Kremuzio

Morgan fuma crack? Chissenefrega!


Non sono un esperto di droghe, per cui quando ho letto i titoloni sui giornali che quel cantante che si chiama Morgan fumava la cocaina, mi sono detto “ah”, poi su altri giornali ho letto che sempre lo stesso fumava crack, ho anche pensato “estikazzi?”. Ma poi ho fatto subito un mea culpa in quanto non sapevo che la cocaina si potesse fumare, e allora mi sono andato ad informare, anche perché volevo capire se fossero due sostanze differenti o sempre la stessa con nomi diversi.Io che quando ero giovane fumicchiavo in allegra compagnia quella sostanza che veniva chiamata fumo, tocco, libano, nero, canapa, roba, marijuana, hashish, erba, merda e chissà quanti altri. Poi c’era l’amico esperto che si metteva seduto in posizione del simil-loto a gambe incrociate e tirava fuori gli attrezzi del mestiere, ovvero le mani nude dell’artigiano. Pacchetto di sigarette dal quale se ne tirava fuori una e la si sbriciolava dopo aver strappato la carta. Il filtro con ancora la carta residua si buttava. Quindi in religioso silenzio lui o un suo aiutante estraeva da una tasca del panciotto un micro pacchettino di stagnola, che apriva per esporre agli sguardi curiosi e bramosi degli altri che osservavano in silenzio, quel piccolo grumo verdastro o marroncino scuro, nel caso migliore, tagliato con un coltellino Opinel, per la dose giusta. Si sbriciolava sul palmo della mano sudaticcia con sapienti tocchi e ritocchi, unghiate e frantumazioni. Poi si avvicinava un accendino, di solito uno zippo, per scaldare i detriti, oltre quel naturale calore della mano, ustionandosi di tanto in tanto quando la fiamma si avvicinava senza bruciare la polverina. Non sono mai riuscito a capire come facessero a non farsi male. Ci avrò provato un paio di volte ma mi mancava la manualità, per cui evitavo accuratamente di lasciarmi sbeffeggiare e lasciavo l’incombenza a chi sapeva fare il proprio “mestiere”. Mentre poi si aggiungeva alla polvere calda e molliccia il contenuto in tabacco della sigaretta disintegrata e pronta, il capo diceva a qualcuno di preparare le cartine. L’aiutante prendeva tre cartine, possibilmente lunghe della nota ditta, e si incollavano tra di loro, due parallele ed una trasversale, con generose leccate, cosa che ancor oggi mi lascia un certo senso di disgusto, visto che non era un lavoro che facevano le ragazze. All’interno, con un rapido movimento simile a quello di uno che rigira la frittata, si metteva la miscela di tabacco e polverina. Quindi si dava inizio alla mitica “rollata” con un gioco di dita, per dare la forma, per arrotondare e cilindrare il manufatto. Poi per ultimo si metteva ad una estremità il filtro, ovvero un pezzo di biglietto dell’autobus arrotolato e stretto, ma non troppo, che aveva il dovere di fermare residui di polverina non bruciata o trinciature tabaccose. E finalmente si sigillava con altre leccate della parte gommata delle cartine, con legatura ed attorcigliamento della parta opposta al filtro, per darle la forma di miccia. Quindi il maestro della rollata se la infilava in bocca e con lo zippo accendeva e tirava con violenza le boccate caldissime. E da lì in poi era tutto un “aho la voi passà ‘sta canna?” indirizzato a chi rallentava il giro oltre le due tirate canoniche. Che tempi, quando si ragionava in modo di trasformare un’attività dannosa in un incontro culturale di aggregazione tra amici. Era il nostro calumet della pace, si cazzeggiava ed immancabilmente ci si metteva a ridere come deficienti, ma non perché eravamo fatti, ma perché ci si scambiava battute. A qualcuno faceva effetto, al capo no, anche se lo si ringraziava dicendo che era un buon tocchetto di fumo, altrimenti non l’avrebbe più offerto… Alla fine, se la serata era lunga, si ricominciava il rito per la seconda ricarica, dopo che qualcuno fosse tornato con qualcosa da mangiare, visto che la fame veniva subito. A volte si provava col narghilè, oppure col cylum o con una mela bucata, per raffreddare il fumo, ma non era la stessa cosa, solo variazioni sul tema. Poi quando ho smesso di fumare, anni dopo, mi sono accorto che non è che mi mancasse quell’attività, considerando anche che chi la continuava, tra i miei amici, aveva sia i denti rovinati, sia, a volte, un’imbarazzante aria da deficiente, forse che alla fine i vari alcaloidi qualche traccia di sé la lasciavano tra le sinapsi. Mi mancano però quelle serate, le risate sgangherate e stupide, il calumet, la bottiglia di whisky a cui attaccarsi, ed il palliativo rimasto con qualche amico ed una birretta, a parte il piacere della conversazione, non è che il ricordo di quei giorni. E di Morgan e della sua ricca tossicodipendenza non me ne frega proprio niente.