La Donna Camel

La chiave a stella


Quando leggi una recensione come questa, non solo corri a comprarti il libro come del resto ho fatto, non solo corri a leggertelo tutto, come pure ho fatto, ma poi resti lì a guardare il cursore che pulsa e pensi: che cosa altro potrei dire? Niente, non posso aggiungere niente.Dici bene, tu, prendi in prestito i libri dalla biblioteca che così risparmi qualche soldo e poi se non ti piaciono non ti sembra neanche di aver sprecato la moneta. Dici bene, ma quando i libri ti piaciono tanto come questo del Levi, dio bono, come fai a avere il cuore di portarli indietro? E' un libro come non se ne scrivono poi molti e forse a pensarci bene non se ne scrivono più. Piccolo, detto sottovoce con il tono di chi racconta le storie seduto in cucina mentre beve un caffè con lo stravecchio. Parla del lavoro degli uomini, il lavoro manuale ben fatto che innamora, quel lavoro che diventa passione e gioco e dà il senso che non si spreca il tempo e la vita. Libro dimesso come il tono del Faussone Libertino da Torino che racconta con la sua faccia inespressiva come il fondo di una padella, che usa i luoghi comuni credendo di averli inventati, che si domanda quale il senso di tutto ma con un tono di noncuranza che svuota la retorica come si svuota un pallone facendo un buco con un ago. E' vero, Faussone, o un artificio del Levi? Le righe scritte in calce (è il Conrad di Tifone) sembra che vogliano dare a intendere di no o anche che sia un gioco inutile chiederselo, tempo sprecato: che sia come sia, Faussone è un personaggio autentico, dice il Levi, e c'è da credergli. Gli si crede perché lo ha disegnato così bene, con la pazienza del narratore che non si intorpidisce e non ci intorpidisce con le fumisterie filosofiche, ma che la poesia la va a trovare nei tralicci, nelle coppie coniche e nel batter la lastra e ce la mostra pulita, netta e chiara, con una lingua magnifica che vuole stare vicina al parlato e che pure è rifinita con tanta cura da sembrare naturale e non artificio letterario, come alla fine è, non ci si scappa. Basti leggere, tra gli altri, questo passo strepitoso per capirlo. "Alla fine è arrivato il collaudatore. Era un ometto tutto nero, vestito di nero, sulla quarantina, con una spalla più alta dell'altra e una faccia da non aver digerito. Non sembrava neanche un russo: sembrava un gatto ramito, sì, uno di quei gatti che prendono il vizio di mangiar le lucertole, e allora non crescono, vengono malinconici, non si lustrano più il pelo e invece di miagolare fanno hhhhh. Ma sono quasi tutti così, i collaudatori: non è un mestiere allegro, se uno non ha un po' di cattiveria non è un buon collaudatore, e se la cattiveria non ce l'ha gli viene col tempo, perché quando tutti ti guardano male la vita non è facile. Eppure ci vogliono anche loro, lo capisco anch'io, alla stessa maniera che ci vogliono i purganti." C'è una voglia di ridere leggera che vien fuori da queste pagine e un personaggio, Faussone, che pare l'alter ego del chimico Levi, cieco che lavora con le molecole e tentenna verso un altro lavoro, quello di costruttore di racconti, di storie; e meno male che il Levi il passo l'ha fatto, che ci ha detto e mostrato come si scrive e come si racconta e come fare per star vicino a un personaggio (e farcelo sentire prossimo), come usare quella rara qualità che è l'empatia svuotata di sentimentalismi. Magnifici fra gli altri il capitolo "batter la lastra" dedicato al padre e "senza tempo" dove Faussone è narrato nei suoi primi esperimenti giovanili di lavoro e di sentimento (è uno dei capitoli più belli e strappacoratelle). Levi va poi a cercare il retroterra e ci mostra due zie torinesi che stringono il cuore per quanto ci stanno a pennello nel corpus del romanzo. Un libro da tenere stretto, una riflessione sul fare, sul raccontare, sui registri della narrativa e della poesia. Accidenti va a finire che me lo compro, vah.(Bartelio, su anobii)