TUTTI I COSTI DELL'IMMIGRAZIONE(4° parte)«Gli immigrati sono una ricchezza sociale»Prima ancora dei costi in denaro, più o meno facilmente quantificabili, l’immigrazione porta una serie di svantaggi sociali di dimensioni infinitamente più grandi degli eventuali vantaggi. Taluni vedono la presenza di gente proveniente da tanti paesi diversi come un arricchimento culturale, come una espansione di possibilità di conoscenza, come una occasione di benefica contaminazione – e perciò di rivitalizzazione – della nostra cultura un po’ appesantita dal tempo. Può anche darsi che succeda qualcosa del genere, ma occorre notare che gli apporti culturali esterni avvengono spesso ai livelli più bassi delle loro potenzialità: raramente gli immigrati sono la migliore espressione delle società da cui provengono e la frammentazione stessa delle etnie che compongono l’immigrazione riduce gli apporti positivi a scampoli un po’ banali. Così la “contaminazione” culturale finisce per essere confinata ai negozi etnici, ai ristoranti, alla musica più dozzinale e commerciale, alle treccine nei capelli e alle perline al polso: triste surrogato dei souvenir di viaggi turistici in paesi esotici. Invece i danni sono pesanti. Si comincia con i fastidi della difficile convivenza fra culture, dalle piccole noie della forzata coabitazione e si arriva ai drammi dolorosi della degenerazione dei rapporti interpersonali. Non è evidentemente solo un problema di orari, afrori di cucina, rumori, maleducazione o arroganza – che nella quasi totalità dei casi coinvolgono i ceti più deboli e poveri della popolazione italiana – ma si arriva molto spesso ad attriti duraturi anche violenti, o a dolorose esperienze.Fra il 1996 e il 2009 ci sono stati 257.762 matrimoni misti, 32.000 solo nel 2009 (21.357 secondo la Caritas). Si calcola che le coppie miste, sia sposate sia di fatto, siano state in tutto 590 mila. Tre unioni su quattro si concludono secondo l’Ami (Associazione Matrimonialisti Italiani) con una separazione. Molto spesso le cronache ci consegnano storie molto dolorose e drammatiche che coinvolgono soprattutto i figli di coppie interetniche. Negli ultimi anni i matrimoni misti sono diminuiti grazie alla nuova normativa che richiede per i contraenti il permesso di soggiorno: il matrimonio era sovente impiegato come un mezzo per ottenerlo. Spesso è una scorciatoia anche per l’acquisizione della cittadinanza (più di metà dei 600 mila nuovi cittadini lo sono diventati sposando un italiano) o per accedere alla pensione di reversibilità. I casi accertati di matrimoni fra giovani straniere e anziani italiani sono circa 3.000: neppure pochi se si considera che il fenomeno è solo agli inizi e che comunque ogni giovane vedova (o vedovo) percepirà la pensione per 30-50 anni: un’altra ventina di milioni che vanno in un sussidio molto “creativo” all’immigrazione. Un dettaglio ignobile se si considera che la metà dei pensionati italiani vive con meno di 500 Euro al mese.Assistiamo a un generale degrado dei rapporti umani, alla comparsa di comportamenti che sembravano spariti o marginalizzati nelle nostre comunità: l’imposizione di condizioni subordinate per le donne, le mutilazioni, i matrimoni imposti, la segregazione, la riduzione in schiavitù di lavoratori e prostitute, il lavoro minorile, l’obbligo dell’accattonaggio eccetera. Secondo la Commissione Affari Sociali della Camera fra il 30% e il 36% delle prostitute operanti in Italia (fra 50 e 70 mila) sono straniere, la quasi totalità delle quali in condizioni di pesante sfruttamento, se non di schiavitù. C’è il degrado della qualità dell’istruzione scolastica in classi appesantite da troppi alunni stranieri che rallentano inevitabilmente il passo dell’apprendimento. C’è poi il ritorno di malattie che erano state debellate e che vengono importate da terre in cui sono ancora endemiche, che prosperano grazie ai mancati controlli sanitari, alle scarse norme igieniche