Ammiravo il riflesso di Gaia allo specchio mentre si stendeva accuratamente il mascara lungo le sue ciglia nere. Era terribilmente eccitante guardarla mentre si truccava con calma e sapere che di lì a poco il suo corpo sarebbe stato esplorato con avidità da un'altra donna, immaginare che avrei visto i suoi occhi accendersi e infuocarsi e come in una dolce e piccante sfida incontrando i miei "guarda Leo sto godendo insieme a te ma non sei tu a toccarmi". Aveva scelto un completino intimo nero di seta e pizzo che faticava a contenere il suo seno che oggi pareva più ansioso del solito di esplodere fuori da lì. Camicetta un po' scollata, scarpe femminili di un bel rosso accesso ma per nulla volgari. "Ecco sono pronta" si gira verso di me con il suo sorriso da ragazzina incontenibile, poi un "Andiamo davvero?" solo per essere rassicurata, per avere una leggera carezza sul viso. Prende la borsa ed un minuto dopo siamo in automobile direzione Firenze. Ci aspettano un tavolino, due sedie, uno Spritz Aperol, un Negroni, una coppia con la quale, se tutto va come deve andare, condivideremo un ricordo di estasi e piacere che rimarrà indelebile. Soprattutto per me e Gaia perché quella sarebbe rimasta da lì a per sempre la nostra prima volta. Durante il tragitto giochiamo e ridiamo come sempre "Leo mi sa tanto che stasera ordino un Negroni anche io. Ho bisogno di sciogliermi un po'" esplode a ridere "e non mi dire che mi fa male alla stomaco sto prendendo il gastroprottetore dottorino ansioso". Ha bisogno di sciogliersi perché il vulcano Gaia possa esplodere in una eruzione travolgente. Lo fa anche con me. Quando siamo ai matrimoni degli amici beve tanto solo per poi avere la scusa di farmi piedino sotto il tavolo, potarsi qualcosa alla bocca e succhiarlo con le labbra, mandarmi in un SMS con scritto "Ho trovato un posticino carino, puoi mollare un attimo gli sposi che te lo mostro?" perché sa che esattamente dopo cinque secondi sarò lì a prenderla senza se e senza ma. E lei è lì pronta a ricevermi, già pronta ad eruttare piacere. Una volta uno zio della sposa non ben identificato ha aperto la porta e ci ha visti, eravamo in un castello e io la stavo prendendo da dietro contro il muro medievale e le stavo dicendo che era la più porca di tutte le castellane che avessi conosciuto. Lei rideva. Sino alla vista dello zio di Sara.Si era tirata per un secondo giù la gonna del vestito di seta e poi si era girata verso di me, lo zio aveva richiuso la porta brontolando qualcosa e lei si era messa a ridere di nuovo, così avevo ricominciato a prenderla questa volta adagiandola sul tavolo con le gambe larghe sopra le mie spalle. Con Gaia anche andare ai matrimoni era divertente. Eravamo arrivati a destinazione e avevamo trovato subito un parcheggio. Nel tratto di strada che separava la macchina dal bar, più ci avvicinavamo a destinazione più Gaia mi stringeva il braccio "ho i tacchi scusa ma questo piastrellato mi da fastidio". Invece no, voleva sentire il mio contatto, prima di una pazzia che stava condividendo con me voleva accertare che io ci fossi davvero, in quel momento, per una settimana, un mese, una vita non aveva importanza, voleva che in quel momento io ci fossi. Nei tavoli fuori dal bar le coppie sedute erano due. Una di aspetto decisamente gradevole, lei castana, frangetta, ben vestita, lui camicia, occhiale da sole. L'altra decisamente meno attraente. All'improvviso Gaia mi blocca con il braccio, "dimmi che sono quelli sulla sinistra", le rispondo che non può essere diversamente perché la lei la sta mangiando con gli occhi da quando siamo comparsi all'orizzonte. Un brivido mi attraversa la schiena. Bacio