Claustrofobia non è la paura di Babbo Natale o santa Claus che dir si voglia. Anche se trovarsi a tu per tu con quel ciccione barbuto che esclama “oh oh” ad ogni respiro che probabilmente sa di liquore ed acetone, non dev’essere piacevole. Ora che è passata, mi sento di parlarne un po’. Ho seguito con ansia la sorte dei minatori cileni. Ansia che si trasformava in quasi attacchi di panico quando seguivo quei filmati sulla vita all’interno della miniera. Ho visitato un sacco di grotte in vita mia, ma sono tutte enormi, spaziose, illuminate, ad uso e consumo dei turisti, che con una piccola passeggiata al loro interno, si fanno questo bagno di semioscurità, umidità e curiosità ancestrali. Una volta è anche andata via l’illuminazione ma non ho provato paura in quel buio assoluto, perché sapevo che di spazio ce n’era in quegli stanzoni pieni di stalattiti. Bastava aspettare. Penso che sarei impazzito se mi fossi trovato là dentro. Ma non sono claustrofobico. È l’idea di trovarmi insieme ad altre persone in una stanzetta buia calda ed umida che potrebbe scioccarmi. Se mi trovassi in ascensore ed andasse via la corrente, mi metterei seduto ed aspetterei senza problemi. Anche al buio cercherei di far qualcosa per aprire le porte ed uscire. Mi è accaduto molte volte e mai neanche una volta sono stato preso dal panico. Ma se in quell’ascensore fossi rimasto insieme a due-tre persone, la situazione sarebbe sostanzialmente diversa. Figuriamoci se con me ci fosse un’isterica in preda ad un attacco di panico. Come nell’eventualità di salvare qualcuno dall’annegamento, le darei un cazzotto per farla svenire. Il panico è brutto, specie nei luoghi ristretti. Non avevo ben capito quanto fosse ampia la stanza a 700 metri di profondità (solo scrivere “700 metri” mi fa venire un groppo alla gola), ma le condizioni vitali le immagino insopportabili senza un’equilibrata sanità mentale. Avrebbero dovuto darmi un cazzotto ogni cinque minuti. O farmi un’anestesia totale. D’accordo che come minatori dovrebbero essere abituati a stare sotto terra, e probabilmente non si mettono certo a pensare a tutta la roccia che hanno sulla testa. Non mi sono troppo documentato proprio perché la mia testa rifiutava di immedesimarsi, entrare con loro in quel poco spazio, vedere e pensare. Come per quelle volte che mi è capitato di assistere ad una scena di violenza. Insopportabile.Anche le scene di salvataggio sono state la quintessenza della paura. Stare per tanto tempo in un tubo, seppur dotato di aria luce e provviste, figuriamoci a metà strada di quel lentissimo percorso. Immaginare di avere 350 metri di roccia sopra la testa e 350 metri sotto, è il modo per farmi svenire. E pensare che volevo are l’astronauta… ma non quello di oggi in capsule spaziose o addirittura in quel vagone ferroviario che è lo shuttle. A quei tempi c’erano le piccole capsule Mercuri o Gemini. La prima era praticamente una poltroncina con la forma del corpo in cui un uomo era incastrato, in posizione quasi fetale, a contatto con la strumentazione. Meno male che almeno c’era un oblò. Un catetere ti raccoglieva l’urina, e nei primissimi lanci neanche quello. La capsula Gemini poi era poco più grande, ma all’interno si era in due. E ci stavi per giorni e giorni. Seduto, incastrato. A contatto di gomito con il tuo compagno. Se non altro potevi aprire lo sportello sopra ed uscire per un’attività extraveicolare, ma dovevi mettere anche il casco e tutta l’attrezzatura per sopravvivere nel vuoto.Due diversi modi di vivere momenti di ristrettezza spaziale, completamente diversi fra di loro. Sotto o sopra. Quando si dice che in mezzo si sta meglio, forse non hanno tutti i torti. Ecco ora ho voglia di alzarmi in piedi e allargare le braccia e le gambe come se fossi l’uomo vitruviano, saltare e scendere in strada per farmi una corsetta. Vado…
Paura!
