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Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
 

 

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Il Privilegio della Memoria di Gordon

Post n°890 pubblicato il 19 Marzo 2014 da LaDonnaCamel
 

Fuori è buio da un pezzo, e lo Studio è già deserto quando Didì bussa e fa capolino nella mia stanza.

«Se non hai bisogno di me io vado…»

Continuo a scrivere e le rispondo senza distogliere lo sguardo dal monitor.

«Ok, ci vediamo domani.»

Didì sta per DD, ovvero Dottoressa Daria, la mia praticante. Nel suo curriculum aveva scritto che voleva fare l’avvocato penalista, e che da tempo era impegnata come volontaria in una cooperativa sociale che si propone – testuale – di riabilitare i detenuti attraverso la Cultura. Per questo l’ho presa a lavorare con me: per toglierle ogni speranza.

«Cosa stai scrivendo?»

«Una memoria per GXX. Adesso deve venire la moglie, la faccio firmare a lei»

«Perché a lei e non a lui?»

«Eh, poi ti racconto. Fammi finire, che tra cinque minuti deve arrivare.»

«Poi me la fai leggere?»

Didì lavora con me solo da un anno, e ha ancora una sincera voglia di leggere le carte dei processi. Mi giro di scatto a guardarla, e lei mi sorride.

* * *

Prima di raccontarvi la storia di GXX, devo farvi una confessione: a me non piace la gente. Eppure faccio l’avvocato. Il penalista, per giunta: io la gente la devo difendere. Bella contraddizione, no? Mi giustifico dicendo che io non sono un avvocato, faccio l’avvocato.

Devo però ammettere che in questo mestiere ci sono anche momenti che amo. Ad esempio l’inizio di un nuovo incarico. E’ un po’ come quando si acquista un libro nuovo: lo si accarezza, lo si sfoglia, si legge l’incipit e qualche riga a caso e poi si decide di farsi portare in qualche posto che ancora non si conosce. E’ quello il momento magico: quando è ancora tutto sospeso, e non c’è ancora spazio per la banalità, le frasi fatte, la noia. Con i nuovi clienti è un po’ la stessa cosa, solo che loro sono peggio dei libri che leggo. Il piacere della novità lascia presto il posto al fastidio del già visto. E poi c’è sempre il problema del farsi pagare. Gli “onorari”! Ah, quella splendida pagina di Celine!. Ma gli “onorari” sono per me come un risarcimento. Sì, il risarcimento che la gente mi deve per il contatto obbligato con la bruttezza loro e delle loro vite.

Poi, mi piace scrivere. Nel mio lavoro mi capita spesso di dover scrivere, anche se non è come scrivere quello che si vuole. Però mi può capitare di avere un privilegio, se così si vuole chiamare, che non hanno nemmeno gli scrittori veri. Quale privilegio? Vi racconto la storia di GXX.

Tutto era iniziato nel solito modo, con una lettera dal carcere. L’indirizzo del mittente era piazza Filangieri 2, 20123 Milano. Un classico, nello stradario del dolore. Dentro la busta un foglio azzurro a quadretti, ovviamente scritto a mano. I meno adusi alla scrittura si fanno scrivere la lettera dai concellini scrivani, che di proprio non ci mettono solo la bella calligrafia, ma cercano anche di nobilitare il testo con ardite costruzioni sintattiche zeppe di parole difficili. Questo foglio aveva una grafìa incerta, si capiva che l’aveva scritto proprio l’interessato. Diceva di avere una camera di consiglio tra un mese, che aveva già fatto la mia nomina (anzi, l’anonima), che mi aspettava a colloquio. Come fanno tutti, aggiungeva: “per i soldi non ci sono problemi”. In un angolo in fondo, il numero di cellulare della moglie. Un sospiro, e la chiamai fissandole un appuntamento per quella sera stessa.

La immaginavo proprio così: piccolina e minuta, gli occhi grandi e spauriti, con un bambino piangente in braccio. Vent’anni e già sfiorita. Il giubbottino comprato sulle bancarelle che imita quelli alla moda. Non sapeva nemmeno bene per quale motivo il marito fosse in carcere.

