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NIETZSCHE - ANTICRISTO (11° PARTE)

Post n°42 pubblicato il 26 Gennaio 2006 da Darkthrone85
 

Proseguo con le parti restanti della grandissima opera di Nietzsche, mi raccomando leggete attentamente e se volete commentate (a me se commentate fa paicere ;)

 

XXXI:
Ho già anticipato la mia risposta al problema. La sua premessa è che il tipo del Redentore ci è stato tramandato solo con una gran­de deformazione. Questa deformazione è in se stessa assai proba­bile: per molte ragioni un tipo simile non poteva rimanere puro, integro, privo di addizioni. Il milieu in cui tale strana figura si muove deve aver lasciato un segno in esso, e ancor più la storia, il destino delle prime comunità cristiane: il tipo ne è stato, in retro­spettiva, arricchito con tratti comprensibili solo in riferimento alla lotta e alle mire propagandistiche. Questo mondo strano e mala­to nel quale il Vangelo ci introduce, un mondo simile a quello di un romanzo russo, in cui il rifiuto della società, la neurosi e l'i­diozia «infantile» sembra si siano dati convegno, in tutti i modi deve avere reso più grossolano il tipo. I primi discepoli in particola­re dovevano tradurre nella loro rozzezza un essere totalmente coperto da simboli e reso inconcepibile, per poter comprendere qualcosa in generale; per essi il tipo cominciò a esistere solo dopo averlo tradotto in forme più familiari... Il profeta, il Messia, il giu­dice a venire, il maestro di morale, il taumaturgo, Giovanni Battista; altrettante opportunità per non riconoscere il tipo... Non sottovalutiamo infine il proprium di ogni grande venerazione, par­ticolarmente se è settaria: esso estingue negli esseri venerati i trat­ti originali e le idiosincrasie sovente dolorosamente estranei: non le vede nemmeno. Ci si dovrebbe dispiacere che un Dostojevskij non sia vicino a questo interessantissimo décadent; intendo dire qual­cuno in grado di cogliere il fascino come movente di tale combi­nazione di sublime, malato e infantile. Un ultimo punto di vista: il tipo, in quanto tipo di décadence, potrebbe essere stato realmente una singolare molteplicità e contraddittorietà: non si può esclu­dere interamente tale ipotesi. Ma tutto distoglie da questa possi­bilità: proprio la tradizione in questo caso dovrebbe essere parti­colarmente fedele e obiettiva; noi invece abbiamo motivi per sup­porre il contrario. Allo stesso tempo si apre una contraddizione tra il predicatore della montagna, dei laghi e delle praterie, la cui figura appare come un Buddha in un territorio assai poco india­no, e il fanatico dell'attacco, mortale nemico dei teologi e dei sacerdoti, che la malizia di Renan ha glorificato come «le grand maitre en ironie». Io stesso non dubito che una grande quantità di fiele (e persino di esprit) si sia riversata sul tipo del maestro solo per lo stato agitato della propaganda cristiana: perché si conosce bene la risolutezza di tutti i settari nel costruire la propria apologia a partire dal proprio maestro. Quando la prima comunità ebbe bisogno di un teologo maligno e cavilloso, che giudicasse, si lamentasse e si incollerisse, contro i teologi, si creò il proprio «Dio» in base alle proprie esigenze: e nello stesso tempo mise senza esi­tazione nella sua bocca concetti totalmente contrari al Vangelo, di cui ora non poteva più fare a meno: la «seconda venuta», il «giu­dizio finale» e ogni sorta di speranze e promesse temporali.

