La Donna Camel

Scrivere, pedalare, scrivere di pedalare


Ho reimparato da poco la bicicletta. Le circostanze sono state fortuite o forse necessarie, non è questo di cui ti voglio parlare. Quello che volevo dirti è che c'era un amico che mi teneva metaforicamente il sellino e mi spingeva perché avevo paura. Mi piaceva da matti l'idea di andare in bici ma avevo paura, non l'avevo mai fatto prima, ero tenuta, bloccata, chi lo sa? Il primo giorno siamo andati in piazza duomo e poi sui navigli, una stancata pazzesca, quattro ore per fare due chilometri: ogni trenta metri ero ferma, se vedevo un pedone all'orizzonte, se c'era una briciolina sulla strada, se dovevo grattarmi il naso. Il mio amico andava avanti pianissimo e ogni tanto si voltava per vedere se arrivavo, tornava indietro a prendermi con una pazienza infinita, come fanno i gatti quando vogliono portarti da qualche parte, hai presente? Io sbanfavo e sudavo come se stessi facendo la milano sanremo ma ce la mettevo tutta, quel giorno. E alla sera ero tutta fiera di me, mi pareva di aver fatto una grande impresa, una cosa eroica, epica. Il giorno dopo il mio amico era venuto a prendermi di nuovo con la bici, e il giorno seguente ancora. Mi portava su marciapiedi stretti o dove passavano le macchine e io avevo male al culo e avevo paura. Se mi fermavo troppo spesso non mi aspettava, se scendevo dalla bici e la spingevo a mano per superare una difficoltà si spazientiva. Mi ripeteva che dovevo andare e andare se no non imparavo più, che lui non ci guadagnava niente a spingermi, se non lo volevo capire da sola era peggio per me. Mi faceva male il culo e lo odiavo. Mi portava in una strada abbandonata a fare i cerchi e gli otto intorno ai tombini e non mi diceva mai brava. Mai. In certi momenti mi domandavo chi me lo facesse fare. Se ero arrivata alla mia veneranda età senza, voleva dire che potevo ben farne a meno. E poi mi domandavo anche: ma di che cosa hai paura? Quando lui passava tra un palo e un muretto e si voltava a vedere se lo stavo seguendo, mettevo giù i piedi e lo sapevo quello che non mi stava dicendo: se fai così non imparerai mai, mai. E io lo odiavo ma non riuscivo, era più forte di me. Ma di cosa avevo paura? Della discesa ripida, dell'otto volante, del trampolino da dove tutti gli altri saltano, tutti tranne me che torno indietro per la scaletta? Non lo so di cosa avevo paura. Ho tenuto duro e dopo un mese mi sentivo abbastanza sicura. Una domenica mattina gli ho chiesto di andare di nuovo in centro. Senza esagerare, pedalavo un po' più rilassata, sentivo l'aria che mi faceva volare i capelli, riuscivo a spostare lo sguardo (per brevi istanti, si capisce) e a un certo punto ho anche pensato: ah, so andare in bicicletta, finalmente! E' stato lì che per un attimo mi sono dimenticata dei freni, che la bici ha i freni e se sbagli puoi rimediare in qualche modo, puoi rallentare prima che succeda l'irreparabile, puoi gestire e padroneggiare, direzione forza velocità, puoi regolare con precisione e farle fare come vuoi tu. Sono precipitata sull'asfalto sbucciandomi un ginocchio e le mani, una gran botta sulla coscia. Ma non sono mica morta, son risalita subito, il mio amico si è un po' spaventato, è corso lì a vedere, gnente gnente, non mi son fatta gnente, andiamo. Mi sono lavata le mani sanguinanti a una fontanella, ho zoppicato per qualche giorno e mi è rimasta una cicatrice sul ginocchio. Non ho più paura.Ecco. Scrivere, è uguale.
"Bicicletta convergente (modello per fidanzati)" di Jacques Carelman, Catalogue d'objets introuvables, Paris, Balland 1969.