Lepinia

Svampa kid ed i Corsari della Nuova Atlantide


La vecchia strega di Pian della Croce era stata chiara: se volevamo scoprire la rotta per la corrente dei Sargassi, la via per il cimitero delle grandi aragoste, dovevamo prima doppiare Capo Horn e metterci sulle tracce di un vecchio tesoro. La cosa non ci aveva entusiasmato. La stagione era buona per la rotta australe, ma la via che da Campo Oceanico porta fino alla Nuova Atlantide è infida. Si racconta che durante le burrasche appaia beffardo il grande armadillo ad annunciarti il naufragio, ed allora nessuno può salvarti. Questi erano i nostri pensieri mentre si attendeva il cielo buono accampati sotto i grandi faggi. Salendo, il nipote di Epifanio era riuscito a spaventarci con il racconto dell’ultima tempesta che aveva trasformato tutte le montagne in enormi meringhe. A Gorga avevano già tirato fuori le luminarie di natale;  non trovandole in magazzino si erano poi ricordati di averle appena montate per il San Domenico di mezz’agosto. Una riunione speciale del consiglio aveva quindi  votato all’unanimità il ritorno dell’estate, e le cose sembrarono tornare alla normalità. Dalla nostra postazione di vedetta questo sabato mattina non promette nulla di buono. Tra il Semprevisa ed il Capreo si vedono fiumi di nuvole nere, corrono veloci verso di noi e s’illuminano come le trecce di lampadine delle fiere. Se non riusciamo a recuperare il tesoro che abbiamo sepolto al capo dei magiari, ci toccherà passare tutto l’inverno all’osteria del gatto zoppo. C’è il rischio di morire di bile e cirrosi guardando il rilievo della Rava Bianca. Quei quasi trecento metri di buona corda ci servono, certo che se potessimo evitare la morte per affogamento anche quello sarebbe utile. La prima soluzione che ci viene in mente è semplice e sicura: andare a fare razzie in qualche porto tranquillo: “potremmo disarmare tutto il Due Bocche, da li entriamo ed usciamo in meno di cinque ore e con qualsiasi tempo; saranno quasi duecento metri di corda, una buona bordata per attaccare la Via dell’acqua marcia…” l’idea è buona, il rischio è di finire nel grande registro dei pirati senza speranza, primi della lista nell’albo dei balordi della Tortuga. Sono tempi bui per la pirateria, per ora è meglio comportarsi al massimo da bucanieri, o da corsari… per issare la bandiera col teschio c’è sempre tempo. Mentre cerchiamo di pianificare una strategia le nuvole si alternano a frammenti di cielo, sappiamo bene che è un trucco, domani è prevista una grande mareggiata con lampi tuoni e tutto il necessario, il peggio deve ancora venire.  L’altra soluzione è semplice, mollare tutto, sganciare tutta la zavorra, rinunciare ad ogni tentativo di nuove esplorazioni, niente ramo di utopia, niente sifone della giovinezza, niente rilievo delle parti mancanti, solo una rapidissima corsa al golfo magiaro. Schizzare veloci come brigantini con il vento al traverso, doppiare il capo, disseppellire il tesoro e risalire la corrente di bolina stretta. Non ci sono terze vie. Calcoliamo che in queste modo potremmo impiegare non più di dieci ore per entrare ed uscire. Tre per arrivare ai -500 del vecchio campo, poi 6 o forse 7 per trascinare fuori le casse colme. Guardiamo il cielo: nell’arco di uno sguardo passa dall’azzurro al nero, guardiamo la piccola parte azzurra: “… in fondo non sta ancora piovendo, in dieci ore cosa vuoi che possa fare…”  da lontano ci pare di udire il grande armadillo che annuisce, o forse ride. Issiamo le vele e facciamo rotta per il fondo. Sono anni che veniamo da queste parti,  abbiamo timore di questi luoghi. Sappiamo che di tanto in tanto succedono cose che gli uomini è meglio non vedano, perché potrebbero non raccontarla. Il vecchio sifone degli ignudi è uno che si diverte in modo particolare a spaventarci, è uno di quelli che ci fa vedere con la coda dell’occhio la faccia del grande armadillo. Di tanto in tanto lo troviamo pieno di sassi grandi come mele, riempito di metri cubi di pietra: “…è stata l’acqua, hai visto cosa può fare a mezz’ora dall’ingresso, pensa se tu l’incontrassi nelle gallerie basse…” E’ un vecchio bastardo è non bisogna ascoltarlo, sono anni che diciamo di farlo fuori e dovrebbe solo ringraziarci se ancora è parte del rilievo, invece lui continua a comportarsi anche con noi da guardiano, vuole fiaccarti il morale appena entrato. Se la tua mente comincia a dargli retta è finita. Il resto della navigazione fila liscio e tranquillo. La linea dei pozzi è sicura. La corda  che tieni in mano alla partenza, continua fino in fondo; mica come quella volta che su ogni pozzo c’e n’era solo metà, che se non eri abbastanza furbo da guardarci ti ritrovavi con in mano un discensore vuoto, utile come un uccello moscio.  