflettere su tutto questo prima di aderire acriticamente alle politiche di diffusione entusiasta delle nuove tecnologie presso i ragazzi. Penso, solo a titolo di esempio, alla recente campagna “Digitali e uguali”, promossa dal gruppo editoriale Gedi, guarda caso in collaborazione con una nota impresa che vende prodotti rigorosamente online. L’iniziativa è eticamente ineccepibile (dotare di un computer ogni ragazzo nell’epoca della Didattica a distanza), ma condotta con finalità economiche più che pedagogiche. Non contesto le ragioni economiche, perché sebbene il comparto delle imprese online sia l’unico che sta facendo riscontrare profitti enormi in questa epoca di lockdown, la cosa è perfettamente legittima.

Quanto piuttosto dovrebbe allarmare l’entusiasmo acritico con cui la nostra società, con tanto di testimonial illustri (le luci della ribalta hanno un prezzo), non si preoccupi per nulla dei danni irreparabili che l’abuso di queste nuove tecnologie provoca sui giovani. Mi può stare anche bene l’idea di un computer a “testa”, ma vorrei che si spendessero energie (e finanze) anche per occuparsi della qualità di quelle “teste”, quando in realtà si spendono cifre astronomiche per potenziare l’Intelligenza Artificiale e quasi più nulla per quella umana. A farlo dovrebbe essere un mondo politico e sociale seriamente interessato alla formazione cognitiva dei propri cittadini, e non appiattita sulla logica finanziaria di chi, per tante ragioni, sembra interessato soltanto a crescere quelli che Charles Wright Mills chiamava i “docili robot”...

 

 

 
 
 

Varoufakis contro Draghi: chiederà alla mafia di riorganizzare la giustizia?

Post n°4630 pubblicato il 21 Marzo 2021 da ninograg1
 

Fonte: WSI 11 Marzo 2021, di Mariangela Tessa

 

Pesante affondo di Yanis Varoufakis sul governo Draghi. In un post pubblicato ieri su Twitter, l’ex ministro delle Finanze greco non ha risparmiato critiche sulla decisione presa dall’esecutivo italiano di coinvolgere la società di consulenza direzionale McKinsey nella redazione del Recovery plan:

“Così prevedibile e così triste: Mario Draghi incarica McKinsey di organizzare la distribuzione dei soldi del Recovery fund. Quale la prossima mossa? Affidare alla mafia la riorganizzazione del ministero di Giustizia?"

Come inevitabile il post ha scatenando un’ondata di critiche tra i follower – ne ha circa un milione – e di molti utenti italiani.

“La prossima cosa da fare sarà quella di assumere Varoufakis come esperto di diritto fallimentare”, osserva ironicamente Salvo Cozzolino.

“Ci dispiace molto che voi non abbiate avuto una persona come Mario Draghi nel 2011 in Grecia”, commenta un altro utente.

“Altro che Mafia. Dopo aver sperimentato Varoufakis & Co. al governo, i greci preferito avere come Primo ministro un ex dirigente di McKinsey come Kyriakos Mitsotakis”, fa notare il giornalista Luciano Capone.

Varoufakis: per il ministro Franco McKinsey avrà un ruolo editoriale

E per spazzare via i dubbi sul ruolo dell’incarico attribuito alla società di consulenza McKinsey, la scorsa settimana, nel corso di audizione parlamentare, il ministro dell’Economia Daniele Franco è tornato sulla vicenda, ribadendo che nessuna società privata avrà alcun ruolo decisionale né accesso ad informazioni privilegiate.

Franco ha ricordato come sia prassi diffusa tra governi ed istituzioni europee ricorrere ai servizi offerti da queste e società e come anche palazzo Chigi abbia in essere da tempo.

Il ministro è poi sceso più nel dettaglio su quelli che sono i compiti attribuiti a McKinsey con contratto da 25mila euro + Iva. L’incarico, ha detto il ministro

“riguarda aspetti metodologici nella redazione del piano, aspetti più editoriali che di sostanza e senza nessuna intromissione nelle scelte. L’importo è del resto coerente con un lavoro di questo tipo”.

Franco ha infine aggiunto:

“Questo perché le strutture pubbliche a volte hanno bisogno di input specialistici per affrontare alcuni specifici lavori, tipicamente se uno deve fare delle presentazioni di slides a volte ci sono persone molto più efficaci a farlo di quanto possano esserlo dirigenti o funzionari pubblici che hanno altre competenze e qualità”.

 

 
 
 

Recovery plan, i giornali lodano le schede “di Draghi”. Giovannini chiarisce: “Sono quelle del Conte 2.

Post n°4629 pubblicato il 16 Marzo 2021 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano  | 16 Marzo 2021

Non, non è il “Recovery plan targato Draghi” come ha scritto qualcuno. Non entra “molto più in profondità nei singoli filoni di spesa”, come ha sostenuto Il Sole 24 Ore. E anche “la proroga del superbonus edilizio al 2023″ è semplicemente una delle ipotesi vagliate dal governo precedente. Perché il documento con le schede tecniche sui progetti del Recovery plan inviato al Parlamento la scorsa settimana è quello scritto dal Conte 2 prima della crisi, come ha spiegato Il Fatto Quotidiano. E come, del resto, aveva chiarito il ministro dell’Economia Daniele Franco, annunciando l’invio alle Camere delle note tecniche “che noi ministri abbiamo ricevuto nel passaggio di consegne”.

Il frutto degli sforzi della nuova cabina di regia del Mef guidata da Carmine Di Nuzzo non si è ancora visto, dunque, e di sicuro non è contenuto in quelle pagine si cui pure molti hanno dato conto come si trattasse di una riscrittura in cui “per la prima volta ci sono obiettivi, tempi, costi e una serie di dettagliatissime tabelle”(Libero Economia).

A fare chiarezza ci ha pensato il ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili, Enrico Giovannini, che martedì in audizione alle commissioni riunite Ambiente e Trasporti della Camera ha dovuto non solo ripetere il concetto – “Il Parlamento ha ricevuto la bozza del Pnrr preparata dal precedente Governo e il ministro Franco ha fatto pervenire al Parlamento le schede tecniche” – ma anche precisare che “quelle schede erano anche antecedenti alla selezione che il precedente governo ha fatto in sede di bozza di Pnrr approvata e trasmessa al Parlamento. E’ importante questa sottolineatura perché avrete visto in quella lista delle opere che in realtà il precedente governo aveva già escluso“. Nota quanto mai necessaria visto che Il Tempo tre giorni fa ha titolato: Funivia Casalotti Boccea, Mario Draghi mette le ali a Virginia Raggi: il progetto pagato dal Governo. Ma quella di finanziare con il Recovery la funivia cara alla sindaca M5s era solo una delle centinaia di richieste planate sulle scrivanie dei ministri durante il Conte 2 e non recepite nella versione del piano approvata in cdm a gennaio.

 

 
 
 

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