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Il Papa e il linguaggio dei gesti


di MASSIMO ARCANGELI*
 Molto è già stato detto sul vocabolario di papa Francesco, sulle parole-chiave del suo mandato. Alcuni dei termini da lui pronunciati, e diligentemente registrati dai media, sono anche fra quelli prediletti da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI: amore, dialogo, fiducia, gioia, giustizia, libertà, misericordia, peccato, speranza, verità. Nulla di nuovo, stando almeno all'apparenza della loro superficie, in queste voci dell'uso comune o comunissimo. D'altronde, se l'italiano è intriso di cristianesimo, il cristianesimo è da sempre permeabilissimo al lessico fondamentale della nostra lingua perché dalla "religione della parola", tanto scritta quanto orale, ha ricavato ogni volta i maggiori punti di forza della sua azione predicatrice ed evangelizzatrice. Quali allora le particolarità lessicali di papa Francesco? Senz'altro qualche termine meno o per nulla frequentato dai suoi immediati predecessori (tenerezza o pazienza, paranoico o autoreferenziale), ma il punto è un altro. A imporsi, nel suo caso, sono soprattutto i legami fra le parole: relazioni ontologiche (tra ponte e pontefice, accomunate dall'etimo) oppure fenomenologiche: tra giustizia e cultura (la prima crea la seconda) o tra gioia e croce (non c'è vera felicità che non sia stata messa alla prova dalla sofferenza). Nel solco della tradizione segnata dagli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, per il quale si traeva maggior frutto dai ragionamenti e dalle riflessioni personali sul mistero che dalla completa spiegazione delle sue forme. Il linguaggio verbale di Bergoglio, nelle sue possibilità di rimando e nelle sue relazioni interne, non è però il solo a parlare una lingua per certi versi nuova. Il linguaggio del corpo e degli abiti dice altrettanto, se non addirittura di più.          21 giugno 1963. Si apre la loggia centrale della Sala delle benedizioni della basilica di S. Pietro. Preceduto dalla croce a stile, appare Paolo VI con la sua veste bianca, la mozzetta color cremisi, la stola pontificale, il crocifisso d'oro sul petto; ricalca in parte nei gesti le orme del suo predecessore, Giovanni XXIII. Rivolge lo sguardo alla folla esultante protendendo le braccia e muovendo le mani avanti e indietro, quasi a sventolarsi; alterna quel movimento al saluto con la mano destra (la sinistra sul cuore) e al segno di benedizione; guarda diritto davanti a sé, si gira a destra e poi a sinistra e poi ancora a destra; congiunge nuovamente le mani; torna a salutare con le braccia tese in avanti. Intona la benedizione Urbi et Orbi in latino e lascia ad altri l'incarico di concedere (in italiano) l'indulgenza plenaria e di chiedere ai presenti  -  e a chi sta ascoltando per radio  -  una preghiera per lui e per Santa Madre Chiesa. Saluta quindi un'ultima volta e se ne va. I suoi gesti sono quelli di una personalità di altissima statura. Ampi e solenni, distanziano e tuttavia rassicurano; sembrano promettere le riforme avvenire.16 ottobre 1978. Rispetto a papa Luciani, più "sciolto" e amichevole del suo predecessore fin dal primo affacciarsi al balcone (contagioso, soprattutto, il suo sorriso), con Karol Wojtyla è in parte un'altra storia.  I paramenti sono gli stessi, i gesti e le parole no. Saluta a sua volta protendendo le braccia in avanti ma le porta anche in alto e poi in basso, intrecciando o sovrapponendo le mani. Se i due pontefici precedenti avevano quasi disegnato nell'aria il braccio orizzontale della croce, Giovanni Paolo II sembra mimare quello verticale. Esordisce con "Sia lodato Gesù Cristo",  continua con "Carissimi fratelli e sorelle", parla di sé come di "un nuovo vescovo di Roma", chiamato da un "paese lontano" ("lontano ma sempre così vicino per la comunione nella fede e nella tradizione cristiana"); menziona la paura per la nomina, l'ubbidienza verso Dio, la