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“’Un giorno milioni di uomini lasceranno l’emisfero sud per fare irruzione nell’emisfero nord. E non in modo amichevole.

Verranno per conquistarlo, e lo conquisteranno popolandolo con i loro figli. E’ il ventre delle nostre donne che ci darà la vittoria”.

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IL CUCULO

... quando si schiude l’uovo del cuculo, il piccolo intruso sbatte fuori dal nido i suoi “fratellastri” caricandosene sul dorso le uova e gettandole fuori, o spingendo giù gli altri uccellini del nido se sono già nati...

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................................

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dei diritti dell'uomo nell'islam

................................

 

Messaggi del 06/06/2012

 

Lungo la Salerno-Reggio Calabria la 'ndrangheta continua a imporre il pizzo alle imprese

Post n°896 pubblicato il 06 Giugno 2012 da lecasame

Così i contribuenti pagano il pizzo alla 'ndrangheta sulla Salerno-Reggio Calabria

Lidia Baratta

Lungo la Salerno-Reggio Calabria la 'ndrangheta continua a imporre il pizzo alle imprese, pretendendo il 3% dell'importo dei lavori. Un "costo sicurezza" che le ditte coprono gonfiando le fatture. Così i soldi pubblici per completare la A3 finiscono nelle tasche delle ’ndrine. É quello che ha scoperto la Dda di Reggio Calabria.

4 giugno 2012 - 13:30

Si era presentato nel cantiere lungo l’autostrada Salerno-Reggio Calabria a bordo di una vespa giallo chiaro e con un casco grigio in testa. Rivolgendosi al titolare della ditta, di origini siciliane, aveva chiesto con tono minaccioso se ritenesse giusto fare un lavoro a Scilla senza far «campare le persone del posto». L’“aiutino” ammontava a 6 mila euro: il 3% dell’importo dei lavori dell’impresa. E «non meno». Per lavorare sui cantieri della A3, così come era già stato accertato nell’area di Gioia Tauro, Rosarno e Palmi, tutti dovevano pagare. E a Scilla, piccolo comune calabrese affacciato sullo stretto di Messina, la riscossione del pizzo spettava a loro, gli affiliati della cosca di ‘ndrangheta Nasone-Gaietti.

Un «costo sicurezza» da inserire nella lista delle spese, che le imprese cercavano di coprire gonfiando le fatture. In questo modo,

i soldi pubblici

usati per i lavori di ammodernamento della A3 finivano

direttamente nelle tasche delle ’ndrine.

È quello che è emerso dalle indagini della Direzione distrettuale antimafia e dei Carabinieri di Reggio Calabria, che all’alba del 30 maggio scorso hanno portato all’arresto di dodici presunti affiliati al clan di Scilla, accusati di aver esercitato il «controllo mafioso» sui lavori autostradali. Nell’ambito dell’operazione sono anche stati sequestrati 32 appartamenti, palazzi, terreni, un bar, conti correnti bancari, polizze assicurative e altri prodotti finanziari per un valore complessivo di circa 4 milioni di euro.

Nei mesi scorsi, gli affiliati della cosca Nasone-Gaietti si erano fatti sentire eccome. Escavatori distrutti, automobili incendiate, minacce ai titolari e agli operai. Tutte le imprese che non pagavano o ritardavano il pagamento del 3 per cento, dicono gli inquirenti, venivano colpite. E molti imprenditori, per evitare il danneggiamento di macchine molto costose, avevano accettato di pagare. Per far fronte al pagamento del pizzo, le vittime usavano diversi metodi «elusivi ed evasivi», ha raccontato Ottavio Sferlazza, procuratore facente funzioni di Reggio Calabria, nel corso della conferenza stampa. Uno dei trucchi usati era quello della «sovrafatturazione». In una conversazione telefonica, Franco Nasone racconta a Carmelo Calabrese la situazione di difficoltà in cui si trova l’imprenditore che gli ha appena consegnato una somma di denaro. Il motivo della difficoltà sono i controlli a tappeto della Capitaneria di Porto, che non permettono con facilità di continuare a fatturare una quantità di cemento superiore a quella realmente caricata sulle betoniere. «Che sono due metri in meno sulla betoniera», dice l’imprenditore taglieggiato, «invece di caricarne otto, ne caricano sei». In questo modo, ha spiegato Sferlazza, l'estorsione «comporta altre violazioni della legge da parte degli imprenditori per coprire i costi determinati dalle imposizioni parassitarie del pizzo».

