Creato da danila_1982 il 17/06/2009
Socrate: "So di non sapere"
 

 

Perche' oggi si parla della "dignita' del morire"

Post n°2 pubblicato il 07 Luglio 2009 da salottodeibuoni
 

Mi permetto di un rapido inserimento per commentare dal mio punto di vista e da una visione forse meno contemporanea, ma sicuramente correttamente storica, un argomento cosi' in auge in questi giorni ma in realta' strettamente correlato a valori fino a poco tempo fa, inesistenti. Tutto nasce dalla coscenza da parte dell'uomo di una correlazione non piu' umana e istintiva tra vita, corpo, malattia, possibilita' di cura, definizione di possibilita' di accanimento in terapia, sostanza reale determinata dalla conoscenza nei confronti di una possibilita' di intervento su cio' che sino a pochi decenni addietro, era fantascentifico immaginare. Il concetto di morte, fino alla fine del xx° secolo era strettamente collegato all'aspetto fatalistico religioso, per una approssimativa, anche se in fase evolutiva che diviene inarrestabile nel nostro contemporaneo, possibilita' medico scentifica di arrestare e soprattutto conoscere l'entita' del male. Niente era possibile per combattere una epidemia di peste, la vita media dell'uomo era strettamente proporzionale alla casistica del tempo, non era possibile la concezione "umana e profonda" del concetto di vita. La vita, in quanto tale, non aveva l'importanza che oggi fa' scrivere contro o a favore di decisioni che muovono le "coscenze" piu' o meno illuminate del nostro tempo. L'uomo, oggi, sperimenta su se stesso la possibilita' della immortalita' prima ostaggio della chiesa come ricatto del potere temporale sull'unica certezza consentita all'essere umano: la morte. Ma in tutto cio', il clero continua nella sua opera demolitrice a suo favore esprimendo autorita' per controbattere la coscenza autonoma dell'uomo, il combattimento difficile ma non impossibile contro l'ineluttabile celeste, quel desiderio anche per i non credenti di avvicinarsi ad un ipotetico Dio sinonimo di perfezione ed umanita'. Di chi e' la vita? Di chi l'ha soffiata in un corpo inerme attraverso le narici come iconograficamente ci e' stato tramandato, o e' propria di chi la deve affrontare ed avere la possibilita' di scegliere quando e come interromperla? La risposta e' e rimane nella nuova coscenza dell'uomo che finalmente si sta' riappropiando di cio' che per secoli gli e' stato levato: la possibilita' di scegliere senza inferni di rimando lasciando alla chiesa il potere politico ed economico, ma non il potere sulla vita.  

 
 
 

DELLA DIGNITÀ DEL MORIRE - UNA DIFESA DELLA LIBERA SCELTA

Post n°1 pubblicato il 05 Luglio 2009 da danila_1982
 

HANS KÜNG CON WALTER JENS

 

DELLA DIGNITÀ DEL MORIRE

HANS KÜNG

La riflessione sulla morte non è un problema da affrontare da vecchi, ma è la questione centrale della nostra vita. Il criterio è morire dignitosamente. La morte dignitosa è un grande dono e il grande compito dell’uomo. Siamo coscienti della nostra mortalità. Quindi è importante il come si è affrontata la domanda sulla morte durante la nostra vita, poiché il morire non è soltanto la fase terminale della vita, ma è la dimensione del vivere che contribuisce a determinare le scelte della vita dalla nascita. Infatti, come ha sostenuto Heidegger, «non appena giunge alla vita, un uomo è già vecchio abbastanza per morire»: l’uomo è un «essere per la morte». Ancora oggi la morte è un tabù. L’uomo che non rimuove la propria morte, ma la accetta consapevolmente vive in maniera diversa.

Gerhard  Schulze nel 1993 ha pubblicato La società dell’esperienza, in cui dimostra che nella società dell’esperienza non si parla né del morire né della morte, in quanto vengono considerati fattori di disturbo.