Gaia, la prendo per mano e vado verso di loro con passo sicuro. “Penso che in questi casi si dica ugualmente, ciao. Piacere, Leo”. Lei subito dopo “Gaia, piacere sono Gaia” con voce forte, scandita, come quando parla ai ragazzi durante le lezioni. La coppia ricambia le nostre presentazioni, si alzano, prima stringo la mano a lei. Il suo “Piacere, sono Sara” è preceduto di poco dal suono prodotto dal movimento dei suoi braccialetti. “Benvenuti, io sono Daniele” dice lui. Di là a poco il tavolino veniva occupato dalle nostre ordinazioni. Fedele alla linea Gaia sorseggiava il suo primo negroni. Mi sembrava a proprio agio, scherzava, non rinunciava all'ironia e a quelle dinamiche, a tratti surreali, che caratterizzavano il nostro dialogo quotidiano. Guardavo senza insistenza il suo comportamento, ma continuavo a sommare le registrazioni mentali dei frammenti di quelle visioni. Non ha mai abbandonato il bicchiere, spesso lo reggeva con entrambe le mani. Immaginavo le sue dita fredde per il contatto con il vetro ghiacciato, le sue unghie colorate si avvinghiavano alla forma del bicchiere, non potevo non pensare a tutte le volte che quel dettaglio lo notavo quando mi stringeva il sesso, convincendomi che in quel momento era suo e così non avrebbe potuto essere di nessun altra. Ammetto che stavo cercando di riconoscere un germe di complicità con Sara. Indugiavo su come Gaia portava la cannuccia alla bocca, guardavo Sara se in qualche modo stesse rispondendo con qualche segnale. Probabilmente stavo cercando segni scontati. Le due donne stavano comunicando dal primo momento che si sono parlate al telefono. Non avevano mai smesso. Argomentazioni anche banali assumevano una decodificazione nel momento in cui entravano sotto la loro pelle. Il loro linguaggio risultava a me sconosciuto, qualcosa però stava accadendo, ne ero certo. Gaia aveva gli occhi incendiati, proprio come quando il sangue bolle nelle sue vene. Poteva succedere senza preavviso, bastava una parola, un'occasione, un luogo, una situazione in grado di attivarle un desiderio irreversibile che, a prescindere dall'azione che produceva, la portava a non tirarsi indietro; è il momento in cui regole e convincimenti cadono e mi vuole accanto, protagonista o spettatore del suo film che poi con le dita amo sfiorare nella nostra cineteca mentale. Io e Daniele conversavamo amabilmente. In testa mantenevo la certezza che ognuno di noi in realtà considerasse le nostre parole come un rumore non fastidioso, che accettavamo dovesse essere il velo funzionale a coprire il suono dei nostri sensi tesi, antenne paraboliche puntate per raccogliere i segnali che le nostre donne si stavano scambiando. Entrambi avevamo il desiderio di tradurre quella mole di parole non dette, che nascondevano anche i nostri piccoli destini. D'improvviso Sara squarciò le conversazione doppie, quadruple, incrociate e di genere che accompagnavano i nostri drinks. “Gaia devi vedere assolutamente la composizione di sassi colorati che ho incollato su una vecchia porta. Se pensi di essere tu la regina della colla a caldo, ora scoprirai che sei solo una dilettante”. Una sfida ironica quella lanciata da Sara che Gaia colse e rilanciò senza fatica data la sua indole competitiva: “La vedo dura. Non sai chi hai di fronte”. Di lì a poco camminavamo per le strade del centro di Firenze come persone che si conoscevano da sempre zigzagando tra turisti di ogni parte del mondo. Di lì a poco stavamo salendo le scale di un palazzo, un corrimano in ferro battuto ci aiutava a raggiungere un piano illuminato da una vetrata colorata. Ricordo nitidamente l'eco della serratura e la porta che Daniele