Grazie alle intercettazioni ambientali e telefoniche, è emerso come i membri del clan, che conoscevano «in maniera minuziosa le aree del cantiere», pianificassero con cura i danneggiamenti contro le imprese “non obbedienti”. Prendendo anche particolari precauzioni perché le forze dell’ordine non individuassero i colpevoli. Ogni atto, scrivono gli inquirenti, faceva parte di una precisa «strategia della tensione» per imporre il controllo sul territorio. La cosca metteva in atto una escalation di avvenimenti «sempre pianificata, concepita e metodicamente realizzata». Anche perché, spesso, erano gli stessi affiliati al clan a essere imposti come nuovi assunti alle imprese taglieggiate, diventando «veri e propri collegamenti con i criminali di riferimento».

L’inchiesta della procura di Reggio Calabria ha preso l’avvio dalla denuncia di un imprenditore di Catania, al quale, su un importo dei lavori pari a 245 mila euro, era stato imposto il pagamento di 6 mila euro. Ovvero, il 3 per cento. «Nella circostanza», racconta l’imprenditore, l’uomo con la Vespa gialla e il casco grigio «mi faceva capire che anche le altre imprese che lavorano in zona sono soggette alle medesime richieste e che è normale che corrispondano una cifra proporzionale all’importo dell’appalto che stanno eseguendo. […] Mi chiedeva di consegnare tale somma entro tre giorni. […] Io, manifestando nuovamente difficoltà a reperire la somma richiesta, concordavo la consegna di 4.000 euro». L’imprenditore siciliano ricorda anche di aver chiesto a quell’uomo  «se fosse stato lui a bruciarmi il compressore». E il picciotto rispose che «la colpa del danneggiamento è la mia poiché dovevo rivolgermi prima di iniziare i lavori ad un qualche soggetto non meglio specificato del luogo per pagare la somma di denaro che in quel momento mi stava chiedendo lui».

Il «lui» di cui l’imprenditore parla è Giuseppe Fulco, nipote di Giuseppe Nasone, ex capocosca ucciso in un agguato nel 1987. Il 1 giugno del 2011 Fulco venne trovato con le tasche piene dei 4 mila euro consegnati poco prima dall’imprenditore siciliano. Nonostante una condanna in primo grado a nove anni, l’affiliato della cosca Nasone-Gaietti – in base alle intercettazioni ambientali in carcere disposte dalla Dda reggina - avrebbe continuato a dare indicazioni ai familiari che andavano a trovarlo sulle modalità di prosecuzione della estorsione. Secondo i colloqui intercettati dagli inquirenti, a fare da tramite sarebbe stata soprattutto la sorella di Fulco, Annunziatina (sottoposta a fermo), che avrebbe avuto proprio «il compito di assicurare le comunicazioni tra gli associati, di inviare ‘imbasciate (messaggi, ndr) anche a soggetti detenuti, di partecipare alle riunioni ed eseguire le direttive dei vertici dell’associazione impartite anche dal carcere, riconoscendo e rispettando le gerarchie e le regole interne al sodalizio». Il clan continuava in questo modo a versare “la mesata” a Fulco e a spartire con lui gli utili delle estorsioni.

In base alle intercettazioni telefoniche e ambientali registrate anche nel bar "La Genziana" di Scilla (gestito da Francesco Nasone, indagato), a capo della cosca ci sarebbe stato il boss 68enne Virgilio Giuseppe Nasone, «con compiti di decisione, pianificazione e individuazione delle azioni e delle strategie generali del sodalizio criminoso». La “famiglia”, che aveva continuato a imporre il pizzo alle aziende appaltatrici nonostante l’arresto di Fulco, esercitava sul territorio un controllo talmente capillare da aver incendiato uno storico chioschetto dei panini del porto di Scilla, il cui titolare aveva “osato” chiedere al Comune l’autorizzazione a occupare uno spazio della piazzetta del paesino di interesse del clan.

La cosca Nasone-Gaietti, dicono gli inquirenti della Dda di Reggio Calabria, costituisce «una delle proiezioni territoriali della ‘ndrangheta nella fascia tirrenica della provincia di Reggio Calabria, non solo in considerazione delle sentenze passate in giudicato», ma soprattutto perché nel corso delle indagini «è emerso in modo chiarissimo che la predetta consorteria è legittimata, oltre che a “sollecitare” attraverso reiterate azioni di danneggiamento ed intimidazioni, ad imporre ed a riscuotere, nella rispettiva zona di competenza, una quota dei proventi delle estorsioni connesse ai lavori di ammodernamento dell’autostrada A3 Sa-Rc (il famoso “tre per cento” del capitolato), somma pretesa a titolo di imposizione di “pizzo” anche in Calabria da parte delle cosche che esercitano il proprio dominio nei territori in cui vengono eseguiti i lavori», esercitando «il pieno controllo del territorio e la gestione di altre fette del tessuto economico seppure non coinvolte nei citati lavori di ammodernamento».