Il campo di Capo Magiaro è un bel posto. Tutto è rimasto come l’ultima volta, e molto è fermo da tanti anni. Una lattina di wurstel, di quelle che solo a Budapest sanno confezionare, ci propone di passare l’inverno con lei: “…sono quattro anni che sono qua sotto è guarda come sono bella e appetitosa, non dare retta a quelli di fuori la vera vita comincia a -500…” effettivamente si presenta bene, per lei il tempo sembra essersi fermato, magari potremmo anche andare a dare un occhiata nei rami Utopia.  “non ascoltarla, non è vero niente, disseppellite il tesoro e scappate in fretta prima che arrivi la grande onda, qui stiamo tutti marcendo per l’eternità”  la vocina che a risposto è triste e allo stesso tempo melodiosa come un coro. Sposto una buatta di carburo e dietro trovo una distesa di piccole palline pelose che escono da una busta infangata. “guarda come siamo diventate, anche voi farete la nostra fine se non scappate subito.. anche voi diverrete grandi palle di muffa” Prendo la busta, sotto la crosta di fango e carburo si legge ancora: “Deliziose Arachidi Tostate”, osservo di nuovo le piccole palline grigiastre e un brivido mi percorre la schiena. “Non è la fine, è solo un passaggio necessario, rimanete con noi, tutto questo è solo l’inizio di una grande esplorazione oltre ogni sifone”  La lattina ha ripreso la parola, le grandi zuppe liofilizzate ascoltano e tacciono, loro in fondo è una vita che dormono e sognano di acqua bollente. Una vecchia bottiglia di grappa risponde che ad essere abbastanza pieni, in fondo non ci si accorge neanche della differenza.  Decidiamo che forse è meglio ascoltare le arachidi e cominciamo a caricare il tesoro. Duecentocinquanta metri di corda: dalle sottili 8mm che ornavano il vecchio pozzo Cuccurucù alle pesanti e indistruttibili 11mm da lavoro donate dal Pollo. Tutte ovviamente inzuppate come un biscotto nel latte. A fargli compagnia oltre trenta attacchi di ogni genere, chiodi, ancorette, fettucce. Il bottino vale la corsa, il problema adesso è tirarlo fuori, è anche in fretta. Si vede subito che siamo in minoranza rispetto ai sacchi, loro spingi e bestemmia diventano tre, noi restiamo due.  Non ci sono altre soluzioni, questa volta va così, in meandro bisognerà mettere in pratica la famosa tecnica zen del passa-sacco, mentre suo pozzi ci giocheremo il magico tre per due, oggi a me domani a te. Dopo i primi duecento metri di pozzi comincio a fare l’abitudine alle due casse appese alle palle, però comincia a venirmi in mente di aver letto da qualche parte di una famosa tecnica tibetana di meditazione detta “dei tre sacchi”. Mi sembra di ricordare che il fedele che vuole raggiungere l’illuminazione si lega tre sacchi sotto l’imbraco e comincia a salire; dopo un numero non precisato di pozzi avviene il miracolo, la sublimazione, la mistica transustansazione finale. L’adepto nell’apice della sublime fatica svampa  e svapora, lasciando solo una dolce nuvola al profumo di violette, mentre l’imbraco resta appeso alla corda, vuoto, con sotto i tre sacchi appesi. Sembra anche che un attimo prima del miracolo il fedele urli qualcosa del tipo: “si, ti vedo, principio ultimo, grande motore immobile, sono ormai giunto alla grande svampata” Non mi sento ancora pronto per svampare, e sono contento di portarne solo due; poi la ruota del tre per due gira, e sono ancora più contento di portarne uno solo. La rotta del ritorno è bastarda ed è fatta principalmente di trucchi della memoria, l’unico modo per andare avanti. Finché sei sui pozzi maledici la dimensione verticale con il suo spazio freddo e distaccato e non vedi l’ora di essere coccolato teneramente tra le braccia del meandro. Quando finalmente arrivi nell’orizzontale infinito, in posti da cui potresti uscire anche al buio tanto sono stretti, allora invochi il grande pozzo. Mentre ci trasciniamo sdraiati in un tubo verso il meandro egiziano penso che se dovesse arrivare la grande onda, dopo essere passata,  guardandosi indietro,  si farebbe una grande risata: un sacco, un coglione affogato, un sacco, un altro coglione affogato e un altro sacco, e soprattutto passando per il Maelstrom, andrebbe poi a riferirlo alla vecchia lattina, allora tutta la Lemuria risuonerebbe di fragorose risata come non si sentiva da quando le rudiste scoprirono che non avrebbero mai più rivisto il mare. Questa soddisfazione proprio non bisogna dargliela. Due ore dopo siamo fuori nella notte stellata, della grande onda non c’è traccia, tutto tranquillo, fa anche caldo. Ci mettiamo a dormire sotto l’albero maestro, sono passate undici ore dall’ingresso. Tre ore dopo la grandine ricopre i sacchi a pelo, e l’acqua tenta di trasformarli in bustine da tè. Siamo tranquilli, le mucche ci hanno insegnato che quando piove è inutile agitarsi, tanto prima o poi passa, il porto e sicuro ed anche questa volta non faremo la muffa sulle orecchie. Mentre mi giro di fianco mi sembra di sentire la voce triste delle palline di muffa che furono arachidi: “non ci dimenticare…”