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Giornale Culturale edito da GIORGIO BERTAZZOLI

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CONFIDENZE LETTERARIE (Articolo di Giorgio Bertazzoli)

Post n°26 pubblicato il 06 Marzo 2008 da Bgponcio1

Il mio amore per la lettura sbocciò attorno all’età di undici anni e come tutte le passioni in maniera del tutto improvvisa. Non so spiegarmi ancora il perché e per quale motivo (di certo inusuale, visto il periodo) mi addentrai in un mondo per me nuovo. L’unica cosa che so, è che il merito, se così vogliamo chiamarlo, non fu della scuola. Anzi. Iniziavo forse a provare quella tipica repulsione scolastica che sta alla base, o quasi, di ogni sana preparazione culturale. Un amico – eccolo il tramite – mi regalò una versione illustrata (solo 10 novelle, e non edite nell’astruso linguaggio trecentesco) per ragazzi del “Decamerone” di Giovanni Boccaccio, (che tutt’oggi conservo nella mia erigenda biblioteca composta da oltre 1500 testi), raccontata con leggiadra maestria da Piero Chiara; trovai in essa un certo interesse spontaneo, che mi cambiò realmente l’esistenza. Mi insegnò più quel libretto, di quanto non avesse fatto nei precedenti cinque anni la mia maestra elementare. Le descrizioni boccaccesche, ambientate in periodi ben precisi, scaturirono in me l’altra mia grande passione, quella per la storia. Pervaso da un nuovo spirito ricercatore, mi lanciai verso la conquista del SAPERE. E come una reazione a catena, iniziai ad apprezzare la poesia, l’arte e la filosofia. Da allora sono trascorsi 16 anni, ed ho letto all’incirca 3000 libri. Non che siano molti, ma considerata la media nazionale e la mia giovane età, posso stare tranquillo. Prima di morire, lo statista Giovanni Spadolini (uomo di straordinaria cultura, pensate, riusciva a scrivere un saggio mentre viaggiava in treno da Milano a Roma) dichiarò in una intervista che nella sua vita aveva letto all’incirca ben 80.000 volumi. Oscar Wilde riusciva a leggere un libro in venti minuti, e Giacomo Leopardi, nei suoi famosi “sette anni di studio matto e disperatissimo”, grazie alla monumentale biblioteca del conte Monaldo, ne lesse qualcosa come 14.000. Indubbiamente potreste recriminarmi, obbiettando che l’intelligenza di un uomo non si misura dalla quantità o qualità di libri letti. L’intelligenza no, la cultura sì, però. Come riconoscimento di principio, l’intelligenza non va negata a nessuno; c’è tuttavia una distinzione che va operata tra l’intelligenza che viene esercitata, quindi un’intelligenza acuta, e per contro un’intelligenza ottusa, cioè quella che non è curiosa, quella per cui, magari arrendendosi a dover lavorare per tutta la vita in un posto, si ritenga di non aver bisogno di molte armi, e quindi si alleviano poche conoscenze, poche curiosità, perché si è convinti di non aver bisogno nella propria vita altro che di quei pochi strumenti, quelle poche cose che servono per vegetare. Altra cosa è l’intelligenza acuta, quella di chi è curioso, di chi viaggia nel mondo, di chi si muove, di chi vuole vedere, capire e sapere, e anche di quei molti solitari o sedentari che, in contraddizione con il piccolo spazio fisico della propria esistenza quotidiana, elaborano un grande spazio della mente. Platone teorizzava che dentro ogni uomo esiste “l’anamnesi”, ossia la radice della conoscenza. Essa è una forma di “ricordo”, un riemergere di ciò che esiste già da sempre nell’interiorità della nostra anima. Questa spiegazione poteva andar bene indubbiamente 2500 anni fa, ora è scientificamente provato che ogni essere umano ha la capacità di sviluppare e far crescere il proprio livello intellettivo, grazie alla curiosità che ci assale, sin dai primissimi mesi di vita. Il nostro cervello è come una spugna recettiva d’assorbire quanta più conoscenza possibile. Questa sete con l’età adulta si assopisce e sta a noi ed alla nostra – appunto – intelligenza, mantenerla viva. Devo ammettere però, con un certo rammarico, che chi legge (e questo vale anche per coloro che vanno al cinema) deve fare i conti con la memoria e con l’ambizione di potersi almeno ricordare la trama, i personaggi, ed altre caratteristiche dei libri compitati. Quindi di varie pubblicazioni lette, ho dimenticato moltissime cose, ed a volte mi tocca rileggere (con piacere) libri già trattati. La passione stessa è un ottimo veicolo per mantenere determinate nozioni. Non a caso ho imparato un centinaio di poesie, che devo saltuariamente ripetere per non dimenticare. In pratica attuo quella che io definisco “un’opera di mantenimento”. La poesia, e con essa la letteratura e quindi la lingua, è utile a vivere meglio. Perché la lingua è un arma con cui possiamo difenderci dalla realtà, e i libri sono munizioni che servono a darci maggior prontezza di reazione. Per capire quanto conti in pratica la lingua basta pensare al disagio che proviamo quando andiamo in un paese straniero di cui non conosciamo l’idioma, e ci sentiamo impotenti, ci sentiamo dei vegetali, giacché la lingua non serve solo per comunicare ma per capire. Il mondo è un insieme non soltanto di cose, ma di comunicazioni fra cose, di collegamento fra le cose e le coscienze: e il collegamento fra le cose e le coscienze è dato dalla lingua, sicché la letteratura, la lingua e la poesia, sono elementi formidabili di comprensione del mondo. Più abbiamo conoscenza, più acquisiamo esperienza di ciò che gli uomini hanno pensato (e della lingua in cui essi hanno pensato) e più siamo padroni del mondo; chi conosce poche parole è perdente: una persona che conosce soltanto trecento parole si difende male, riesce a muoversi soltanto in ambiti ristretti, ottusi.

