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SCRITTO DI CRISTIANO GODANO PER ROCKSTAR

Post n°67 pubblicato il 16 Febbraio 2006 da Darkthrone85
 

Buongiorno a tutti, oggi vi trascrivo un articolo apparso sulla rivista Rockstar, che vede Cristiano Godano in uno scritto virtuoso dei suoi, a voi la lettura ;)

 

LINFA

(Ohh, quegli occhi...
Quel che offri spalancando le palpebre sul mio mondo e spargendovi i celesti colori della tua anima è un incanto di aerea attrazione, in cui vengo a rigenerare le energie, come se mi circonfondesse un’aura fatata in cui brillare di istanti di vita rifi orita. Vi ci entro per lasciarmi pervadere da un alito d’estasi in forma di bolla trasparente, e mi sento rapito al mondo ch’è fuori, che vive di mille altri mondi e sapori - la gente a te dietro e di fi anco. Su un’orbita speciale viaggiamo invisibili, schivando traiettorie concrete di sguardi rapaci o traversandole immuni dalle loro concrete pretese; e vibrandovi intorno - e lontano... lontano... - come astri ambìti da sonde che mai riusciranno a raggiungerli, ci teniamo nascosti ai magneti che avvincono gli altri pianeti. In questa galassia che risuona per tutti di armonie e melodie, di grida e stridori, di pelli percosse e di balli, il suono che è nostro soltanto è magia, e altri da noi non lo può ascoltare: è un caldo fl uire di languide attese, un limpido scorrere in grandi e leggere distese di linfa, di voglia sfacciata di ariosa meraviglia...

Sui flussi di questo tuo ammirare discendo dagli spazi universi all’acquoso avanzare, che a te mi conduce; e sul natante immaginario in cui giaccio, mi godo ammaliato i paesaggi, i giardini e l’aereo verdore: ardore di te. Che sei terra e sei cielo. E che m’offri le stelle più accese e sperdute, che inviano a me scintillanti carezze impensate: arrivan da te, ma tu non lo sai. Te che m’offri l’azzurro di un cielo irradiato da giovane luce pronto a spander su me un impalpabile ammanto: chiarore che mi permea e adorna di sfumature; bagliore che mi rende radioso di lumeggianti tinture, per le quali il mio corpo è il dipinto della nostra empatia. Portami via, anche solo col fi ato di un soffi o virtuale...

E con me gioca e gioca e ancor gioca, con la vaga malizia di quel luccichìo sensuale in fuga dall’occhio eccitato: lascia che giunga al mio occhio allertato, è in attesa di prenderlo e farsene vanto. E poi gioca col viso, che sporge il suo rapimento; che promette l’intento di schiudersi a me; che si estrania da tutto con fare speciale, nel suo respirare, in quel canticchiare che pare voluttuoso, e in quel trasognare cilestro e stregato: promesse di un eros prezioso, dal gusto di mele spremute, nate da poco, tenute intoccate per chi, magnifi che e acerbe, le possa apprezzare. Mele giunte da un regno di ninfe assai rare, mele da bere o da mordicchiare, per fi nalmente cader posseduti laddove si credesse di poter possedere: e in quella rete di seducente musa, sentirsi entusiasti di esserne diventati creatura inclusa...

“Danza per me questa canzone al passo della malizia; dài vita alla mia illusione facendo che ti piaccia. Molle ti sogno fra le note, spargendovi sensualità: quando saranno inebriate la musica migliorerà...”: così canta ed ondeggia lì sotto, come canto ed ondeggio quassù. Ti posseggo con questa illusione fi no a che non mi possiederai tu. E continua a dardeggiare la tua estasi sensuale, di un turchino avvolgente in rutilante avvampare: io son bersaglio defi nito, messo a fuoco e pur sempre colpito in questo giuoco trascinante, che può solo continuare...
Ohh, quegli occhi...)

