Kremuzio

Tetti e tette


Siamo in tempi di festeggiamenti: domani tocca ai lavoratori, anche a quelli che domani lavorano. Lavoreranno più contenti? A Roma, se il tempo lo consente, andremo fuori porta a mangiare fava fresca e pecorino. Che abbinamento strano, obbligatorio per il primo maggio. Non credo che lo farò. A proposito di lavoro, ora vi racconto uno dei primi lavori che ho svolto quando ero giovanissimo, così per comprarmi qualche libro, andare al cinema e pensare di mettermi i soldi da parte per la vecchiaia (che beffa…). Un piccolo inciso: mi sono sempre piaciute le radio per il fatto che le voci potessero venire da fuori. Non come qualcuno che pensa che all’interno ci siano persone piccolissime che parlano e cantano… Ed ho capito che quelle onde invisibili entravano dall’antenna. E mi sono divertito a costruire antenne di varie forme e dimensioni per vedere meglio il televisore. Ed il primo ricordo che mi si affaccia alla mente è quello di quella notte in cucina con mio padre a vedere la mitica Italia-Germania 4 a 3. Potevo stare alzato la notte per quell’occasione e più del trionfo rammento la capocciata al muro che diede mio padre al gol di Schnellinger, il rinnegato milanista che fece lo sgarbo di allontanare, per mezzora, il gusto della vittoria contro i teutonici. Ma questa è un’altra storia… Torniamo alle antenne. La TV si vedeva male, non ricordo perché, allora mi inventai di prendere un tappo di sughero, avvitarlo su di un pezzo di compensato, infilarci due ferri da calza rubati a mia madre, collegarli alla piattina che usciva dal televisore, e così facendo ci godemmo lo spettacolo dopo aver ruotato il tappo verso la direzione giusta.Capii di essere portato ai piaceri antennistici. Per cui, per arrotondare la paghetta settimanale mi misi a montare antenne a parenti e conoscenti sui terrazzi. Acquistavo quei kit di antenne fatte con tantissimi pezzettini che si chiamavano Yagi, della Fracarro, marca italiana. Con i cavetti collegavo quella del primo a quella del secondo tramite il miscelatore, e via verso la tv alla quale collegavo il demiscelatore. Poi vennero le televisioni private ed i boom delle antenne per la quinta banda. Il bello del lavoro non era tanto la questione tecnica dei pali, cavi, pezzettini eccetera, ma il fatto che i tetti di Roma per un periodo di tempo non avevano segreti per me. Mi isolavo come un supereroe sui comignoli a spiare la vita dall’alto. Seduto sui cornicioni, sopra il locale delle “fontane”, sdraiato a prendere il sole sopra i cartoni che contenevano le antenne, a studiare i muschi che crescevano agli angoletti, o i ragnetti rossi che popolavano le mattonelle bianche. E le passeggiate sulle tegole senza romperle, i nidi delle rondini, le altre antenne che puntavano i direzioni diverse, allegramente ed inutilmente. I superattici mansardati e quelli pieni di alberelli. Le sdraio, sulle quali a volte trovavo belle ragazze senza reggiseno che prendevano la prima tintarella senza i segni del costume e che scappavano via senza fretta quando mi vedevano. I portinai che venivano a controllare cosa stessi facendo. I paranoici che mi vedevano e correvano a chiudersi in casa tirando le tende. Chi mi spiava con il binocolo. Le lucertole morte stecchite che forse salivano fin lassù per godersi gli ultimi istanti di vita sotto le stelle. La Luna che si vedeva di giorno. Le nuvolette bianche che cambiavano forma. Neanche un disco volante che passasse, solo ogni tanto il dirigibile della Goodyear si affacciava a spiare la città sottostante. Gli odori delle cucine che uscivano dai comignoli. Le zaffate sulfuree dei camini delle caldaie che una volta vi fecero quasi perdere i sensi. La biancheria intima stesa ad asciugare sotto il sole ed io che mi chiedevo a chi potessero appartenere quell mutandine rosa trasparenti.Mi aspettavo di veder spuntare, al crepuscolo, Mary Poppins e tutta la sfilza dei suoi amici spazzacamini, mettersi a ballare e cantare “tutt’insiem”! Ma forse erano timidi o forse quegli allegri signori vestiti di scuro e ricoperti di fuliggine, sui tetti di Roma avevano paura a saltellare. E rimanevo solo, qualche metro sopra la città, ed ero felice.