TraLeStelleDell'Orsa

Lo specchio degli occhi


Un brivido. Il freddo torna a proiettare cieli limpidi su un manto scuro e soffice che attutisce ogni rumore. Nessun suono. Nessun odore. L'aria è fermaNon brucia la legna nel forno del panificio poco distante. Forse il vento sta donando la fragranza del pane appena cotto a qualche altro angolo della città. Quel profumo inconfondibile che lega ancora questi tempi moderni ad un passato che sembra lontano, ma in realtà non lo è, se ci sono ancora uomini e donne in vita che possono evocarlo. Due di loro dormono nella stanza alle mie spalle. Hanno chiuso gli occhi chiedendosi che diavolo ci faccia, io, seduto a notte fonda d'avanti a quella macchina infernale che non capiscono e non si sono mai sforzati di capire. Che Dio li benedica. Non bruciano i pneumatci nel cementificio, che pur se distante, riesce a spargere una foschia irritante e maleodorante attorno a se per chilometri. Quello si che ricorda quali tempi stiamo vivendo. E non ha un legame con il passato. E non ha un legame con il futuro. E' solo uno stupido, folle, presente irresponsabile del cazzo. La prima boccata è sempre la migliore. E' appagante. Forse ho bisogno di un odore, sarà l'assuefazione da nicotina, sarà che irresponsabile lo sono anch'io.
Il fumo grigiastro della sigaretta sfuoca i contorni dei palazzi, dei lampioni e degli alberi, e sale più su ad offuscare le stelle di una notte senza luna, per poi dissolversi. Vedo, ma quel che vedo è uno sfondo. Le forme si distorcono, i colori si mescolano su una superficie inanimata che riflette vecchie scene, ricordi che sembrano comparire sullo schermo di una tv. C'è stato un tempo in cui faticavo ad addormentarmi, e quel peso che opprimeva il cuore spingeva fuori pensieri che si spargevano attorno, senza lasciarmi il tempo di tracciarne i contorni su un foglio, perché ce n'erano altri che venivano fuori con un impeto incontrollabile. C'è stato un tempo in cui la mattina mi svegliavo ma rimanevo nel letto,  e tutto ricominciava come poche ore prima.Alla fine ci sono riuscito. Sono riuscito ad imprigionare quella parte di me che prima era me. Quella che odiavo profondamente perché mi faceva soffrire. Quella che mi faceva sentire solo in un mondo troppo diverso. Quella che ho chiamato Shasa, quella che ho descritto come se la vedessi dall'esterno. No, non "come se". La vedevo dall'esterno. Sono riuscito ad adeguarmi al mondo che detestavo. L'ho voluto con tutto me stesso perché ero stanco, stanco di soffrire. Ma ora, così, non vivo neanche più. E mi manca, Dio se mi manca. I suoi occhi vedono ancora attraverso i miei, le sue orecchie ascoltano ancora attraverso le mie, ma è diventato muto e malfermo. Inerme in una prigione senza muri che ne inchioda il respiro e spegne sul nascere le sue brame di libertà. Le dita rimangono immobili, che siano sospese su una tastiera o che stringano in pugno una penna, ormai sono appendici sterili di un corpo prigione che non sa dare più voce all'anima.Si sta spegnendo anche questo riflesso di un tempo senza luogo, generato da uno specchio che diventa cieco ancor prima che mi possa girare verso di lui per cercare tutto ciò che ho perso. S'è spento, ed al confine tra occhi e bocca lo sguardo si unisce al buio, e si adagia sul suo letto di morte senza il conforto che sia l'ultima volta, perché lo specchio genererà altri riflessi, e la prigione altre morti. Il tenue bagliore della sigaretta quasi finita mi risveglia, come una timida alba di inverno sull'incubo che era un sogno. Butto giù l'ultimo sorso, il gusto forte e bruciante dell'amaro mi segna il petto. Forse non avrei mai dovuto stancarmi di soffrire.