La psichiatra Elisabeth Kǔbler–Ross, autrice de La morte e il morire e altri, come Raymond Moody, hanno raccolto esperienze di pazienti clinicamente morti. Queste esperienze della morte, proprie di morenti che poi non sono effettivamente deceduti, anche se nel momento in cui le hanno attraversate erano considerati clinicamente e non biologicamente morti (la morte definitiva consiste nell’inequivocabile perdita delle funzioni vitali con il conseguente decadimento di tutti gli organi e di tutti i tessuti), non dimostrano nulla su una vita dopo la morte. Questi fenomeni possono essere presenti anche nel sogno, nella schizofrenia, nell’ebbrezza, nell’ipnosi, possono essere causate da allucinogeni; oltre ad agonie piene di gioia e di luce si possono avere forme di morte tormentose e angosciose; nonostante ciò non si può escludere una spiegazione scientifica, medica e fisica. Alla domanda “con la morte finisce tutto” Immanuel Kant risponde che non si può né conoscere né provare scientificamente una realtà che non è nel tempo e nello spazio; per questo, tutti gli argomenti materialisti che intendono provare che tutto finisce con la morte, falliscono. Non è una questione di pertinenza della scienza, ma della morale.

Per Feuerbach e per Freud, Dio e vita eterna sono solo proiezioni, finzioni, illusioni, desideri. L’uomo è un essere finito capace di un desiderio infinito, imperfetto, incompiuto e mai sazio, che cerca sempre, interminabilmente all’infinito, senza mai essere soddisfatto, se non temporaneamente. Per Gerhard  Schulze la nostra società ha «una sorta di fame ormai cronica, che non può più trovare alcuna soddisfazione».

L’esistenza o meno di una vita dopo la morte è mera questione di fiducia, è il desiderio che non sia uno svanire nel nulla.

Le religioni da sempre preparano l’uomo alla morte, ritenendo che il senso dell’esistenza giunga a compimento nella sua fine. Secondo la concezione cristiana, ebraica e mussulmana, l’uomo quando muore non si inabissa nel nulla. Ad esempio, i buddhisti credono nel nirvana, luogo metafisico trascendente, in cui ci si estingue in uno stato finale privo di dolore, avidità, odio e accecamento. Comunque anche gli atei e gli agnostici possono morire coraggiosamente e serenamente.

Il malato terminale non ha bisogno di aggrapparsi a questa vita come se fosse l’ultima. La lotta contro la malattia ha senso finché la guarigione appare possibile, mentre non ha senso combattere ad ogni costo contro la morte, poiché non sarebbe un rimedio ma un tormento; quindi può rimettersi alla realtà ultima con libertà, abbandono e consolazione.

 La dedizione umana e l’affetto di amici e parenti (che debbono aiutarlo anche a regolare le faccende familiari, finanziarie e religiose) sono più preziosi di molti medicinali. Non è possibile che sia proprio una medicina altamente tecnologizzata a condannare il malato terminale all’isolamento a causa delle sue terapie automaticizzate. Bisogna anche tener presente che operazioni, dolori, raggi e chemioterapie possono cambiare un uomo. Donare pazientemente del tempo ad un malato terminale è l’ultimo più grande dono che possiamo fargli.

Sono nati gli ospizi per i malati terminali, dove si rinuncia a prolungare la vita mediante costosi apparecchi medici e si cerca di rendere il morire il più possibile sopportabile, alleviando il dolore e mantenendo il malato cosciente fino alla fine. Ma non possiamo ignorare coloro ai quali nemmeno i più potenti sedativi fanno effetto e, desiderando di congedarsi e di morire in piena coscienza  e dignitosamente, chiedono di essere aiutati a morire. Ci sono degli aspetti dell’eutanasia che qui sono fuori discussione, quali il fatto che un numero sempre più esiguo di giovani dovrà mantenere un numero sempre maggiore di anziani; che spesso gli anziani considerano il prolungamento della vita un peso. Inoltre sono fuori discussione l’illiceità morale di ogni eutanasia imposta per costrizione, la liceità etica dell’eutanasia come tentativo di rendere buona la morte senza per questo accorciare la vita, la liceità etica dell’eutanasia passiva dove la morte è effetto collaterale dovuto all’interruzione dei mezzi di sostentamento artificiale della vita.