e a condizioni di promiscuità, che ripropongono antiche paure. É infine incommensurabile il danno che l’immigrazione porta alla coesione sociale delle nostre comunità e ai loro caratteri identitari, alle culture locali già rese fragili delle migrazioni interne, dalla globalizzazione e dall’inurbamento di grandi masse umane.Spesso sono le appartenenze religiose a costituire un problema di rapporti non sempre facili o pacifici: se il contrasto non esiste con stranieri di fede cristiana (cattolica, ortodossa o altro) e neppure per indù e buddisti, esso si pone quasi sempre in termini duri con i musulmani, che non accettano valori e sistemi di vita diversi dai loro: la parità dei sessi, il rispetto per gli animali, la libertà dei figli. Il fatto che tendano ad aggregarsi in comunità chiuse non fa che incrementare la loro aggressività e intolleranza. La propensione a costruire ghetti etnici non aiuta certo l’integrazione: troppo spesso non c’è gente che aspira al ruolo – come sostiene certa retorica – di “nuovi italiani”, ma gruppi che vogliono restare quello che sono, sovente anche con atteggiamento di sfida e contrapposizione. Oltre al già citato caso dei musulmani, ci sono almeno altre due comunità straniere che neppure provano a integrarsi né fingono di farlo: i cinesi e gli zingari. I cinesi non si mischiano con gli altri: pochi o tanti, costruiscono delle comunità chiuse, delle enclavi cinesi, dei piccoli pezzi di Repubblica Popolare sparsi come colonie fortificate in giro per il mondo. I cinesi se ne stanno fra cinesi, parlano e mangiano cinese, si sposano, curano, litigano e ammazzano fra di loro.Il solo contatto volontario che hanno con gli altri è commerciale: sono abilissimi nel rifilare merci e pietanzini misteriosi ed esotici. Vivono in quartieri dove tutto – arredi, colori, afrori, comportamenti e leggi – li trasforma in scampoli di Cina paracadutati nel mondo. Si dice che gli immigrati cinesi siano i meno fastidiosi in quanto a criminalità: essi raramente commettono reati contro gli italiani, li ignorano, e si fanno tutto fra di loro. Se anche uno scippo è una forma – forse eccessivamente “solidale” – di contatto, loro se li fanno in casa. Le Chinatown non sono ghetti: per loro è ghetto tutto quello che c’è di fuori. I cinesi non fanno lavori che gli altri rifiutano, semplicemente sostituiscono gli altri sul territorio. Si è mai vista una badante o un operaio cinesi che non lavorino per altri cinesi? Loro fanno gli imprenditori, i commercianti, i ristoratori che non sono occupazioni disdegnate dai nostri. Producono ricchezze che non si mescolano con quelle del posto: vengono reinvestite all’interno della comunità o prendono la strada della Cina. Acquistano case e spicchi crescenti di paesaggio urbano nell’ottica di espellere gli altri e di costituire brani di Cina. Anche sui numeri c’è qualcosa che non quadra: l’ultimo rapporto della Caritas Ambrosiana dice – ad esempio – che a Milano ci sarebbero 18.946 cinesi. Il dato contrasta in maniera sensibile con la percezione che si ha girando per le strade, osservando il numero di botteghe e di case occupate da cinesi e la loro proliferazione prodigiosa. É piuttosto evidente che si tratta di un dato infedele. Nel 2010 i cinesi di Lombardia hanno trasferito legalmente 286 milioni di Euro al loro paese di origine, con un aumento di 39 milioni in un anno. Risulterebbe che ognuno dei 41.291 cinesi della regione abbia spedito in Cina circa 7.000 Euro, e cioè il 56% di quanto le statistiche (Fondazione Ismu-Osservatorio regionale) indichino come guadagno annuo di ogni immigrato. I casi possibili sono: 1) il numero di cinesi in Lombardia (e in Italia) è molto superiore a quello ufficialmente indicato; 2) i cinesi sono spropositatamente ricchi ma evidentemente sono anche evasori totali; 3) i proventi esportati in Cina derivano da altre attività e fonti che non sono quelle di lavoro “normale”; 4) i frugalissimi cinesi