aprì invitandoci a popolare il loro piccolo mondo. “Ci vuole un brindisi” esordì il padrone di casa, esibendo come un trofeo una bottiglia di preziose bollicine. I bicchieri si toccavano come avanguardie di noi. Sara, abbandonando le sue decoltè e recuperando il contatto dei suoi piedi curati con il parquet posato a coda di pesce, prese per mano Gaia come fanno le bambine quando iniziano un gioco: “Ed ora devi vedere la mia opera d'arte!” Io e Daniele le sentivamo confabulare, ridere, commentare. Io notai una bellissima opera che occupava una parete in pietra. “Accendi quel Lodola” dissi a Daniele. Di lì a poco l'opera si accese dei colori netti di una pin-up seduta su una vespa e contemporaneamente si spensero le voci di Sara e Gaia nell'altra stanza. Per un attimo pensai, per un vecchio ed insano retaggio di ricerca della razionalità, ad un inspiegabile collegamento tra quell'interruttore e le due donne. Ci guardammo senza dire nulla e ci spostammo sulla soglia del soggiorno. Lo sfondo era un vecchio tavolo da lavoro da falegname perfettamente restaurato e sistemato a ridosso di una parete. Sopra trionfava una vecchia porta appesa al muro in orizzontale su cui sassi colorati rossi, arancioni, gialli e bianchi davano forma ad un sole. La fotografia si completava con in primo piano Sara e Gaia che si baciavano dolcemente. Una scossa violenta mi attraversò la pelle. La mia Gaia lo stava facendo davvero. Si lasciava attraversare da Sara, le donava le labbra con il collo leggermente inclinato verso destra. La ricambiava, intercettavo a tratti la visione delle loro lingue lucide. Erano delicate, femminili, eleganti. I fotogrammi scorrevano uno dietro l'altro. Le mani che si tenevano, che si accompagnavano lungo un filo di perle, che seguivano la linea dei fianchi. I nostri sguardi si sono ritrovati quando, abbracciate, Sara le baciava il collo. Un sorriso diabolico le illuminava il viso. Diceva tutto. Un tutto semplice, diretto, limpido. “Si, mi piace, tanto”. “Certo che quelle scarpe rosse … Gaia, sono l’unica cosa che stona”, le dico fissandola negli occhi. “Ma che dici, sono bellissime, sappi che però che se le toglie, automaticamente perderà tutti i vestiti” si inserì Sara. Sicura, con un sorriso velato, riprendendo subito dopo a baciarle il collo. In silenzio Gaia si sfilò le scarpe rosse, lo fece lentamente guardando verso il suolo, sapendo però che i riflettori erano tutti su di lei. Sembrava un'attrice consumata, un numero infinito di secondi dedicato ad un gesto banale che sapeva esattamente come mi sarebbe arrivato. “Ecco, fatto” disse poco dopo. Le sorridevo, anche lei ricambiava in modo molto sobrio. Quella sequenza di gesti che sembravano avere avuto quella conclusione si animava invece ancora delle sue mani che sbottonavano inesorabilmente la camicia, allentavano le gonna e la lasciavano nel suo completino di pizzo nero. “Ti avevo avvertito Leo”, disse Sara per poi aggiungere “Daniele, fammi assomigliare a lei”. Tutto stava scivolando su un placido piano inclinato. Lui la spogliava senza esitazioni; l'unica interruzione si ebbe su una cerniera riottosa che placò Gaia, aiutandolo nello scopo. Di lì a poco eravamo a guardarle avvinghiate su un divano. Si cercavano con le bocche e con le mani, si esploravano. In poco tempo ognuna sapeva tutto dell'altra. Quando Sara scese con il viso lungo il ventre di Gaia, lei emise un tenue mugolio. La accolse aprendo le gambe e tenendole la testa, vedevo le sue unghie adagiarsi e scomparire tra i capelli di Sara, l'altra mano si muoveva alternativamente tra la sua gamba ed il tessuto del divano che graffiava come avrebbe fatto una gatta