La Donna Camel

La montagna non mi è mai piaciuta


La montagna non mi è mai piaciuta e ho smesso di andarci non appena mi è stato possibile, comunque non prima che si completasse la metà della vita che ho vissuto fino a oggi, quindi ci sono andata un bel po’ di volte.Ci ho pensato parecchio in questi giorni perché ho letto Le otto montagne, di Paolo Cognetti e ti consiglio di farlo anche tu non appena ti è possibile perché è un libro bellissimo, ma di questo ti parlerò domani.
 Questo libro mi ha fatto ricordare un sacco di cose di montagna e adesso ti voglio raccontare della casa che aveva preso in affitto mio padre da un falegname che si chiamava Corvi Battista detto il mort perché fabbricava anche casse da morto. Questo piccolo appartamento era al primo piano di una casa di pietra, proprio nel centro del paese e faceva anche angolo tra due vie strette, di quelle dove non batte mai il sole nemmeno d’estate, figurati d’inverno quando ci andavamo noi. Si entrava da una porticina verde e si saliva una rampa ripida che faceva anche una curva: appena dentro c’era la cucina, quadrata con un tavolo di legno grezzo, le sedie dure di legno grezzo e la stufa detta “economica”, quella con gli anelli di ghisa che si potevano togliere per aumentare la potenza di fuoco e gli sportellini per mettere la torta. Il frigo non c’era e il burro si metteva sul davanzale della finestra. Non c’era nemmeno la teglia e la torta l’abbiamo cotta in una padella col manico lungo e siccome non ci stava è stata messa lì storta. Non ho mai mangiato in vita mia una torta di mele così buona anche se era venuta fuori più spessa da una parte che dall'altra.Nel corridoio c’era un’altra stufa a carbone, detta propriamente “la stufa”. Verde scura, avrebbe potuto ricordare una di quelle fontanelle che ci sono a Milano se non fosse stato per lo sportello nero che si apriva coi guantoni e lo sportellino sotto da dove si vedeva il fuoco, detto spia. Le due camere da letto avevano ciascuna un letto matrimoniale, uno per noi bambini e l’altro per la mamma e il papà. La cosa che mi ricordo bene di quella casa era il freddo e anche i salti che facevamo noi bambini sul letto alla sera, prima di andare a dormire praticamente vestiti, con i golfini e le calzamaglie rosse, io e mia sorella, e le ghette lunghe mio fratello. La casa serviva per andare a sciare, ma ci andavamo solo io e mio padre, mia mamma no e i bambini nemmeno. Mio padre passava tutto il resto del tempo a riempire le stufe col carbone e con la legna che Corvi Battista detto il mort ci vendeva: l’avevo sentito dire che alla fine della vacanza ci era costato di più il riscaldamento che l’affitto dell’appartamento. Non eravamo abituati al freddo, a Milano avevamo i caloriferi.In quel paese invece non c’era quasi niente: un negozio a pian terreno della casa dove stavamo noi, che era gestito dalla sorella del Mort e vendeva il pane duro e il prosciutto cotto viscido e il formaggio locale con la crosta tutta sporca, nera che sembrava cacca, oltre alla puzza. C’era anche un bazar, e quel nome mi faceva sognare, mi aspettavo di trovarci un qualche tipo di arabo col cappello a ricami dorati e la nappina come quelli disegnati nella settimana enigmistica. Invece c’era un signore normale, cugino di Corvi Battista detto il mort, che vendeva un po’ di tutto tranne le cose da mangiare e la legna e il carbone. Vendeva anche il prete da mettere nel letto, una struttura di legno chiaro come una gondola o una pergola ricurva, dentro si poteva mettere un po’ di brace o delle candele o dei lumini, per scaldare il letto prima di entrarci. I miei genitori l’avevano comprato per la loro stanza, che era lontana dalla stufa, ma l’avevano usato poche volte perché dicevano che era scomodo. A dire la verità avevamo usato poche volte anche la casa, forse solo una o due perché mi ricordo che poi il capodanno siamo andati in albergo.(continua)