«Da quanto tempo è dentro, signora?»

«Sono già sei mesi… »

Il bambino cercava di toccare tutto quanto stava sulla mia scrivania. Lei lo tirava indietro. Lui insisteva e strillava.

«E per che cosa?»

«Mah, è una cosa vecchia, di quattro o cinque anni fa…»

«Me la racconti»

Lei si sporgeva verso di me, così gli oggetti sulla scrivania tornavano a tiro del bambino.

«Una rapina, ma lui non…»

«E quanto aveva preso?»

«Solo quattro soldi, lui…»

«No, non di soldi. Di condanna. Quanto gli hanno dato?»

«Mah… aveva fatto sei mesi mi pare, poi era uscito.»

«Ok, ma poi al processo quanto aveva preso?»

«Mah, non so… però l’avvocato gli aveva detto che comunque poi gli davano l’affidamento. Adesso tra un mese ha la camera di consiglio.»

Il bambino si era fissato con il gatto di cristallo, un fermacarte che mi ha regalato mia moglie. Lui allungava la mano. Io lo spostavo, Lui strillava. Lei lo rimproverava, ma non troppo.

«Va bene signora, adesso facciamo copia di tutte le carte e poi, dopo che me le sono guardate, vado in carcere a trovarlo. Lei sabato va a colloquio? Gli dica che vado da lui la prossima settimana.»

Le chiesi un acconto, e lei mi mise sulla scrivania trecento euro tutti spiegazzati.

* * *

Qualche giorno dopo, quando Didì mi portò le carte che aveva estratto dal fascicolo in Tribunale, vidi dal suo faccino che persino lei era perplessa sulla possibilità che GXX potesse davvero essere riabilitato attraverso la Cultura.

Prima il fascicolo dell’esecuzione. Aveva preso tre anni e quattro mesi in giudizio abbreviato, per una rapina aggravata e tentata violenza sessuale, fatti accaduti quasi quattro anni prima. Era incensurato senza altre pendenze, così dopo qualche mese aveva ottenuto i domiciliari, e dopo un po’ era stato rimesso in libertà. Quando la condanna era divenuta irrevocabile, anche se la pena residua era già inferiore ai tre anni, trattandosi di un reato per il quale l’esecuzione non può essere sospesa era rientrato in carcere. Nel frattempo si era sposato e aveva fatto un figlio. Non sospettava minimamente di dover un giorno ritornare in carcere a scontare il resto della condanna. Sembra brutto dirlo, ma occorre essere realisti: la gente capisce solo la galera, e spesso nemmeno quella. Dal suo rientro in carcere erano passati sei mesi, quindi gli mancavano ancora due anni e quattro mesi. Di lì a poco, dinanzi al Tribunale di Sorveglianza si sarebbe discussa la sua richiesta di scontare la pena residua in affidamento ai servizi sociali.

Poi il fascicolo del processo. Vidi subito che, al di là del titolo di reato, si trattava proprio di un brutto fatto.

Addì 13 del mese di novembre dell’anno 2009, dinanzi a noi sottoscritti Ufficiali di PG in servizio presso l’intestata Stazione Carabinieri, è presente: -------------------------

OKECHUKWU Prince Grace, nata a Lagos (Nigeria) 01/01/1989, sedicente, in Italia s.f.d., la quale dichiara: -----------

Sono in Italia da tre anni. Sono priva di regolare permesso di soggiorno. Esercito il meretricio nella zona industriale di …. Mi trovavo nella predetta zona anche verso le ore 03.00 circa del corrente giorno tredici allorquando…

Vi risparmio il frasario da verbale.