dispettosa. Ti farò male più di un colpo di pistola ... Cantava così Samuel dei Subsonica. Sembra che in certi casi sussista un momento di confusione, di scollamento dalla realtà quando un proiettile ti attraversa e mischia la chimica del corpo, le percezioni si confondono e se non fosse che è in gioco la vita, quella sospensione in un'altra dimensione non sarebbe neanche così male. Stavo così. In una sospensione. A mezza via tra un sogno forse immaginato in modo neanche così diverso ed il fatto che la mia mano avrebbe potuto toccarla davvero, sentirne il calore della pelle; mi stava facendo davvero male, come un colpo di pistola. Mi aveva sparato, lo sapeva, ne era consapevole e non le bastava. Voleva uccidermi definitivamente per farmi rinascere. E così di lì a poco si rese protagonista di un'inversione dei ruoli, regalando la sua bocca al ventre di Sara che liscio e lucente si faceva colpire dalla sua lingua come uno scoglio dalle onde del mare e violare dalle sue dita. Io e Daniele ci trovammo a seguire i loro lineamenti nudi e vibranti, ascoltare i loro piaceri crescenti fino ad offrire la nostra pelle, le nostre bocche ed i nostri sessi tesi alle loro mani e alle loro bocche. Le nostre donne ci donarono se stesse continuando a cercarsi, un'altalena che sembrava assumere la forza di un moto perpetuo, continuavamo a guardarsi anche quando ognuna di loro si dedicava al membro del proprio uomo con avidità. Immaginavo i sapori mescolarsi nella bocca di Gaia. Un vortice continuo, Sara godeva per le spinte di Daniele, Gaia regalava all'ambiente le vibrazioni della sequenza dei suoi piaceri fino al raggiungimento di apici intensi nelle loro bocche. Un silenzio irreale veniva alterato solo dai respiri profondi del suo petto. È l'immagine che mi porto addosso come il più profondo dei tatuaggi.
NOI ... CON LORO (DAVVERO)
Ammiravo il riflesso di Gaia allo specchio mentre si stendeva accuratamente il mascara lungo le sue ciglia nere. Era terribilmente eccitante guardarla mentre si truccava con calma e sapere che di lì a poco il suo corpo sarebbe stato esplorato con avidità da un'altra donna, immaginare che avrei visto i suoi occhi accendersi e infuocarsi e come in una dolce e piccante sfida incontrando i miei "guarda Leo sto godendo insieme a te ma non sei tu a toccarmi". Aveva scelto un completino intimo nero di seta e pizzo che faticava a contenere il suo seno che oggi pareva più ansioso del solito di esplodere fuori da lì. Camicetta un po' scollata, scarpe femminili di un bel rosso accesso ma per nulla volgari. "Ecco sono pronta" si gira verso di me con il suo sorriso da ragazzina incontenibile, poi un "Andiamo davvero?" solo per essere rassicurata, per avere una leggera carezza sul viso. Prende la borsa ed un minuto dopo siamo in automobile direzione Firenze. Ci aspettano un tavolino, due sedie, uno Spritz Aperol, un Negroni, una coppia con la quale, se tutto va come deve andare, condivideremo un ricordo di estasi e piacere che rimarrà indelebile. Soprattutto per me e Gaia perché quella sarebbe rimasta da lì a per sempre la nostra prima volta. Durante il tragitto giochiamo e ridiamo come sempre "Leo mi sa tanto che stasera ordino un Negroni anche io. Ho bisogno di sciogliermi un po'" esplode a ridere "e non mi dire che mi fa male alla stomaco sto prendendo il gastroprottetore dottorino ansioso". Ha bisogno di sciogliersi perché il vulcano Gaia possa esplodere in una eruzione travolgente. Lo fa anche con me. Quando siamo ai matrimoni degli amici beve tanto solo per poi avere la scusa di farmi piedino sotto il tavolo, potarsi qualcosa alla bocca e succhiarlo con le labbra, mandarmi in un SMS con