Le Labrene

I gatti di notte


E poi la notte, quante volte si svegliava nel cuore della notte e si illudeva di trovare un gatto affamato come capitava ad Elliott Gould nel Lungo Addio, già, proprio come capitava a lui. E adesso ancora una volta sedeva in mezzo al letto guardando le cifre fosforescenti della sveglia al quarzo che gli rivelavano in una specied’irrisione che erano ancora una volta le tre del mattino e non c'era proprio nessun gatto che l’avrebbe costretto a scendere giù in strada a cercare qualche supermarket aperto tutto la notte e in cui avrebbe vagato sotto luci al neon tra corridoi deserti forniti di alti scaffali per la sua ricerca disperata di cibo per gatti, già, proprio per quello. Aveva sempre ammirato i gatti, forse addirittura sognato di accarezzarli, seguire le strisce con la mano o sostare con le dita innamorate sul manto felino, dio mio, quanto gli sarebbe piaciuto avere un gatto, quasi lo sognava ogni notte, quand’era bambino, dopo che suo padre gliene aveva mostrato uno morto di freddo sul ciglio della strada e a lui quasi era venuto da piangere, quasi avrebbe voluto portarselo a casa lo stesso, pezzo di carne morta da cui su dipartivano file di laboriose instancabili formiche.E adesso quasi le cifre verdi, beffarda fosforescenza del quarzo, gli ricordavano gli occhi dei gatti, forse c’era davvero in quella sua stanza affondata nella periferia, il gatto fantasma di qualche leggenda orientale e forse un giorno lui l’avrebbe catturato e addomesticato oppure forse più probabilmente il gatto l’avrebbe ucciso. Quello che gli sembrava più evidente in quel momento era però la sua mancanza assoluta di sonno e così si alzò e vestì rapidamente dopo aver acceso la luce e spezzato l’incanto di quegli occhi artificiali: in cucina, sul tavolo, c’era ancora il posacenere pieno di cicche (oh che fumatrice accanita lei era sempre stata!) che gli ricordava quella visita e quella discussione di poche ore prima, quei loro due monologhi sovrapposti in una inutile e disastrosa cacofonia. Poi c’era pure quel ricordo, come se fossero passati degli anni ed invece poche ore, piccoli movimenti dell’ingranaggio infernale di Cronos: ricordava, sì, alle tre di notte e completamente sveglio, gli occhi da gatta di lei attraverso le spire del fumo della sua sigaretta (oh, le ripeteva sempre fino alla noia che il fumo le avrebbe fatto male!) e così tutto gli sembrava adesso una congiura felina e lui vittima prescelta senza possibilità di scampo, lui al centro della macchinazione gattesca e già destinato alle unghiate e alla carezza ruvida delle vibrisse. Il sonno così non sarebbe più ritornato, pensò, ed allora decise di uscire: sul pianerottolo due occhi sfavillavano nella penombra: il gatto dei suoi sogni e dei suoi incubi si era incarnato in un micio sornione che lo guardava incuriosito e che si allontanò su per le scale quando lui si avvicinò. Dall’alto dei gradini il gatto lo guardava, in una specie di sfida notturna senza senso, continuava a guardarlo quasi passandolo da parte a parte coi suoi occhi di quarzo fosforescente ed allora lui lo seguì salendo adagio i gradini fino a che lui e il gatto furono da soli all’ultimo piano ed il gatto allora cominciò a raschiare contro la porta mentre lui lo guardava incantato, cominciò a raschiare e allora la porta si aprì e lui e la ragazza si guardarono nella penombra senza dire una sola parola perché guardarsi fu tutto e poi dopo un po’ lei e il gatto scomparvero al di là della porta e lui restò a guardare il rettangolo nero e quella porta spalancata lottando contro la sua paura e il suo desiderio, i suoi antichi demoni che non volevano lasciarlo libero, dio mio, pensò, fammi entrare da quella porta, fammi entrare: era accorata e straziante quella sua preghiera, non aveva mai pregato in vita sua, no, non l’aveva fatto mai e adesso neanche riusciva a meravigliarsi che per la prima volta lo stesse facendo.