Kremuzio

Tecnologia matrigna


Sto scrivendo mentre sono rinchiuso in una regìa, attento ai vari mixer, telecamere, registratori, cavi cavetti monitor e pc. A parte il fatto che mi ci trovo a mio agio, in questi pochissimi metri quadrati, non posso pensare che in questo loculo, di naturale si vede ben poco. Ci fosse una finestra potrei sbirciare almeno un alberello malaticcio semipisciato da cagnolini imbronciati, ma neanche questa occasione mi si presenta. Il giorno della nevicata, dovendo rimanere chiuso alla consolle, ebbi l’idea di puntare una telecamera verso una finestra dell’aula magna, da dove si vedevano scendere i fiocchi di neve. Senza audio, ovviamente, così che quest’atmosfera rilassata ed insonorizzata fosse più nevosa che mai. Nel silenzio, come per uno screensaver, osservato quei corpuscoli bianchi oscillare poi fondersi, e subito dopo iniziare a piovere lentamente, una goccia dopo l’altra, precipitare nelle pozzanghere e creare i circoli dell’impatto che velocemente si allargano e muoiono. Ed ogni tanto passa qualcuno, ma l’obiettivo che stringe sulla pozzanghera non mi fa vedere molto se non un veloce passo cha fa salire qualche schizzo di acqua sporca e fanghiglia, un’altra vibrazione sul piccolo specchio d’acqua, come un dinosauro di qualche film moderno, scuote col suo peso la pellicola d’acqua e quella cinematografica.Era come guardare un acquario, o come essere all’interno di una bolla, o addirittura dentro l’acquario, essere un pesce che sbatte il naso contro una barriera che puoi toccare ma non oltrepassare. Per andare dove? Dietro il vetro cosa c’è se non la natura stessa? E la natura è sofferenza o devi imparare a godere delle sue piccole manifestazioni di vita? Come quando segui un documentario in televisione, osservi come un guardone la vita che scorre, nascosto sul tuo divano, sprofondato in quel finto cespuglio che è la tua poltrona, dalla quale potresti saltare sopra una preda se solo non avessi a disposizione semplicemente un telecomando invece di arco e frecce o un boomerang. E’ strana questa mia voglia di inscatolare momenti di realtà. Come quando la prima volta che mi ero comprato un radioregistratore stereo lo avevo portato una notte sulla battigia per registrare il rumore delle onde, della risacca, dello sciabordio, dei sassi che si spostavano e colpivano con quei piccoli rumori, tipici della spiaggia senza lo sguazzare dei bagnanti, gli urletti dei bambini, i richiami delle madri, le pallonate sul pelo dell’acqua, i venditori di cocco, i cagnolini che abbaiano ai padroni che nuotano pericolosamente, secondo le loro testoline…O quando con la mia prima videocamera, la puntavo sugli alberi in un pomeriggio autunnale, quando trapelava il sole che andava a tramontare dietro le colline, con le ombre lunghe e gli uccellini che cercavano un ramo su cui passare la notte.Un po’ meno dell’acquario, molto più del caminetto virtuale, con le fiamme che non ti scaldano ma ipnotizzano se le fissi a lungo, come una masturbazione mentale del ricordo di vacanze lontane, di tempi in cui eravamo contadini, allevatori, montanari, quando la terra era vera, sporca, profumata, e con la pioggia diveniva fango, humus, vita, e non solo una scocciatura o una catastrofe ambientale.Ora sono qui nel bunker, e le mie telecamere scrutano gli spettatori, ne ingrandiscono i difetti fisici, li vedo mentre combattono contro la noia ed i colpi di sonno, pronto a diminuire riverberi, ad equalizzare parole e concetti, senza echi o fischi, a fuoco sulle presentazioni ed i filmati, ma con sempre una telecamera fissa su di un albero aldilà della finestra a doppi vetri, subito dopo la tendina, per cercare un briciolo di vita su quei rametti gracili, chissà un passerotto, una cicala, un bruco. Ingrandisco al massimo ma non trovo nulla, e ritorno all’interno dell’aula, sconfitto, senza neanche cercare un primissimo piano di quella ragazza dai meravigliosi occhi chiari.