scritto "Ho trovato un posticino carino, puoi mollare un attimo gli sposi che te lo mostro?" perché sa che esattamente dopo cinque secondi sarò lì a prenderla senza se e senza ma. E lei è lì pronta a ricevermi, già pronta ad eruttare piacere. Una volta uno zio della sposa non ben identificato ha aperto la porta e ci ha visti, eravamo in un castello e io la stavo prendendo da dietro contro il muro medievale e le stavo dicendo che era la più porca di tutte le castellane che avessi conosciuto. Lei rideva. Sino alla vista dello zio di Sara.Si era tirata per un secondo giù la gonna del vestito di seta e poi si era girata verso di me, lo zio aveva richiuso la porta brontolando qualcosa e lei si era messa a ridere di nuovo, così avevo ricominciato a prenderla questa volta adagiandola sul tavolo con le gambe larghe sopra le mie spalle. Con Gaia anche andare ai matrimoni era divertente. Eravamo arrivati a destinazione e avevamo trovato subito un parcheggio. Nel tratto di strada che separava la macchina dal bar, più ci avvicinavamo a destinazione più Gaia mi stringeva il braccio "ho i tacchi scusa ma questo piastrellato mi da fastidio". Invece no, voleva sentire il mio contatto, prima di una pazzia che stava condividendo con me voleva accertare che io ci fossi davvero, in quel momento, per una settimana, un mese, una vita non aveva importanza, voleva che in quel momento io ci fossi. Nei tavoli fuori dal bar le coppie sedute erano due. Una di aspetto decisamente gradevole, lei castana, frangetta, ben vestita, lui camicia, occhiale da sole. L'altra decisamente meno attraente. All'improvviso Gaia mi blocca con il braccio, "dimmi che sono quelli sulla sinistra", le rispondo che non può essere diversamente perché la lei la sta mangiando con gli occhi da quando siamo comparsi all'orizzonte. Un brivido mi attraversa la schiena. Bacio Gaia, la prendo per mano e vado verso di loro con passo sicuro. “Penso che in questi casi si dica ugualmente, ciao. Piacere, Leo”. Lei subito dopo “Gaia, piacere sono Gaia” con voce forte, scandita, come quando parla ai ragazzi durante le lezioni. La coppia ricambia le nostre presentazioni, si alzano, prima stringo la mano a lei. Il suo “Piacere, sono Sara” è preceduto di poco dal suono prodotto dal movimento dei suoi braccialetti. “Benvenuti, io sono Daniele” dice lui. Di là a poco il tavolino veniva occupato dalle nostre ordinazioni. Fedele alla linea Gaia sorseggiava il suo primo negroni. Mi sembrava a proprio agio, scherzava, non rinunciava all'ironia e a quelle dinamiche, a tratti surreali, che caratterizzavano il nostro dialogo quotidiano. Guardavo senza insistenza il suo comportamento, ma continuavo a sommare le registrazioni mentali dei frammenti di quelle visioni. Non ha mai abbandonato il bicchiere, spesso lo reggeva con entrambe le mani. Immaginavo le sue dita fredde per il contatto con il vetro ghiacciato, le sue unghie colorate si avvinghiavano alla forma del bicchiere, non potevo non pensare a tutte le volte che quel dettaglio lo notavo quando mi stringeva il sesso, convincendomi che in quel momento era suo e così non avrebbe potuto essere di nessun altra. Ammetto che stavo cercando di riconoscere un germe di complicità con Sara. Indugiavo su come Gaia portava la cannuccia alla bocca, guardavo Sara se in qualche modo stesse rispondendo con qualche segnale. Probabilmente stavo cercando segni scontati. Le due donne stavano comunicando dal primo momento che si sono parlate al telefono. Non avevano mai smesso. Argomentazioni anche banali assumevano una decodificazione nel momento in cui entravano sotto la loro pelle. Il loro linguaggio risultava a me sconosciuto, qualcosa