Questa operazione, ha detto il procuratore Sferlazza, «ha colpito una delle principali attività parassitarie delle organizzazioni mafiose e ha consentito di mostrare la presenza di uno Stato che si riappropria della propria sovranità su un territorio controllato dalle associazioni mafiose». Così come lo Stato fa esercita il controllo tributario, «le cosche pretendono di imporre il pizzo». Mentre questa, ha ribadito, «deve restare una prerogativa riservata allo Stato».

La novità dell’operazione riguarda anche il metodo in cui è stata condotta. Le indagini, infatti, sono partite dalla denuncia dell’imprenditore siciliano, che ha permesso di fermare Giuseppe Fulco nel giugno 2011 con i 4 mila euro appena pagati e di procedere poi con le indagini. «Ci aspettiamo che tutti gli imprenditori facciano la loro parte», ha detto Michele Prestipino, procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria. Proprio qualche mese fa sulla scrivania del magistrato era arrivata una lettera da parte del contraente generale che cura i lavori della A3, in cui venivano denunciate le continue intimidazioni ai danni delle aziende che lavorano sui cantieri e si chiedeva una maggiore attenzione da parte delle istituzioni. «Quando questa lettera è arrivata noi stavamo già indagando», ha raccontato Prestipino. «Noi abbiamo fatto la nostra parte», ha detto, «ora ci aspettiamo che anche quelli che hanno sollecitato il nostro intervento e la nostra attenzione facciano la loro parte. Ci aspettiamo che il contraente generale solleciti tutti gli imprenditori a essere collaborativi con l’autorità giudiziaria per contrastare l’attività criminosa». 

http://www.linkiesta.it/ndrangheta-salerno-reggio-calabria-pizzo

 
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Patenti vendute a quattromila euro sei arresti nella Capitale

Post n°895 pubblicato il 06 Giugno 2012 da lecasame

INDAGINI ANCHE IN PROVINCIA

Patenti vendute a quattromila euro
sei arresti nella Capitale

Inchiesta della Procura di Roma e della Dda: irregolarità e documenti rilasciati a chi non aveva mai sostenuto l'esame. Indagati 4 funzionari della Motorizzazione

ROMA - Sei arresti e decine di indagati. Lo scandalo delle patenti facili a Roma rischia di tramutarsi in un caso eclatante: nella Capitale e in provincia di Roma è in corso dall'alba di lunedì 4 giugno l'esecuzione di una serie di misure cautelari nell'ambito dell'inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Alberto Caperna, responsabile dei reati contro la pubblica amministrazione. Gli accertamenti sono stati affidati ai pm Roberto Felici e Carlo Lasperanza, quest'ultimo della Direzione distrettuale antimafia.

IRREGOLARITA' ANCHE IN SEDE D'ESAME - Cinquanta agenti della Capitale e 30 di Ciampino, hanno eseguito 6 ordini di custodia cautelare, firmati dal gip Antonella Minunni, per irregolarità sul rilascio di patenti di guida. Le patenti sarebbero state vendute per cifre fino a 4 mila euro ad automobilisti che non avevano mai sostenuto o superato regolarmente l'esame di guida. Le irregolarità riscontrate riguarderebbero perfino gli esami stessi svoltisi presso le sedi romane della Motorizzzazione civile: una webcam nascosta avrebbe rivelato che alcuni esaminatori modificavano al computer i risultati dei test a quiz per la patente.

DUE AUTOSCUOLE, 40 AGENZIE - Al centro della vicenda i titolari di due autoscuole, alle quali fa riferimento una rete di 40 agenzie di Roma, Anzio, Nettuno, Genazzano e altre località dei Castelli Romani. Nella concessione illegale dei titoli di guida a persone prive dei requisiti sarebbero coinvolti anche quattro funzionari della Motorizzazione Civile di via Salaria e via Laurentina. Le indagini, le intercettazioni telefoniche e ambientali, hanno evidenziato un sistema di corruzione che consisteva nella «vendita» delle patenti per un prezzo che andava dai due ai quattromila euro.

Redazione Roma Online 4 giugno 2012 | 21:01

http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/12_giugno_4/roma-patenti-facili-arresti-201462320881.shtml

 
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