vivono con 480 Euro al mese, tasse comprese. La cosa è ancora più inverosimile, visto che la Cgia di Mestre dichiara che gli imprenditori cinesi in Lombardia siano nel 2011 ben 10.998. In ogni caso i cinesi dispongono di risorse economiche tali da acquistare sistematicamente esercizi commerciali e abitazioni, e spesso pagarli in contanti. Un altro dato interessante è che, costituendo il 4% della popolazione straniera, hanno esportato il 23,2% delle rimesse totali. La domanda a questo punto è: chi da i numeri, chi li controlla, chi ci crede?Altro caso paradigmatico è quello degli zingari. L’Opera Nomadi dichiara che nel 2008 c’erano in Italia 160.000 zingari, di cui 70.000 cittadini italiani, da tempo presenti sul territorio. Quelli stranieri sono il frutto delle ondate di arrivi degli ultimi decenni. Essi sarebbero poco più dell’1% dei 15 milioni di zingari sparsi per il mondo. Anche in questo caso il numero complessivo è per lo meno opinabile per le peculiarità insediative dei nomadi e per la confusione statistica che li riguarda: a volte sono registrati come gruppo nazionale a sé, altre come bosniaci, serbi, montenegrini e, soprattutto, rumeni.In ogni caso il livello di integrazione degli zingari è praticamente nullo. Costituiscono una comunità socialmente chiusa come quella cinese ma non dispongono della stessa autosufficienza economica: vivono in forma del tutto parassitaria sul corpo della società che li “ospita”. Da molto tempo non si dedicano neppure più a quelle attività lavorative tradizionali (calderai, allevatori di cavalli) che avevano assicurato loro una nicchia peculiare nei rapporti con il resto del mondo: oggi vivono principalmente di carità, di usura e di furti, anche se non è politicamente corretto dirlo. In ogni caso non è proprio possibile parlare né di integrazione né di interscambio sociale, a meno che non si voglia considerare tale l’accattonaggio e il borseggio. Essi costituiscono per le comunità in cui si insediano un costo secco, difficilmente quantificabile per la “evanescenza” stessa dei loro prelievi, per la complessità della loro gestione frastagliata in cento associazioni ed enti pubblici coinvolti, e dispersa in una miriade di interventi diversi. A questo vanno aggiunti i costi – alti ma di difficile individuazione – collegati agli sgomberi, all’attività di polizia e giudiziaria, alle difese passive dei cittadini e alle conseguenza della presenza di zingari sui valori immobiliari delle aree frequentate.«Il tasso di criminalità degli immigrati è uguale a quello degli italiani»Uno degli aspetti più truci dell’intera vicenda si ha con la criminalità. Alcune anime belle dicono e scrivono che la propensione a delinquere di italiani e stranieri sia la stessa. Un rapporto della Fondazione Migrantes sostiene che gli immigrati regolari abbiano lo stesso tasso di devianza degli italiani, sostenendo che l’eventuale problema riguardi solo gli irregolari e che il loro comportamento deriverebbe proprio dalla loro posizione. Il teorema cioè sostiene che per eliminare la criminalità straniera si debba eliminare l’illegalità regolarizzando tutti gli stranieri. Vengono citati dati Istat secondo i quali il tasso di criminalità degli immigrati regolari sarebbe fra l’1,23% e l’1,4%, contro lo 0,75% degli italiani (che è comunque quasi la metà). I numeri raccontano una storia più articolata: un rapporto del Ministero degli Interni del 2006 dice che gli immigrati costituiscono il 51% dei denunciati per rapina o furto in abitazione, il 45% per rapina, il 39% per violenze sessuali, il 36% per gli omicidi consumati, il 31% di quelli tentati e il 27% per lesioni colpose. I numeri percentuali sull’incidenza dei soli immigrati irregolari sono significativi (il 74% per omicidi, il 72% per tentato omicidio, il 62% per violenza carnale e il 63% per sfruttamento della prostituzione) ma non bastano a giustificare la pretesa “normalità” dei regolari.