Sabato notte. Periferia di Milano. Capannoni industriali, luci al sodio e prostitute nigeriane. E’ tardi, è ora di tornare in stazione; qualcuna già ripone i vestiti del lavoro e le scarpe con i tacchi alti nei sacchetti di cellophane. GXX e YYY arrivano con la loro auto, musica tecno a tutto volume. Rumore di freni. Retromarcia. Frenata. Si abbassa il vetro. Vuoi un passaggio in stazione? La negra sale. Risate. Una bottiglia di birra vola fuori a infrangersi sul piazzale vuoto. Pochi metri, poi l’auto si ferma dietro un capannone. Si contratta. Venti bocca, trenta bocca e figa. YYY si fa fare un pompino. GXX le tira giù le mutande e cerca di scoparla, ma è ubriaco e non gli viene duro. Lei intanto ha già finito e vuole rivestirsi. Lui dice che con il preservativo non ci riesce. Lei senza non vuole. Lui le chiede indietro i soldi. Lei rifiuta. Allora i due le strappano la borsa e si riprendono i loro soldi, e anche quelli di altri pompini. Lei li insulta e deride GXX perché non gli viene duro. Lui la stende sul sedile, prende un cacciavite e minaccia di scoparla con quello. Lei urla. Arriva una macchina che parcheggia lì vicino. Lei continua a urlare. Loro si spaventano, la buttano fuori e scappano. Lei riesce a prendere il numero di targa.

* * *

Didì è appena uscita quando arriva la moglie di GXX. Questa volta ha lasciato il bambino dalla nonna. Si accomoda sulla poltrona in pelle davanti alla mia scrivania, spalanca gli occhioni da bambina e mi guarda ansiosa.

«Allora, avvocato…?»

«Signora, francamente… non siamo messi benissimo.»

«Ma questo affidamento dovrebbero darglielo, no? sono passati quattro anni, ci siamo sposati, è nato lui... il lavoro ce l’ha, io adesso sono sei mesi che… se non mi aiuta mia mamma non so come tirare avanti… Almeno i domiciliari

Dicono tutti così: almeno i domiciliari.

«No, la detenzione domiciliare non gliela possono dare.»

«Perché no? Io sono già andata dai carabinieri a firmare che lo prendo in casa…»

«Per questo tipo di reato non si può, per legge. O gli danno l’affidamento o altrimenti la condanna se la fa tutta dentro. E la semilibertà potrà chiederla solo dopo che avrà scontato due terzi della pena»

«Ma lui quanto ha da fare, ancora?»

«Come quanto ha da fare ancora? Signora. Ha preso tre anni e quattro. Sei mesi li aveva già fatti dopo l’arresto. Sei mesi li ha fatti adesso… gli mancano due anni e quattro mesi.»

«Due anni e quattro mesi??»

«Eh.»

«Due anni e quattro mesi? E io come faccio?»

«Se in carcere si comporta bene, se non prende rapporti, ogni sei mesi può avere uno sconto di quarantacinque giorni…»

«Ma glielo dovrebbero dare l’affidamento, no? Loro non guardano che lui ha una famiglia, un bambino piccolo?»

«Signora… a me piace dire le cose come stanno: non siamo messi bene. Il fatto è brutto, e la relazione di sintesi non è bella.»

«…»

«E’ la relazione che gli educatori del carcere fanno sulla persona del condannato. Serve a far conoscere la persona al Tribunale di Sorveglianza che deve decidere se dargli l’affidamento in prova o no.»

«Ma lui si è sempre comportato bene.»

«Non vuol dire… Qui dicono che lui non ha mai ammesso la propria responsabilità. Né al processo né adesso nei colloqui con gli educatori. Dicono che tende a minimizzare. Che… aspetti, gliela leggo: “si pone in posizione conflittuale e di rifiuto verso una rivisitazione dell’accaduto… ritiene l’attuale carcerazione troppo punitiva… non mostra resipiscenza né autentica comprensione della gravità del fatto per il quale ha riportato condanna (n.d.r.: oltre alla rapina aggravata, una tentata violenza sessuale mediante il minacciato uso di un cacciavite)… il disvalore della condotta deviante… personalità poco strutturata e povera di risorse… nei colloqui con gli educatori strumentalizza la sua situazione familiare obiettivamente difficile (giovane moglie e un figlio di diciotto mesi) per rivendicare il preteso diritto ad ottenere la misura alternativa richiesta...”. Insomma, signora, lei capisce che non è un bel quadro.»