Invece è oggetto di grandi discussioni l’eutanasia attiva, morte clemente, che è direttamente finalizzata a far terminare la vita.

In molti Paesi chi collabora a procurare la morte incorre in sanzioni penali, anche se realizza un esplicito desiderio del malato.

Nel 1976 si è tenuta la prima conferenza per la rivendicazione del diritto di morire. La dichiarazione di Tokyo sancisce che ogni persona deve decidere di sé della propria vita e della propria morte, le ultime volontà dei pazienti devono essere riconosciute come diritti dell’uomo e devono essere equiparate a documenti legali.

La campagna pubblicitaria in favore della buona morte e lo scandalo del commercio illecito del cianuro di potassio hanno danneggiato i sostenitori dell’eutanasia attiva.

L’uomo ha il diritto di disporre da sé dell’essere o del non–essere della propria vita in quanto ha il potere di decidere autonomamente di se stesso e quindi lo stato morale ha l’obbligo di ratificare legislativamente questo diritto. Solo il paziente è padrone della vita e della morte.

A questo punto il teologo tedesco Hans Küng racconta l’esperienza di suo fratello, al quale all’età di 22 anni è stato diagnosticato un tumore al cervello e lui ha vissuto il terribile e lento avanzare della morte del fratello che era stato dimesso perché  malato incurabile. Morì soffocato.

Arriva alla conclusione che non dobbiamo avere una falsa immagine di Dio, poiché la vita è dono di Dio, ma la morte è rimessa alla nostra decisione responsabile. L’uomo ha diritto a una vita dignitosa, ma anche ad una morte dignitosa e l’impiego di tecniche che lo mantengono in vita ad ogni costo e lo relega all’agonia e a un’esistenza da vegetale gli nega questo diritto.

La figura giuridica che definisce l’eutanasia passiva un «omettere mediante un agire» non è convincente.

Nessun medico può essere obbligato a compiere pratiche contrarie alla sua coscienza, ma deve aiutare il paziente a trovare un altro medico; poiché è fondamentale il bene del paziente.

Nella Bibbia non ci sono argomenti contro il suicidio o contro la libera scelta di darsi la morte.

Bisogna considerare che, quasi sicuramente, in futuro ci saranno degli abusi dettati dalla pressione sociale sui malati, dalla sete di eredità, dal profitto. Questi abusi dovranno essere combattuti e dovranno essere passibili di condanna penale.

Il teologo riformato Harry Kuitert ha formulato delle condizioni a garanzia dell’eutanasia attiva, quali la richiesta della morte deve venire dal malato e deve essere valutata e discussa col medico, il fatto che deve esserci un’intollerabile condizione di dolore, che deve essere praticata soltanto dal medico, che deve consigliarsi con un collega e deve redigere un resoconto delle sue osservazioni.

I termini legali della dichiarazione scritta del paziente dovranno essere fissati da un normativa chiara, redatta in piena libertà e tutelata contro ogni possibile strumentalizzazione. Non vanno ignorati gli interessi di lungo termine della collettività, ma nello stesso tempo va rispettato il bisogno del singolo di morire dignitosamente. La salute del malato è la legge suprema.

Nel 1980 il teologo morale cattolico di Tubinga Alfons Auer dichiarava che ogni uomo ha «il diritto a veder rispettate dagli altri le sue decisioni di coscienza».

Karl Barth aveva affermato, come caso limite, «che non ogni suicidio è in sé anche sempre un assassinio di se stessi».

Küng, come cristiano e come teologo, è per una terza via teologicamente e cristianamente responsabile: tra un liberismo antireligioso e irresponsabile e un rigorismo reazionario senza compassione. È convinto che il Dio misericordioso ha lasciato all’uomo in procinto di morire la responsabilità e la libertà di coscienza di decidere il modo e il tempo della sua morte.