TUTTI I COSTI DELL'IMMIGRAZIONE (4° parte)
TUTTI I COSTI DELL'IMMIGRAZIONE(4° parte)«Gli immigrati sono una ricchezza sociale»Prima ancora dei costi in denaro, più o meno facilmente quantificabili, l’immigrazione porta una serie di svantaggi sociali di dimensioni infinitamente più grandi degli eventuali vantaggi. Taluni vedono la presenza di gente proveniente da tanti paesi diversi come un arricchimento culturale, come una espansione di possibilità di conoscenza, come una occasione di benefica contaminazione – e perciò di rivitalizzazione – della nostra cultura un po’ appesantita dal tempo. Può anche darsi che succeda qualcosa del genere, ma occorre notare che gli apporti culturali esterni avvengono spesso ai livelli più bassi delle loro potenzialità: raramente gli immigrati sono la migliore espressione delle società da cui provengono e la frammentazione stessa delle etnie che compongono l’immigrazione riduce gli apporti positivi a scampoli un po’ banali. Così la “contaminazione” culturale finisce per essere confinata ai negozi etnici, ai ristoranti, alla musica più dozzinale e commerciale, alle treccine nei capelli e alle perline al polso: triste surrogato dei souvenir di viaggi turistici in paesi esotici. Invece i danni sono pesanti. Si comincia con i fastidi della difficile convivenza fra culture, dalle piccole noie della forzata coabitazione e si arriva ai drammi dolorosi della degenerazione dei rapporti interpersonali. Non è evidentemente solo un problema di orari, afrori di cucina, rumori, maleducazione o arroganza – che nella quasi totalità dei casi coinvolgono i ceti più deboli e poveri della popolazione italiana – ma si arriva molto spesso ad attriti duraturi anche violenti, o a dolorose esperienze.Fra il 1996 e il 2009 ci sono stati 257.762 matrimoni misti, 32.000 solo nel 2009 (21.357 secondo la Caritas). Si calcola che le coppie miste, sia sposate sia di fatto, siano state in tutto 590 mila. Tre unioni su quattro si concludono secondo l’Ami (Associazione Matrimonialisti Italiani) con una separazione. Molto spesso le cronache ci consegnano storie molto dolorose e drammatiche che coinvolgono soprattutto i figli di coppie interetniche. Negli ultimi anni i matrimoni misti sono diminuiti grazie alla nuova normativa che richiede per i contraenti il permesso di soggiorno: il matrimonio era sovente impiegato come un mezzo per ottenerlo. Spesso è una scorciatoia anche per l’acquisizione della cittadinanza (più di metà dei 600 mila nuovi cittadini lo sono diventati sposando un italiano) o per accedere alla pensione di reversibilità. I casi accertati di matrimoni fra giovani straniere e anziani italiani sono circa 3.000: neppure pochi se si considera che il fenomeno è solo agli inizi e che comunque ogni giovane vedova (o vedovo) percepirà la pensione per 30-50 anni: un’altra ventina di milioni che vanno in un sussidio molto “creativo” all’immigrazione. Un dettaglio ignobile se si considera che la metà dei pensionati italiani vive con meno di 500 Euro al mese.Assistiamo a un generale degrado dei rapporti umani, alla comparsa di comportamenti che sembravano spariti o marginalizzati nelle nostre comunità: l’imposizione di condizioni subordinate per le donne, le mutilazioni, i matrimoni imposti, la segregazione, la riduzione in schiavitù di lavoratori e prostitute, il lavoro minorile, l’obbligo dell’accattonaggio eccetera. Secondo la Commissione Affari Sociali della Camera fra il 30% e il 36% delle prostitute operanti in Italia (fra 50 e 70 mila) sono straniere, la quasi totalità delle quali in condizioni di pesante sfruttamento, se non di schiavitù. C’è il degrado della qualità dell’istruzione scolastica in classi appesantite da troppi alunni stranieri che rallentano inevitabilmente il passo dell’apprendimento. C’è poi il ritorno di malattie che erano state debellate e che vengono importate da terre in cui sono ancora endemiche, che prosperano grazie ai mancati controlli sanitari, alle