fiducia nella Madonna, la fede comune e la speranza; fa riferimento a un nuovo inizio, per quanto ritagliato sulla strada della storia e della Chiesa; cita l'italiano in un passaggio che sarebbe stato consegnato alla storia ("non se potrò bene spiegarmi nella vostra, la nostra lingua italiana: se mi sbalio, se mi sbalio mi corigerete"). Impartita la benedizione Urbi et Orbi,  saluta per l'ultima volta la folla radunata in S. Pietro tendendo le braccia al cielo. Nel suo breve discorso in italiano è stato quasi per tutto il tempo curvo, le mani piantate sul parapetto del balcone; sembra già piegato dal peso di una croce che sosterrà però fino all'ultimo.  19 aprile 2005. Se Karol Wojtyla era il papa "centrifugo"  e anticonvenzionale dei gesti icastici, dei fuori programma, della partecipazione ai grandi eventi di massa, Joseph Ratzinger è stato un papa "centripeto": tetragono moltiplicatore di pensieri e di parole e comunicatore, nel linguaggio del corpo, soprattutto attraverso l'intensità dello sguardo e la (moderata) vivacità del movimento delle braccia e delle mani. In quella sua prima apparizione dalla loggia, però, l'apertura delle braccia è molto ampia e le mani sono bene aperte, quasi a proteggere il volto tirato e il sorriso un po' nervoso di una timidezza ancora più palese quando, consumato l'esordio ("Cari fratelli e sorelle") e il rito dell'autodefinizione ("un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore"), incespica nelle parole in più d'una occasione. Il presagio di un abbandono covato a lungo, e cresciuto nell'introversione.13 marzo 2013. Sul balcone di San Pietro si materializza la figura imponente di Jorge Mario Bergoglio, tutto di bianco vestito; sono scomparse la mozzetta e la stola, e la croce sul petto è di metallo. Il sorriso è appena accennato, sembra trattenere la commozione. Saluta con una sola mano, che si muove morbida da destra a sinistra, da sinistra a destra, dal basso in alto; pare voler disegnare anche lei qualcosa nell'aria, fluida come la nostra modernità estrema. Il papa comincia così: "Fratelli e sorelle: buonasera". Sorride, nell'augurio serale ai presenti, e con quella mano sinistra che s'abbassa in quel momento di colpo ha già conquistato tutti. Come aveva già fatto Wojtyla si dice vescovo di Roma, prelevato fin quasi dalla "fine del mondo", e chiede ai fedeli di pregare con lui per il "vescovo emerito" Benedetto XVI. Recita il Padre nostro, l'Ave Maria e il Gloria al padre e parla quindi di carità, di fratellanza, di amore, di evangelizzazione, di preghiera, fiducia, benedizione reciproca e, soprattutto, di cammino; è il cammino che unisce il vescovo di Roma al popolo capitolino, ed è altresì il cammino delle parole: dobbiamo scuoterle dalle loro sedi, se vogliamo davvero farle parlare le une con le altre, e dobbiamo spingerle a interfacciarsi. Tutto pare alla fine convergere sulla scambievolezza e sul dialogo, sulla corresponsione e sulla partecipazione che Francesco I, in forma di altrettanti segnali, disseminerà nei suoi primi quindici giorni di pontificato. Un attimo prima dell'indulgenza plenaria qualcuno gli metterà la stola sulle spalle, ma ormai è tardi per non leggere l'atto come uno strappo alla (sua) regola; anche perché quella stola, a  benedizione impartita, se la toglie. Parla davvero a tutti Bergoglio, e non dimentica le donne. Non le sorelle, ma proprio le donne: "Adesso vi darò la benedizione a voi e a tutto il mondo, a tutti gli uomini e donne di buona volontà". Quelle donne che papa Wojyla non aveva invece menzionato invocando, il 16 ottobre del 1978, l'"aiuto di Dio" e l'"aiuto degli uomini". Quelle donne e quegli uomini, credenti e non credenti, cristiani o musulmani, siamo tutti noi. Con Buonasera, quel 13 marzo, papa Bergoglio ci aveva salutato; con "grazie tante dell'accoglienza" ci aveva gratificato; con buonanotte e buon riposo ci aveva congedato. Ciao Francesco.* saggista e docente di linguistica