Claustrofobia non è la paura di Babbo Natale o santa Claus che dir si voglia. Anche se trovarsi a tu per tu con quel ciccione barbuto che esclama “oh oh” ad ogni respiro che probabilmente sa di liquore ed acetone, non dev’essere piacevole. Ora che è passata, mi sento di parlarne un po’. Ho seguito con ansia la sorte dei minatori cileni. Ansia che si trasformava in quasi attacchi di panico quando seguivo quei filmati sulla vita all’interno della miniera. Ho visitato un sacco di grotte in vita mia, ma sono tutte enormi, spaziose, illuminate, ad uso e consumo dei turisti, che con una piccola passeggiata al loro interno, si fanno questo bagno di semioscurità, umidità e curiosità ancestrali. Una volta è anche andata via l’illuminazione ma non ho provato paura in quel buio assoluto, perché sapevo che di spazio ce n’era in quegli stanzoni pieni di stalattiti. Bastava aspettare. Penso che sarei impazzito se mi fossi trovato là dentro. Ma non sono claustrofobico. È l’idea di trovarmi insieme ad altre persone in una stanzetta buia calda ed umida che potrebbe scioccarmi. Se mi trovassi in ascensore ed andasse via la corrente, mi metterei seduto ed aspetterei senza problemi. Anche al buio cercherei di far qualcosa per aprire le porte ed uscire. Mi è accaduto molte volte e mai neanche una volta sono stato preso dal panico. Ma se in quell’ascensore fossi rimasto insieme a due-tre persone, la situazione sarebbe sostanzialmente diversa. Figuriamoci se con me ci fosse un’isterica in preda ad un attacco di panico. Come nell’eventualità di salvare qualcuno dall’annegamento, le darei un cazzotto per farla svenire. Il panico è brutto, specie nei luoghi ristretti. Non avevo ben capito quanto fosse ampia la stanza a 700 metri di profondità (solo scrivere “700 metri” mi fa venire un groppo alla gola), ma le condizioni vitali le immagino insopportabili senza un’equilibrata sanità mentale. Avrebbero dovuto darmi un cazzotto ogni cinque minuti. O farmi un’anestesia totale. D’accordo che come minatori dovrebbero essere abituati a stare sotto terra, e probabilmente non si mettono certo a pensare a tutta la roccia che hanno sulla testa. Non mi sono troppo documentato proprio perché la mia testa rifiutava di immedesimarsi, entrare con loro in quel poco spazio, vedere e pensare. Come per quelle volte che mi è capitato di assistere ad una scena di violenza. Insopportabile.Anche le scene di salvataggio sono state la quintessenza della paura. Stare per tanto tempo in un tubo, seppur dotato di aria luce e provviste, figuriamoci a metà strada di quel lentissimo percorso. Immaginare di avere 350 metri di roccia sopra la testa e 350 metri sotto, è il modo per farmi svenire. E pensare che volevo are l’astronauta… ma non quello di oggi in capsule spaziose o addirittura in quel vagone ferroviario che è lo shuttle. A quei tempi c’erano le piccole capsule Mercuri o Gemini. La prima era praticamente una poltroncina con la forma del corpo in cui un uomo era incastrato, in posizione quasi fetale, a contatto con la strumentazione. Meno male che almeno c’era un oblò. Un catetere ti raccoglieva l’urina, e nei primissimi lanci neanche quello. La capsula Gemini poi era poco più grande, ma all’interno si era in due. E ci stavi per giorni e giorni. Seduto, incastrato. A contatto di gomito con il tuo compagno. Se non altro potevi aprire lo sportello sopra ed uscire per un’attività extraveicolare, ma dovevi mettere anche il casco e tutta l’attrezzatura per sopravvivere nel vuoto.Due diversi modi di vivere momenti di ristrettezza spaziale, completamente diversi fra di loro. Sotto o sopra. Quando si dice che in mezzo si sta meglio, forse non hanno tutti i torti. Ecco ora ho voglia di alzarmi in piedi e allargare le braccia e le gambe come se fossi l’uomo vitruviano, saltare e scendere in strada per farmi una corsetta. Vado…