Poi cita Qohelet, il predicatore della caducità delle cose: «ogni cosa al suo tempo… c’è un tempo per nascere e un tempo per morire».

E siccome è convinto che con la morte non finisce tutto, non gli importa un prolungamento infinito della sua vita biologica, tanto più in condizioni umanamente non dignitose. È certo solo del perdono e della grazia di Dio nella fede in Gesù e questo rende la sua morte diversa da come la vivrebbe se non avesse nessuna speranza. Morire in Dio è la morte veramente degna dell’uomo.

 

SI VIS VITAM PARA MORTEM

WALTER JENS

Walter Jens riflette sul morire, sulla morte e su una fine degna dell’uomo attraversando la letteratura. Inizia il suo excursus dal passo del Vangelo di Matteo che analizza la passione di Gesù di Nazareth, uomo che testimonia ciò che succede quando la dignità umana viene derisa, anche se solo nell’ultima ora di vita. A dare il contorno proprio dei resoconti di una morte indegna dell’uomo non sono l’orgoglio e il pathos eroico, non è la morte dell’eroe nella gloria, ma l’angoscia che durante la vita si è alternata alla speranza.

La morte di Ettore è una morte senza pietà: egli prega invano Achille per una degna sepoltura in patria.

Jens passa poi a parlare della morte feriale narrando il lamento di un contadino boemo che convoca a giudizio la morte, poiché gli ha tolto l’unico suo bene: l’amata moglie. Siamo all’inizio del XV sec..

Si chiede poi se la morte di Al cesti, che si sacrificò dopo aver stretto un patto con la morte che garantisse al marito di continuare a vivere (poi interviene Eracle, che la ridona ai figli e al marito), possa essere ritenuta una morte dolce.

Proseguendo nella sua analisi letteraria evidenzia che grazie all’insegnamento della prosa, del dramma e della poesia sappiamo che cosa significa morire per un uomo. La descrizione letteraria della morte dell’ultimo secolo è divenuta sempre più precisa, efficace e più scientifica.

Inoltre cita l’inizio del romanzo di Mc–Cullers: «la morte è sempre la stessa ma ogni uomo muore alla sua maniera».

Peter Noll scopre di avere un cancro alla vescica. Dopo il colloquio con il medico, fa suo il detto di Pavese: «voglio morire e non lasciarmi morire», non accettando di finire nelle grinfie dell’apparato medico-scientifico per non perdere la sua libertà e la sua dignità. Poi scrive il suo discorso di addio.

Mentre, per Nuland sul letto del malato non esiste nessuna dignità. Quello che chiamiamo morte dignitosa è il tentativo romantico di ottenere un trionfo estetico sulla realtà potente e repellente che caratterizza gli ultimi passi di vita, ma non corrisponde in sé a nulla di reale. La dignità è senza importanza  per il morituro mentre è significativa solo per coloro che restano. Egli è a favore dell’eutanasia attiva, ma con cautela e misura.

Jens conclude il suo excursus letterario citando il caso del dottor Max Schur, che non esitò a somministrare al suo paziente, Sigmund Freud, una dose letale di morfina, rammentando il patto che avevano stipulato in precedenza.

 

RIFLESSIONI PERSONALI

Premesso che la legge, per quanto cerchi di cogliere le sfumature non ci riesce mai totalmente e non è mai assolutamente adeguata per tutti, mi esprimo a favore dell’eutanasia e contro l’accanimento terapeutico. Dopo l’esperienza della perdita di persone a me molto care, e consapevole che la lotta contro la malattia ha senso finché la guarigione appare ancora possibile e che non ha senso tormentarsi e distruggersi nel combattere contro la morte, sono fermamente convinta che, aiutare il malato a congedarsi da questa vita, ovviamente se è stato richiesto liberamente e consapevolmente dallo stesso nel rispetto delle istanze mediche e giuridiche, sia un atto di pietà, compassione, grazia e infinito amore mentre, alimentare le sue speranze e volerlo ancora tra noi a tutti i costi, è un puro atto di egoismo.