però stava accadendo, ne ero certo. Gaia aveva gli occhi incendiati, proprio come quando il sangue bolle nelle sue vene. Poteva succedere senza preavviso, bastava una parola, un'occasione, un luogo, una situazione in grado di attivarle un desiderio irreversibile che, a prescindere dall'azione che produceva, la portava a non tirarsi indietro; è il momento in cui regole e convincimenti cadono e mi vuole accanto, protagonista o spettatore del suo film che poi con le dita amo sfiorare nella nostra cineteca mentale. Io e Daniele conversavamo amabilmente. In testa mantenevo la certezza che ognuno di noi in realtà considerasse le nostre parole come un rumore non fastidioso, che accettavamo dovesse essere il velo funzionale a coprire il suono dei nostri sensi tesi, antenne paraboliche puntate per raccogliere i segnali che le nostre donne si stavano scambiando. Entrambi avevamo il desiderio di tradurre quella mole di parole non dette, che nascondevano anche i nostri piccoli destini. D'improvviso Sara squarciò le conversazione doppie, quadruple, incrociate e di genere che accompagnavano i nostri drinks. “Gaia devi vedere assolutamente la composizione di sassi colorati che ho incollato su una vecchia porta. Se pensi di essere tu la regina della colla a caldo, ora scoprirai che sei solo una dilettante”. Una sfida ironica quella lanciata da Sara che Gaia colse e rilanciò senza fatica data la sua indole competitiva: “La vedo dura. Non sai chi hai di fronte”. Di lì a poco camminavamo per le strade del centro di Firenze come persone che si conoscevano da sempre zigzagando tra turisti di ogni parte del mondo. Di lì a poco stavamo salendo le scale di un palazzo, un corrimano in ferro battuto ci aiutava a raggiungere un piano illuminato da una vetrata colorata. Ricordo nitidamente l'eco della serratura e la porta che Daniele aprì invitandoci a popolare il loro piccolo mondo. “Ci vuole un brindisi” esordì il padrone di casa, esibendo come un trofeo una bottiglia di preziose bollicine. I bicchieri si toccavano come avanguardie di noi. Sara, abbandonando le sue decoltè e recuperando il contatto dei suoi piedi curati con il parquet posato a coda di pesce, prese per mano Gaia come fanno le bambine quando iniziano un gioco: “Ed ora devi vedere la mia opera d'arte!” Io e Daniele le sentivamo confabulare, ridere, commentare. Io notai una bellissima opera che occupava una parete in pietra. “Accendi quel Lodola” dissi a Daniele. Di lì a poco l'opera si accese dei colori netti di una pin-up seduta su una vespa e contemporaneamente si spensero le voci di Sara e Gaia nell'altra stanza. Per un attimo pensai, per un vecchio ed insano retaggio di ricerca della razionalità, ad un inspiegabile collegamento tra quell'interruttore e le due donne. Ci guardammo senza dire nulla e ci spostammo sulla soglia del soggiorno. Lo sfondo era un vecchio tavolo da lavoro da falegname perfettamente restaurato e sistemato a ridosso di una parete. Sopra trionfava una vecchia porta appesa al muro in orizzontale su cui sassi colorati rossi, arancioni, gialli e bianchi davano forma ad un sole. La fotografia si completava con in primo piano Sara e Gaia che si baciavano dolcemente. Una scossa violenta mi attraversò la pelle. La mia Gaia lo stava facendo davvero. Si lasciava attraversare da Sara, le donava le labbra con il collo leggermente inclinato verso destra. La ricambiava, intercettavo a tratti la visione delle loro lingue lucide. Erano delicate, femminili, eleganti. I fotogrammi scorrevano uno dietro l'altro. Le mani che si tenevano, che si accompagnavano lungo un filo di perle, che seguivano la linea dei fianchi. I nostri sguardi si