Il locale era gremito, trasudava attesa, attutiva nella sua ovatta il rumoreggiare smanioso di un migliaio di persone stipate, ormai pronte all’ingresso sul palco dei cinque fi guri: due magri signori dal capello lungo, coi loro pantaloni stretti e camicie attillate, un inglese pelato dallo sguardo attento, un toscano verace e barbuto e un D’Artagnan con due specie di piccoli spadini di legno dalla punta bombata. Si sentiva il fremito ruggente di un pubblico giunto al limite - giusto prima di una incazzatura non propriamente trattenuta - e si propagava nei camerini adiacenti tramite le pareti e la porta aperta, che dava sul palco stesso una volta saliti tre gradini. Li salimmo all’ora suggerita da quelli del posto, e il fremito proruppe in vari modi liberatori: urla, rinnovate tensioni del corpo, spintoni per mantenere le posizioni, e “ohh, uhh, ahh” di varia natura, dal brusìo allo stupore, dal commento al divertimento. Partirono le bacchette del moschettiere picchiettando sul rullante il tempo della bellezza, e il tam tam amplificato catturò l’attenzione inglobandola nella rotondità avvolgente del suono; e ammansì l’agitazione. Poi, beffarda, arrivò una mezzora di bordate o poco più: un fuoco di fila di elettriche note violente che all’improvviso scompaginò il folto mucchio di fronte, sparpagliandone ogni elemento in diversi metri quadri di piastrelle madide. Ogni elemento, sì, tranne chi stringeva i suoi pugni alla transenna: quei pugni ostinati, divertiti, incazzati, disperati portavano, ricambiati, il vigoroso nerbo agli avambracci in tensione, e su per i gomiti e le braccia sino alle spalle comunicavano un sentimento di resistenza pertinace. Una propaggine estrema avvolgeva di sè certi fasci del collo, ingrossati per questa necessità e supportati dagli urli o dal canto, a seconda di quale canzone. La “cosa” scivolava poi all’indietro spalmandosi uniforme sulle schiene, facendosi corazza per attutire i colpi. Dalle natiche in giù, in misura del morbidume, ci si attrezzava alla meglio. “Cenere” fece starnazzare un ebbro gayo e simpatico, un tale dal tono di voce garrulo e acuto che si lasciava trasportare dalle onde della corrente: un po’ qua e un po’ là faceva pervenire a noi del palco le sue esternazioni per me, e intorno a lui c’era chi sorrideva e c’era chi si incazzava. “Ape regina” pitturò una smorfi a di rabbia, felice di potersi manifestare sul volto di una ragazza grintosa, che a guardarla capivi esser lì solo per quella e poche altre canzoni: su cert’altre assumeva una forzata espressione di indifferenza. “Sonica” creò un trambusto e vidi assembramenti di facce in visibilio: era il tableaux vivant di un’immagine pitturata negli anni dal marlenico furore. “Festa mesta” fece urlare a squarciagola un ragazzo che con impeto esplosivo scaraventava per aria le mani spalancate: le dita tremavano di un incredibile vigore, e avrebbero potuto strozzare un dobermann. “Cara è la fi ne” fece abbracciare una tenera coppia proprio sotto le casse di sinistra: la forza della loro stretta si faceva sentire al solo guardarla, e in qualche modo portò loro riparo dal tuonante muro di rumore. “Canzone di domani” fece comparire il sorriso a una fanciulla dai biondi capelli cascanti, che riuscì a ballare entro un minimo spazio poiché da dietro ci fu chi la protesse: nel pezzo successivo scomparve, fagocitata da uno scompiglio acceso nei suoi pressi, e poco prima di andarsene vidi che aveva perso quel luminoso sorriso. Poi si planò morbidi nell’ambito delle atmosfere dei pezzi lenti, e quando giunse “Danza” mi accorsi di quegli occhi: tutto si era un po’ acquietato, me compreso, e tutto ora meglio scorgevo. Da quel momento si aprì una grossa parentesi nella performance, ma nessuno se ne accorse (o chissà...); e al ritorno dei pezzi infi ammati la parentesi, lenta, si chiuse. In seguito ebbi la prodigiosa occasione di perdermici ancora, in quegli occhi e in quell’azzurro lume...

Cristiano Godano

(da RockStar n°304, Dicembre 2005)

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