Continuano a risuonarmi nella mente le serene parole del nostro amatissimo Papa Giovanni Paolo II che, cosciente e consapevole della sua condizione, ha pronunciato negli ultimi intensi istanti della sua vita: «lasciatemi tornare alla casa del Padre».

Giovedì 2 marzo 2006, leggendo il Quotidiano Nazionale sono stata attratta dall’articolo «MORIRE: Veronesi lancia il testamento biologico»:

 

«Io il testamento biologico l’ho già fatto», spiega l’oncologo Umberto Veronesi. Nei Paesi dove la norma esiste, «l’adesione è forte». E l’Italia è matura. Secondo i giuristi che collaborano con la Fondazione Veronesi, «un individuo può liberamente indicare i trattamenti sanitari che intende ricevere o a cui intende rinunciare, nel caso non sia più in grado di prendere decisioni autonome». «Viviamo in una società pluralistica – spiega Veronesi – è impossibile stabilire un’autorità che vada bene per tutti. L’importante è che si tratti di una volontà sempre modificabile».

 

Viste le mie precedenti considerazioni, mi ritrovo pienamente nelle parole dell’oncologo Veronesi.

Tornando indietro di qualche giorno, martedì 28 febbraio 2006, su il Resto del Carlino, alla “provocazione” di Artemisio Ballabene:

 

da una parte c’è chi sostiene il diritto all’eutanasia, dall’altra chi mira ad allungare la propria esistenza facendosi clonare o ibernare in attesa di tempi migliori. Io, per puro senso di estraneità, resto al centro in attesa di sviluppi…

 

segue la risposta di Giancarlo Liuti «giusto difendere la vita senza forzare la natura»:

 

forse la contraddizione fra eutanasia e ibernazione è soltanto apparente, perché a dominare il campo, in entrambi i casi, resta pur sempre l’idea della morte. Nel primo, infatti, la vita diviene a tal punto insopportabile da ritenere che la morte – la «sora nostra morte», diceva Francesco d’Assisi – sia l’unica via per liberarsi di una condanna atroce e ingiusta. La morte, quindi come amica suprema. Nel secondo, invece, il salto nel buio dell’aldilà è considerato la più orribile delle evenienze, e si è così tenacemente attaccati alla vita da giocare qualsiasi carta, anche la meno probabile, pur di sconfiggere la morte – qui suprema nemica – e immaginare prospettive di perennità corporale. L’una cosa, del resto, non esclude l’altra, visto che una medesima persona può invocare l’eutanasia e al tempo stesso l’ibernazione, allo scopo di ritornare, chissà quando, a vivere in piena salute. Chi può negare, oltretutto, che i progressi della scienza rendano praticabili, prima o poi, terapie capaci di guarire ogni malattia oggi incurabile e che pietrificarsi nel ghiaccio – quasi vita, quasi morte – consenta ad un essere umano di aspettare quei giorni? Comunque, caro Ballabene, mi rallegro con lei per la filosofica saggezza della sua conclusione. In questo disincantato restare in attesa di sviluppi  c’è per un verso l’accettazione degli imperscrutabili disegni del destino e per un altro verso c’è l’apertura mentale verso ipotesi future che allo stato attuale non sarebbe giusto considerare del tutto assurde. Un atteggiamento che prende atto delle leggi della natura e quietamente non se ne sottrae, ma non esclude che esse, in futuro, possano cambiare. 

 

In sintesi, la morte può essere l’amica suprema o, il rovescio della medaglia, nemica suprema.

Mi permetto di fare una precisazione: sono cattolica e so bene che, secondo la dottrina cristiana, il dolore, soprattutto negli ultimi momenti di vita, assume un significato catartico nel piano salvifico di Dio: è una partecipazione alla passione di Cristo, ma, e con questo non voglio giustificarmi, quando si è a stretto contatto con persone molto care che purtroppo sono malati terminali, è impossibile, almeno per me, dopo essere stata toccata da determinate esperienze, restare sempre e comunque fedele alla legge divina. Probabilmente, se non fossi stata colpita negli affetti, ora non  la penserei così, o forse sì.

 
 
 

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