sono ritrovati quando, abbracciate, Sara le baciava il collo. Un sorriso diabolico le illuminava il viso. Diceva tutto. Un tutto semplice, diretto, limpido. “Si, mi piace, tanto”. “Certo che quelle scarpe rosse … Gaia, sono l’unica cosa che stona”, le dico fissandola negli occhi. “Ma che dici, sono bellissime, sappi che però che se le toglie, automaticamente perderà tutti i vestiti” si inserì Sara. Sicura, con un sorriso velato, riprendendo subito dopo a baciarle il collo. In silenzio Gaia si sfilò le scarpe rosse, lo fece lentamente guardando verso il suolo, sapendo però che i riflettori erano tutti su di lei. Sembrava un'attrice consumata, un numero infinito di secondi dedicato ad un gesto banale che sapeva esattamente come mi sarebbe arrivato. “Ecco, fatto” disse poco dopo. Le sorridevo, anche lei ricambiava in modo molto sobrio. Quella sequenza di gesti che sembravano avere avuto quella conclusione si animava invece ancora delle sue mani che sbottonavano inesorabilmente la camicia, allentavano le gonna e la lasciavano nel suo completino di pizzo nero. “Ti avevo avvertito Leo”, disse Sara per poi aggiungere “Daniele, fammi assomigliare a lei”. Tutto stava scivolando su un placido piano inclinato. Lui la spogliava senza esitazioni; l'unica interruzione si ebbe su una cerniera riottosa che placò Gaia, aiutandolo nello scopo. Di lì a poco eravamo a guardarle avvinghiate su un divano. Si cercavano con le bocche e con le mani, si esploravano. In poco tempo ognuna sapeva tutto dell'altra. Quando Sara scese con il viso lungo il ventre di Gaia, lei emise un tenue mugolio. La accolse aprendo le gambe e tenendole la testa, vedevo le sue unghie adagiarsi e scomparire tra i capelli di Sara, l'altra mano si muoveva alternativamente tra la sua gamba ed il tessuto del divano che graffiava come avrebbe fatto una gatta dispettosa. Ti farò male più di un colpo di pistola ... Cantava così Samuel dei Subsonica. Sembra che in certi casi sussista un momento di confusione, di scollamento dalla realtà quando un proiettile ti attraversa e mischia la chimica del corpo, le percezioni si confondono e se non fosse che è in gioco la vita, quella sospensione in un'altra dimensione non sarebbe neanche così male. Stavo così. In una sospensione. A mezza via tra un sogno forse immaginato in modo neanche così diverso ed il fatto che la mia mano avrebbe potuto toccarla davvero, sentirne il calore della pelle; mi stava facendo davvero male, come un colpo di pistola. Mi aveva sparato, lo sapeva, ne era consapevole e non le bastava. Voleva uccidermi definitivamente per farmi rinascere. E così di lì a poco si rese protagonista di un'inversione dei ruoli, regalando la sua bocca al ventre di Sara che liscio e lucente si faceva colpire dalla sua lingua come uno scoglio dalle onde del mare e violare dalle sue dita. Io e Daniele ci trovammo a seguire i loro lineamenti nudi e vibranti, ascoltare i loro piaceri crescenti fino ad offrire la nostra pelle, le nostre bocche ed i nostri sessi tesi alle loro mani e alle loro bocche. Le nostre donne ci donarono se stesse continuando a cercarsi, un'altalena che sembrava assumere la forza di un moto perpetuo, continuavamo a guardarsi anche quando ognuna di loro si dedicava al membro del proprio uomo con avidità. Immaginavo i sapori mescolarsi nella bocca di Gaia. Un vortice continuo, Sara godeva per le spinte di Daniele, Gaia regalava all'ambiente le vibrazioni della sequenza dei suoi piaceri fino al raggiungimento di apici intensi nelle loro bocche. Un silenzio irreale veniva alterato solo dai respiri profondi del suo petto. È l'immagine che mi porto addosso come il più profondo dei tatuaggi.