La Donna Camel

Un contributo anonimo


Stamattina nella mailbox della Donna Camel c'era questo racconto, che pubblicherò senza indicare i dati di chi lo ha scritto, come da richiesta, per partecipare all'EDS del ponte.ASSENZA - DANNO - GINOCCHIO - PIETRA - SPIRITO – TRONCOUn tappeto di foglie gialle mi accoglie al mio ingresso nel grande giardino. Qualche giorno di assenza a scuola e l’autunno si è già impossessato  ormai di tutto lo spazio intorno. Cammino lentamente cercando di non far rumore: lo scricchiolio della ghiaia mista a foglie sotto i piedi mi distrae dai miei pensieri. Oggi come ieri. Camminavo anche allora in punta di piedi, ma per non farmi sentire da te, la mia compagna di giochi da sempre. Ci piaceva giocare a nasconderci in quell’immenso spazio verde: i nascondigli erano sempre gli stessi, ma noi ci divertivamo un mondo. Le corse affannate, le risate argentine riempivano il cielo di vita.Oggi no, il cielo plumbeo rimanda solo tristi presagi riflessi nelle pozzanghere. È passato troppo tempo: allora correvamo nel fango, ora cammino in punta di piedi per evitare di affondare con i tacchi alti.Una volta, correndo, sei scivolata e cadendo su di una pietra, ti sei sbucciata un ginocchio: il danno  sembrava piuttosto grave e ti ho vista piangere per la prima volta. Mi sono spaventata, ti eri fatta male e io, chissà perché, mi sentivo in colpa.Ti ho accompagnata sorreggendoti per la vita, non ce la facevi a camminare e ti sei seduta sopra un tronco lì vicino: ti ho fasciato il ginocchio con il mio fazzoletto e mi hai finalmente sorriso tra le lacrime.Credo di averti visto poche volte piangere: spirito forte, libero e indipendente, ti ho sempre ammirata,   la più brava a scuola, sempre, fino all’università, per me  come una dea, una roccia. Per un periodo ci siamo perse e poi ritrovate per caso, insegnanti nella stessa scuola. I fili magicamente riannodati, le compagne di gioco diventano compagne di lavoro, e come un tempo, l’intesa è perfetta: i tuoi occhi brillano e io so già  cosa vuoi dire.Anche l’altra sera, in ospedale, ho guardato i tuoi occhi neri, profondi e velati ed ho capito: non stavi piangendo,  tu non piangi quasi mai.I pensieri si affollano nella mia mente, un peso enorme mi sovrasta, mi tolgo il cappotto e lo appoggio all’attaccapanni: il tuo posto è là, vuoto. Strano non vedere la tua sciarpa rosa, quella con i brillantini o “sbrilluccichi” come dici tu: la lasci spesso appesa lì,  quasi a tenerti il posto, e poi, rauca di troppe sigarette, ti lamenti: - Oggi non ho voce, ho preso freddo ieri, senza sciarpa, non posso fare scuola così, in classe non mi sentirà nessuno.-Ti sentono, eccome, i ragazzi, non solo la tua voce roca da fumatrice incallita, ma sentono la tua passione, la tua forza comunicativa:  schietta, ironica e diretta, talvolta colpisci al cuore, nel bene e nel male.    - Sto male, sì, ma, vedrai- mi hai detto l’ultima volta con una voce flebile, rotta dall’affanno- non permetterò certo a “questa cosa qui” di impedirmi di tornare.- Hai indicato l’addome stranamente gonfio, sorridendo quasi fosse uno scherzo: ma i tuoi occhi, una voragine nera di dolore, non mentivano e allora, un brivido è sceso nella schiena, ed ho capito.Cammino piano, cercando di non far rumore: i tacchi rimbombano troppo nell’atrio della scuola. Non voglio disturbare: la campanella della seconda ora non è ancora suonata.Riprendere a insegnare è dura, senza di te, non so proprio quali parole userò per dirlo ai ragazzi.