Kremuzio

Nella testa degli altri


Ieri sono rimasto una mezzoretta ad aspettare, in una piazzetta che sembrava quella di un paese, semideserta a volte, con edifici bassissimi ed una chiesetta. La panchina era comoda e fredda, il tempo ventoso mi riempiva di chiarezza cerebrale nonostante avessi un po’ di sonno.In questo osservatorio privilegiato potevo pensare lucidamente, rinchiuso nel mio giaccone col cappuccio calato fin sopra gli occhi, come un tristo mietitore, a scrutare la vita che non mi riguardava, quella che passava davanti, quella che correva e quella che, lenta, sembrava non passare.In un esercizio che a volte mi vede attivo, stavo li, quasi mimetizzato davanti un po’ di verde, fermo, respirando profondamente ma lentamente, e cercavo di uscire dalla mia testa, nella quale è rinchiuso il mio pensiero, e cercavo di volare via ed entrare nella vita altrui.Uno che avrà avuto qualche anno più di me, forse, era in piedi dietro la chiesa, a pochi metri e parlava forte al telefono con un amico. Sarebbe andato a cenare in un posto dove era difficile parcheggiare. Aspettava la moglie che non voleva uscire dalla chiesa e che non sarebbe andata in trattoria. E vedo il nervosismo, ed entro nella sua testa.Ne riesco subito, non mi piace urlare al telefono, non mi piace quello che dice, le frasi che vogliono essere spiritose. Meglio entrare nella testa di quel bambino con la palla. Da’ calci che fanno rimbalzare il pallone e lo fanno sbattere contro il muro di una casetta. Il rimbombo diventa un piccolo eco, specie quando il calcio è più forte. Non sa giocare, non sa palleggiare ed ogni tanto liscia li colpo. Non mi piace. Entro nella testa di quella signora giovane con la carrozzina. Sorride e spinge attraversando la piazzetta. Penso che sta andando a casa e preparerà la cena. Forse è andata a trovare la madre, il marito è andato allo stadio e lei cammina fiera col suo bambino. Ricordo quando passeggiavo con mia madre nei pomeriggi invernali, rinchiuso nel mio cappottino, di ritorno dai nonni, in quelle strade buie di una Roma anni ’60, con traffico, carrozzelle e tram sferraglianti. I tram sferragliano sempre, lo fanno ancora oggi. Ricordo poca luce, silenzi che non erano rotti dalle pubblicità, dalle radio dalle televisioni, dai telefonini. Ecco, la mia infanzia era immersa nel silenzio, quello che ti fa fischiare le orecchie. Non mi piace, ma abbandono il ricordo con un dolce oblio.Un cagnetto al guinzaglio fissa la porta della chiesa dove è entrata la padrona. Ogni respiro è un fischio acuto, un gemito, una lamentela. Piange con un ritmo lento, preciso, anche se la coda scodinzola ogni volta che pensa di riconoscere la faccia amica, il corpo memorizzato, il rumore delle scarpe, l’odore del capobranco. Mi immedesimo. Guardo fisso e cerco di riconoscere. Sono triste, mi sento abbandonato. Forse è quella, forse no, scatto e mi fermo, tiro il guinzaglio, soffoco. Non è lei.Che tristezza, quasi quasi mi faccio un sonnellino, restando dentro la mia testa.