La Donna Camel

Capitolo settimo: il deserto vero


(Le puntate precedenti nel box in alto a sinistra) Sbarcammo tutto quello che non era indispensabile e ci incamminammo di buon ora sulla pista sassosa. Dopo una ventina di chilometri di tolondulè, un effetto creato dal passaggio dei camion che rendeva il fondo stradale come cartone ondulato, ma durissimo, si cominciò a salire. L'espressione "andare a passo d'uomo" acquistava un significato letterale: ogni pochi metri bisognava scendere per controllare il percorso migliore, i sassi e macigni che costituivano la strada erano sempre più grandi: a un certo punto abbiamo anche bucato una gomma. Comunque arrivammo ai piedi del picco dove si abbarbicava l'eremo e parcheggiate le auto salimmo a piedi l'ultimo tratto. La visuale da lassù era mozzafiato (non solo per la salita…). Chilometri e chilometri di deserto si allargavano sotto di noi: non un albero, nemmeno un arbusto, non una casa o un manufatto. Niente. Tutt'intorno solo sassi e sabbia fino all'infinito. Ho provato molte volte a trovarmi in mezzo al mare su una piccola barca, senza vedere una terra all'orizzonte, ma la sensazione di vuoto, di nulla che scaturiva da quello spettacolo non è paragonabile a nient'altro. Forse l'oceano, non so. Eravamo tutti ammutoliti, schiacciati da quell'enormità. Vergognandoci un po' per quell'attimo di smarrimento entrammo nel cortile, ma chissà perché continuavamo a parlare a bassa voce. Data l'altitudine la temperatura era piacevole e il frate che custodiva l'eremo gentilissimo. Firmammo il libro degli ospiti, accettammo un the alla menta e conversammo in francese maccheronico (l nostro) con l'eremita, che aveva con se' solo un giovane tuaregh, avvolto nel tradizionale turbante blu chiaro che lasciava scoperti solo gli occhi lucenti e una mascherina di pelle nerissima, come una specie di Zorro al contrario. Il tempo a nostra disposizione non era molto, sarebbe stato imprudente attaccare la pista con il buio e ci mettemmo ben presto sulla via del ritorno al campo. Era appena finita la discesa quando bucammo di nuovo. Per alleggerire la macchina avevamo lasciato al villaggio le altre due gomme di scorta e per imperdonabile sbadataggine avevamo dimenticato le toppe per riparare i copertoni e la pompa. Ci eravamo cacciati proprio in una bella situazione: avevamo ancora poche ore di luce, non sarebbero state sufficienti a B per arrivare al villaggio, prendere l'occorrente e tornare indietro prima di buio. Affrontare la pista di notte era fuori discussione: si faceva già fatica cosi a capire la direzione da seguire. E non c'era nemmeno molto tempo per decidere che fare. Ogni rivalità, competizione, dissidio erano spariti. La decisione giusta, se pure dolorosa, era una sola: io e M saremmo rimasti a passare la notte lì e gli altri sarebbero ritornati al villaggio. La mattina dopo ci avrebbero portato le ruote di scorta. Io ero abbastanza serena: avevamo la nostra tenda, cibo e acqua per due giorni, ero preparata ad aspettare pazientemente. Ma capisco perché J avesse le lacrime agli occhi quando mi ha abbracciata, prima di risalire sul furgone. Del resto era perfettamente inutile che si fermassero anche loro e noi non volevamo abbandonare l'auto. Li guardammo partire e quando erano spariti all'orizzonte per consolarci aprimmo una cocacola e brindammo alla nostra prima notte soli nel deserto vero. (continua)