XXXII :
Mi oppongo, lo ripeto, a che si unisca il fanatico al tipo del Redentore: il termine imperìéux che Renan utilizza da solo annul­la già di per se stesso il tipo. La «buona novella» significa esatta­mente che non ci sono più contrasti; il Regno dei Cieli appartie­ne ai fanciulli; la fede che qui si rivela non è una fede conquista­ta con le lotte: c'è, è fin dal principio, è, per così dire, un infanti­lismo che ritorna a ciò che è spirituale. Il fenomeno di una pubertà ritardata che non si sviluppa nell'organismo, come effet­to della degenerazione, è familiare almeno ai fisiologi. Tale fede non si adira, non biasima, non difende se stessa: non porta «la spada», non immagina fino a che punto un giorno potrebbe pro­vocare una frattura. Non si prova con miracoli o con ricompense e promesse, e certo non «mediante le Scritture»: essa stessa è in ogni momento il suo miracolo, la sua ricompensa, la sua prova, il suo «Regno di Dio». Questa fede non si formula: essa vive, si oppone alle formule. Il caso certamente determina l'ambiente, la lingua, la formazione di una particolare cerchia di concetti: il cri­stianesimo primitivo impiega unicamente concetti giudaico-semiti (il mangiare e il bere alla comunione appartengono a essi; con­cetti di cui la Chiesa ha abusato malevolmente, come di tutto ciò che è giudaico). Ma ci si deve guardare dal considerare in ciò più che un linguaggio dei segni, una semiotica, un'occasione per for­mulare parabole. Infatti per questo antirealista la condizione per poter parlare era che non una parola venisse presa alla lettera. Tra gli indiani si sarebbe servito dei concetti del Sankhya, tra i cinesi di quelli di Laotze, senza percepire alcuna differenza tra loro. Con una certa tolleranza d'espressione si potrebbe definire Gesù uno «spirito libero», non gli importa alcunché di tutto ciò che è fisso: la parola uccide, tutto ciò che è fisso uccide. Il concet­to, l'esperienza della «vita» nel solo modo in cui li comprende si oppongono a ogni sorta di parola, di formula, di legge, di fede e di dogma. Parla solo delle cose più intime: «vita» o «verità» o «luce» sono le sue parole per questa dimensione più interiore; tutto il resto, la realtà nel suo complesso, l'intera natura, il linguaggio stesso, possiedono per lui solo valore di segno o di para­bola. In questo caso non bisogna assolutamente commettere errori, per quanto sia grande la tentazione insita nei pregiudizi cristiani, intendo dire ecclesiastici: tale simbolismo par excellence si trova al di fuori di ogni religione, di ogni concetto di culto, di ogni scienza storica e naturale, di ogni esperienza del mondo, di ogni conoscenza, di ogni politica, di ogni psicologia, di ogni libro, di ogni arte; la sua «sapienza» risiede proprio nella assoluta ignoranza del fatto che esistano simili cose. La cultura non gli è nota neanche per sentito dire, non ha bisogno di combatterla, non la nega... Lo stesso vale per lo stato, l'intero ordinamento civile e la società civile, il lavoro, la guerra: egli non ebbe mai alcun motivo per negare «il mondo», non ha mai sospettato del concetto ecclesiastico di «mondo»... La negazione è per lui cosa totalmente impossibile. Allo stesso modo manca la dialettica, manca l'idea che una fede, una «verità» possano essere provate da ragioni (le sue prove sono «luci» interiori, intime sensazioni di piacere e affermazioni di sé, nient'altro che «prove di forza»). Una tale dottrina non può contraddire: essa non comprende in alcun modo che esistano altre dottrine, che altre dottrine possano esistere, non riesce a immaginare in alcun modo un giudizio dif­ferente dal proprio... Dove ne incontrerà uno una, ne piangerà la «cecità» con intima partecipazione, poiché essa vede la «luce», ma non solleverà obiezioni...

XXXIII :
Nell'intera psicologia del Vangelo è assente il concetto di colpa e di punizione, e allo stesso modo manca quello di ricompensa. Il «peccato», ogni rapporto di distacco tra Dio e l'uomo, viene abolito, è proprio questa la «buona novella». La beatitudine non viene promessa, non è legata ad alcuna condizione: è la sola realtà, il resto è solo un complesso di segni per parlare di essa... Le conseguenze di questo stato si riflettono in una nuova pratica, l'autentica pratica evangelica. Non è la «fede» che distingue il cristiano: il cristiano agisce, distinguendosi per un diverso modo di agire. Non ripaga né con le parole né con il cuore colui che gli arreca del male. Non fa distinzione fra straniero e indigeni, tra ebrei e non ebrei (il «prossimo» è propriamente il compa­gno di fede, l'ebreo). Non si adira con alcuno, non disprezza alcuno. Non si presenta nei tribunali né si avvale di essi («Non prestare giuramento»). In nessuna circostanza, nemmeno in caso di provata infedeltà, divorzia da sua moglie. Tutto questo è in fondo un solo principio, tutto è conseguenza di un solo istinto.
La vita del Redentore non fu altro che questa pratica, anche la sua morte non fu alcunché di diverso... Non aveva più bisogno di formule, né di riti per il suo rapporto con Dio, neppure della preghiera. Egli ha chiuso con tutte le dottrine ebraiche della penitenza e del perdono; sa che solamente con la pratica di vita ci si può sentire «divini», «benedetti», «evangelici», in ogni momento «figli di Dio». Né la «penitenza», né la «preghiera per il perdono» sono le vie verso Dio: solo la pratica evangelica porta a Dio, è proprio Dio! Ciò che venne abolito con il Vangelo fu il giudaismo dei concetti di «peccato», «remissione dei peccati», «fede», «redenzione per mezzo della fede», l'intero insegna­mento ecclesiastico ebraico fu negato nella «buona novella». Il profondo istinto di come si debba vivere per sentirsi «in cielo», per sentirsi «eterni», mentre con qualsiasi altra condotta non ci si sente «in cielo»: solo questa è la realtà psicologica della «redenzione». Un nuovo modo di vivere, non una nuova fede...

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