Predispongo una certa antipatia per i libri nuovi, preferisco a volte ricomprare scritti già letti, magari in diverse edizioni e rileggere ciò che mi ha deliziato, piuttosto che acquistare cose nuove, che magari potrebbero non piacermi. Nella mia carriera da autodidatta letterario, avrò abbandonato la lettura di circa 200 libri, trovati da me noiosi, brutti e scritti male. Essi però il più delle volte stimolano in me una straordinaria reazione: mi fanno sentire superiore. Invece quando ci troviamo dinanzi alla grandezza di certi autori come sant’Agostino, Dante Alighieri, oppure Imanuel Kant ci annichiliamo e temiamo un confronto tra la loro intelligenza e la nostra. Con incipit del tipo: Chiamatemi Ismaele (inizio del classico di Melville, “Moby Dick”), oppure In principio era il Verbo, il Verbo era Dio, il Verbo era presso Dio (affascinante inizio de “Il nome della Rosa” di Umberto Eco), come si fa ad abbandonare la lettura del romanzo? Infatti non si abbandona. In genere se un bravo autore riesce ad attrarvi ed a mantenere alto il vostro interesse sin dalle prime pagine, vuol dire che non ha fallito il suo scopo. Invece la scuola – e parlo da professore, ha fallito a proporsi agli studenti, obbligandoli a leggere opere di un certo o alto fascino. Un libro è davvero utile se non ti serve a niente. Il libro cosiddetto utile fa schifo. Libri utili sono il sussidiario, il manuale, l’antologia. Questi che nascono per essere utili, e sono obbligatori acquistare, che di solito dobbiamo usare a scuola, sono assolutamente libri privi di vitalità. Il libro gratuito, cioè quello che prendi quando vuoi, che nessuno ti impone, diventa utilissimo perché promuove la tua libertà. Nell’invenzione di Shakespeare, re Lear dice: “Toglietemi il necessario, ma lasciatemi il superfluo”. Se avete da mangiare e da dormire, avete le cose che in una società civile ognuno dovrebbe avere, ma non per questo siete felici. Cos’è che può rendervi felici, o illuderlo di esserlo? Il fatto che domani vi regalino un Rolex, e dopodomani una Ferrari, cioè qualcosa che è in più. Il superfluo, in realtà, è quello che consente la felicità: felicità materiale nel caso degli oggetti che ho ricordato, felicità non materiale nel caso del libro, felicità di stimoli, di idee, data dalla possibilità di comprendere qualcosa prima non compresa. Chi è capace di entrare nella felicità di un libro prova un’ebbrezza infinitamente più alta di quella che possono dare le Ferrari o gli orologi. L’ebbrezza di un lusso che costa pochi euro.

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