scarse norme igieniche e a condizioni di promiscuità, che ripropongono antiche paure. É infine incommensurabile il danno che l’immigrazione porta alla coesione sociale delle nostre comunità e ai loro caratteri identitari, alle culture locali già rese fragili delle migrazioni interne, dalla globalizzazione e dall’inurbamento di grandi masse umane.Spesso sono le appartenenze religiose a costituire un problema di rapporti non sempre facili o pacifici: se il contrasto non esiste con stranieri di fede cristiana (cattolica, ortodossa o altro) e neppure per indù e buddisti, esso si pone quasi sempre in termini duri con i musulmani, che non accettano valori e sistemi di vita diversi dai loro: la parità dei sessi, il rispetto per gli animali, la libertà dei figli. Il fatto che tendano ad aggregarsi in comunità chiuse non fa che incrementare la loro aggressività e intolleranza. La propensione a costruire ghetti etnici non aiuta certo l’integrazione: troppo spesso non c’è gente che aspira al ruolo – come sostiene certa retorica – di “nuovi italiani”, ma gruppi che vogliono restare quello che sono, sovente anche con atteggiamento di sfida e contrapposizione. Oltre al già citato caso dei musulmani, ci sono almeno altre due comunità straniere che neppure provano a integrarsi né fingono di farlo: i cinesi e gli zingari. I cinesi non si mischiano con gli altri: pochi o tanti, costruiscono delle comunità chiuse, delle enclavi cinesi, dei piccoli pezzi di Repubblica Popolare sparsi come colonie fortificate in giro per il mondo. I cinesi se ne stanno fra cinesi, parlano e mangiano cinese, si sposano, curano, litigano e ammazzano fra di loro.Il solo contatto volontario che hanno con gli altri è commerciale: sono abilissimi nel rifilare merci e pietanzini misteriosi ed esotici. Vivono in quartieri dove tutto – arredi, colori, afrori, comportamenti e leggi – li trasforma in scampoli di Cina paracadutati nel mondo. Si dice che gli immigrati cinesi siano i meno fastidiosi in quanto a criminalità: essi raramente commettono reati contro gli italiani, li ignorano, e si fanno tutto fra di loro. Se anche uno scippo è una forma – forse eccessivamente “solidale” – di contatto, loro se li fanno in casa. Le Chinatown non sono ghetti: per loro è ghetto tutto quello che c’è di fuori. I cinesi non fanno lavori che gli altri rifiutano, semplicemente sostituiscono gli altri sul territorio. Si è mai vista una badante o un operaio cinesi che non lavorino per altri cinesi? Loro fanno gli imprenditori, i commercianti, i ristoratori che non sono occupazioni disdegnate dai nostri. Producono ricchezze che non si mescolano con quelle del posto: vengono reinvestite all’interno della comunità o prendono la strada della Cina. Acquistano case e spicchi crescenti di paesaggio urbano nell’ottica di espellere gli altri e di costituire brani di Cina. Anche sui numeri c’è qualcosa che non quadra: l’ultimo rapporto della Caritas Ambrosiana dice – ad esempio – che a Milano ci sarebbero 18.946 cinesi. Il dato contrasta in maniera sensibile con la percezione che si ha girando per le strade, osservando il numero di botteghe e di case occupate da cinesi e la loro proliferazione prodigiosa. É piuttosto evidente che si tratta di un dato infedele. Nel 2010 i cinesi di Lombardia hanno trasferito legalmente 286 milioni di Euro al loro paese di origine, con un aumento di 39 milioni in un anno. Risulterebbe che ognuno dei 41.291 cinesi della regione abbia spedito in Cina circa 7.000 Euro, e cioè il 56% di quanto le statistiche (Fondazione Ismu-Osservatorio regionale) indichino come guadagno annuo di ogni immigrato. I casi possibili sono: 1) il numero di cinesi in Lombardia (e in Italia) è molto superiore a quello ufficialmente indicato; 2) i cinesi sono spropositatamente ricchi ma evidentemente sono anche evasori totali; 3) i proventi esportati in Cina derivano da altre attività e fonti che non sono quelle di lavoro “normale”; 4) i