«E cosa possiamo fare?»

«Adesso? Poco. Avrebbe dovuto confessare subito appena arrestato, offrirsi di risarcire il danno, farsi vedere più… insomma: dimostrarsi pentito, fare del volontariato... porsi con gli educatori in un altro modo. Adesso è tardi. Se anche gli faccio firmare una dichiarazione con scritte tante belle cose, si capisce subito che l’ho scritta io e quindi non vale niente.»

«E allora cosa si può fare?»

«Guardi, io ho preparato una memoria scritta. L’ho fatta a nome suo, signora, come se parlasse lei per spiegare l’atteggiamento di suo marito e per cercare di raddrizzare un po’ le cose. Per spiegare perché lui si è comportato in un certo modo. Per dire che lei nonostante quello che è successo è disposta a dargli ancora fiducia, e che quindi se la moglie è pronta a dargli fiducia allora anche il Tribunale può dargliela questa fiducia.»

«Lei cosa dice?»

«Dico che ci proviamo... Purtroppo la pianta che cresce storta bisogna cercare di raddrizzarla quando è piccola, dopo diventa difficile. Aspetti, adesso gliela leggo. Allora…

Al Tribunale di sorveglianza di Milano… Memoria difensiva nell’interesse di, procedimento numero, udienza del. La sottoscritta CCC, nata a, residente in, moglie di, detenuto a, dichiara: …

La guardo di sottecchi. Sembra che trattenga il respiro aspettando di sentire qualche parola magica.

Ho una relazione sentimentale con GXX da sette anni, da quando ne avevo quindici. Conviviamo da tre anni, e siamo sposati da due. Stavamo già insieme nel 2009 quando fu arrestato per la condanna che sta scontando. Lui è sempre stato restio a parlarmi di questo fatto. Pur ammettendo la sua colpa me lo ha sempre raccontato cercando di minimizzarlo, descrivendolo come un episodio dovuto a qualche bicchiere di troppo (anche se lui non ha mai avuto problemi di alcool)

Questo lo scriviamo perché senno’ ci dicono che non è mai andato al SerT…»

Lei annuisce.

… e attribuendo la principale responsabilità di quanto accaduto al suo coimputato, soprattutto con riguardo al reato di natura sessuale. Credo che la ragione di questo suo atteggiamento stia nel fatto che lui sa bene come io la penso nei confronti di chi commette reati come quelli di violenza sessuale. Tante volte, sull'argomento, io ero stata molto dura nei miei giudizi sulle pene che meriterebbero queste persone. Credo dunque che abbia cercato di minimizzare la propria responsabilità per vergogna nei miei confronti e per paura della mia reazione, per la sua paura di perdermi.

Alzo gli occhi dal foglio. Si è girata verso la finestra e guarda fuori verso la piazza. E’ tardi, è buio e la piazza è già vuota. Ha gli occhi lucidi.

Ultimamente, con l'avvicinarsi della camera di consiglio nella quale si deciderà sulla sua richiesta di affidamento in prova, ho parlato con l'assistente sociale, e quello che lei mi ha detto mi ha fatto riflettere su molte cose. Anche l'avvocato mi aveva detto che il fatto per il quale mio marito è stato condannato era brutto. Per questo nei giorni scorsi, quando sono andata a colloquio con lui in carcere, gli ho chiesto di dirmi le cose come stanno per davvero. Io che non riuscivo a credere (forse non volevo credere) che lui fosse capace di certe cose, e che mi ero sempre accontentata di quello che lui mi diceva, l'ho messo alle strette. Gli ho detto che per continuare la nostra vita insieme era necessaria la massima sincerità da parte sua.

Non riesco a non guardarla. Così piccolina, in quella grande poltrona di pelle sembra una bambina. Tira su con il naso.