frugalissimi cinesi vivono con 480 Euro al mese, tasse comprese. La cosa è ancora più inverosimile, visto che la Cgia di Mestre dichiara che gli imprenditori cinesi in Lombardia siano nel 2011 ben 10.998. In ogni caso i cinesi dispongono di risorse economiche tali da acquistare sistematicamente esercizi commerciali e abitazioni, e spesso pagarli in contanti. Un altro dato interessante è che, costituendo il 4% della popolazione straniera, hanno esportato il 23,2% delle rimesse totali. La domanda a questo punto è: chi da i numeri, chi li controlla, chi ci crede?Altro caso paradigmatico è quello degli zingari. L’Opera Nomadi dichiara che nel 2008 c’erano in Italia 160.000 zingari, di cui 70.000 cittadini italiani, da tempo presenti sul territorio. Quelli stranieri sono il frutto delle ondate di arrivi degli ultimi decenni. Essi sarebbero poco più dell’1% dei 15 milioni di zingari sparsi per il mondo. Anche in questo caso il numero complessivo è per lo meno opinabile per le peculiarità insediative dei nomadi e per la confusione statistica che li riguarda: a volte sono registrati come gruppo nazionale a sé, altre come bosniaci, serbi, montenegrini e, soprattutto, rumeni.In ogni caso il livello di integrazione degli zingari è praticamente nullo. Costituiscono una comunità socialmente chiusa come quella cinese ma non dispongono della stessa autosufficienza economica: vivono in forma del tutto parassitaria sul corpo della società che li “ospita”. Da molto tempo non si dedicano neppure più a quelle attività lavorative tradizionali (calderai, allevatori di cavalli) che avevano assicurato loro una nicchia peculiare nei rapporti con il resto del mondo: oggi vivono principalmente di carità, di usura e di furti, anche se non è politicamente corretto dirlo. In ogni caso non è proprio possibile parlare né di integrazione né di interscambio sociale, a meno che non si voglia considerare tale l’accattonaggio e il borseggio. Essi costituiscono per le comunità in cui si insediano un costo secco, difficilmente quantificabile per la “evanescenza” stessa dei loro prelievi, per la complessità della loro gestione frastagliata in cento associazioni ed enti pubblici coinvolti, e dispersa in una miriade di interventi diversi. A questo vanno aggiunti i costi – alti ma di difficile individuazione – collegati agli sgomberi, all’attività di polizia e giudiziaria, alle difese passive dei cittadini e alle conseguenza della presenza di zingari sui valori immobiliari delle aree frequentate.«Il tasso di criminalità degli immigrati è uguale a quello degli italiani»Uno degli aspetti più truci dell’intera vicenda si ha con la criminalità. Alcune anime belle dicono e scrivono che la propensione a delinquere di italiani e stranieri sia la stessa. Un rapporto della Fondazione Migrantes sostiene che gli immigrati regolari abbiano lo stesso tasso di devianza degli italiani, sostenendo che l’eventuale problema riguardi solo gli irregolari e che il loro comportamento deriverebbe proprio dalla loro posizione. Il teorema cioè sostiene che per eliminare la criminalità straniera si debba eliminare l’illegalità regolarizzando tutti gli stranieri. Vengono citati dati Istat secondo i quali il tasso di criminalità degli immigrati regolari sarebbe fra l’1,23% e l’1,4%, contro lo 0,75% degli italiani (che è comunque quasi la metà). I numeri raccontano una storia più articolata: un rapporto del Ministero degli Interni del 2006 dice che gli immigrati costituiscono il 51% dei denunciati per rapina o furto in abitazione, il 45% per rapina, il 39% per violenze sessuali, il 36% per gli omicidi consumati, il 31% di quelli tentati e il 27% per lesioni colpose. I numeri percentuali sull’incidenza dei soli immigrati irregolari sono significativi (il 74% per omicidi, il 72% per tentato omicidio, il 62% per violenza carnale e il 63% per sfruttamento della prostituzione) ma non bastano a giustificare la pretesa “normalità” dei regolari.