Alla mia richiesta di essere sincero con me, lui alla fine quasi piangendo ha ammesso la propria responsabilità non solo per la rapina alla prostituta, ma anche per la tentata violenza sessuale che gli era stata contestata e per la quale è stato condannato. Non mi è stato facile accettare questa cosa, così come per lui non è stato facile confessarmela, e ammetto che in un primo momento ho anche pensato di troncare la nostra relazione.

Cerca un fazzoletto di carta. La vedo asciugarsi gli occhi di nascosto.

Questi sei mesi di carcere sono stati molto lunghi per entrambi, ma hanno avuto il merito di metterci davanti alla realtà. Hanno fatto capire a tutti e due che si deve parlare chiaro e non nascondersi le cose, anche quelle più brutte. Alla fine ho pensato a tutto il tempo passato insieme, ai tanti momenti belli. Credo che questi anni nei quali lui si è sempre comportato verso di me con rispetto debbano pesare più della follia di una sola notte.

Ora piange in silenzio…

Adesso che le cose tra di noi si sono chiarite, mi sento ancora più vicina a lui, che adesso ha bisogno di me più di prima. Io sono disposta a dargli fiducia e a continuare la nostra vita insieme, e credo che non gli capiterà mai più di sbagliare.

…e non si da’ nemmeno più la pena di nascondere le lacrime.

Spero che gli venga concesso l'affidamento in prova e che possa tornare presto a casa da me e dal nostro bambino. Ora lui sa che io ho fiducia in lui anche se ha fatto quello che ha fatto, e credo che non tradirà questa fiducia che adesso, anche più di prima, mi sento di dargli.

In fede, firmato etc. etc.

Poso la memoria sulla scrivania. Lei, sempre rivolta verso la finestra, guarda la piazza senza neanche vederla e piange quietamente il suo pianto senza rimedio, le mani abbandonate in grembo, come appesantite dalla stanchezza di cento generazioni. Tutto nella stanza è silenzio; si può sentire il ronzio del PC.

Vorrei abbracciarla e tenerla stretta per un po’, senza più parole, non più… ma non posso far altro che fingere interesse per qualche altra carta nel fascicolo del marito. Quando si volta le offro un fazzolettino. Mi ringrazia con un filo di voce. Le porgo la memoria da firmare, e lei la firma con una grafìa ancora bambina.

«Avvocato, le ho portato gli altri duecento euro.»

Cerca nella borsa e mi mette i soldi sulla scrivania.

* * *

A me non piace la gente. Mi piace scrivere.

In un certo senso, posso dire che scrivo per lavoro. Anzi, come vi avevo detto, a volte ho perfino un privilegio che agli scrittori veri è negato: quello di vedere con i miei occhi l’effetto che fa quello che scrivo, come nella storia che vi ho appena raccontato. Il Privilegio della Memoria.

Come andò a finire? Il Tribunale respinse la richiesta di affidamento in prova, e così GXX nominò un altro avvocato.

Lei, dopo quella sera, non la vidi più. Dopo averla accompagnata alla porta tornai alla mia scrivania e mi misi anch’io a guardare fuori dalla finestra. La vidi attraversare la piazza in direzione della fermata dell’autobus, piccola e infelice.

Anch’io lo ero. Nell’uscire aveva sfuggito il mio sguardo. Capii che adesso mi odiava per quella intimità forzata che le avevo imposto. Era come se le avessi toccato l’anima senza chiedere permesso, con un cacciavite.

Saper scrivere. Bella soddisfazione.

---

Questo racconto me l'ha mandato Gordon, che ormai hai imparato a conoscere.

Ti faccio leggere cosa mi ha scritto per accompagnarlo, e cosa ho risposto io:

> Non mi piace, non mi convince e per giunta - lo so - non rispetta le linee guida...
> Ma mi è costato scriverlo, ed è una storia vera.

Oh Maurizio, non me ne frega niente se rispetta o meno le linee guida: è bellissimo.
Lo metto. E adesso creo un tag tutto per te: Gordon

 

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