Creato da: a.benassi il 10/08/2006
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Messaggi del 23/08/2006

 

Dagli di tacco e dagli di punta al Pratiglio

Post n°6 pubblicato il 23 Agosto 2006 da a.benassi
Foto di a.benassi

Nuova puntata all'ouso di Passo Pratiglio per mercoledì giovedì e venerdi 29-31 agosto. il programma è semplice portarsi un paio di centinaia di metri di corde e vedere da -580 dove si va a finire. Poi risalendo rilevare il tutto con tanta calma per vedere di quanto ci siamo sbagliati. per ora il rilievo è di quelli mnemonici per ricordarsi dove si è e di cosa si parla, ma viste le corde che sono già entrate, la lunqhezza dei pozzi e la profondità e realistica con un errore del 10-20% sulla parte nuova, che si traduce in 25-50 metri, quindi tra 530 e 580. 

 
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Svampa kid ed i Corsari della Nuova Atlantide

Post n°5 pubblicato il 23 Agosto 2006 da a.benassi
Foto di a.benassi

La vecchia strega di Pian della
Croce era stata chiara: se volevamo scoprire la rotta per la corrente dei Sargassi,
la via per il cimitero delle grandi aragoste, dovevamo prima doppiare Capo Horn
e metterci sulle tracce di un vecchio tesoro. La cosa non ci aveva
entusiasmato. La stagione era buona per la rotta australe, ma la via che
da Campo Oceanico porta fino alla Nuova
Atlantide è infida. Si racconta che durante le burrasche appaia beffardo il
grande armadillo ad annunciarti il
naufragio, ed allora nessuno può salvarti. Questi erano i nostri pensieri
mentre si attendeva il cielo buono accampati sotto i grandi faggi. Salendo, il
nipote di Epifanio era riuscito a spaventarci con il racconto dell’ultima tempesta
che aveva trasformato tutte le montagne in enormi meringhe. A Gorga avevano già
tirato fuori le luminarie di natale;  non
trovandole in magazzino si erano poi ricordati di averle appena montate per il San
Domenico di mezz’agosto. Una riunione speciale del consiglio aveva quindi  votato all’unanimità il ritorno dell’estate, e
le cose sembrarono tornare alla normalità. Dalla nostra postazione di vedetta
questo sabato mattina non promette nulla di buono. Tra il Semprevisa ed il
Capreo si vedono fiumi di nuvole nere, corrono veloci verso di noi e
s’illuminano come le trecce di lampadine delle fiere. Se non riusciamo a
recuperare il tesoro che abbiamo sepolto al capo dei magiari, ci toccherà
passare tutto l’inverno all’osteria del gatto zoppo. C’è il rischio di morire
di bile e cirrosi guardando il rilievo della Rava Bianca. Quei quasi trecento
metri di buona corda ci servono, certo che se potessimo evitare la morte per
affogamento anche quello sarebbe utile. La prima soluzione che ci viene in
mente è semplice e sicura: andare a fare razzie in qualche porto tranquillo:
“potremmo disarmare tutto il Due Bocche, da li entriamo ed usciamo in meno di
cinque ore e con qualsiasi tempo; saranno
quasi duecento metri di corda, una buona bordata per attaccare la Via dell’acqua
marcia…” l’idea è buona, il rischio è di
finire nel grande registro dei pirati senza speranza, primi della lista nell’albo dei balordi della
Tortuga. Sono tempi bui per la pirateria, per ora è meglio comportarsi al
massimo da bucanieri, o da corsari… per issare la bandiera col teschio c’è
sempre tempo. Mentre cerchiamo di pianificare una strategia le nuvole si
alternano a frammenti di cielo, sappiamo bene che è un trucco, domani è
prevista una grande mareggiata con lampi tuoni e tutto il necessario, il peggio
deve ancora venire.  L’altra soluzione è
semplice, mollare tutto, sganciare tutta la zavorra, rinunciare ad ogni
tentativo di nuove esplorazioni, niente ramo di utopia, niente sifone della
giovinezza, niente rilievo delle parti mancanti, solo una rapidissima corsa al
golfo magiaro. Schizzare veloci come brigantini con il vento al traverso,
doppiare il capo, disseppellire il tesoro e risalire la corrente di bolina
stretta. Non ci sono terze vie. Calcoliamo che in queste modo potremmo
impiegare non più di dieci ore per entrare ed uscire. Tre per arrivare ai -500
del vecchio campo, poi 6 o forse 7 per trascinare fuori le casse colme.
Guardiamo il cielo: nell’arco di uno sguardo passa dall’azzurro al nero,
guardiamo la piccola parte azzurra: “… in fondo non sta ancora piovendo, in dieci ore cosa vuoi che possa
fare…”  da lontano ci pare di udire il
grande armadillo che annuisce, o forse ride. Issiamo le vele e facciamo rotta per il fondo. Sono anni che veniamo da
queste parti,  abbiamo timore di questi
luoghi. Sappiamo che di tanto in tanto succedono cose che gli uomini è meglio
non vedano, perché potrebbero non raccontarla. Il vecchio sifone degli ignudi è
uno che si diverte in modo particolare a spaventarci, è uno di quelli che ci fa
vedere con la coda dell’occhio la faccia del grande armadillo. Di tanto in
tanto lo troviamo pieno di sassi grandi come mele, riempito di metri cubi di
pietra: “…è stata l’acqua, hai visto cosa può fare a mezz’ora dall’ingresso,
pensa se tu l’incontrassi nelle gallerie basse…” E’ un vecchio bastardo è non bisogna
ascoltarlo, sono anni che diciamo di farlo fuori e dovrebbe solo ringraziarci
se ancora è parte del rilievo, invece lui continua a comportarsi anche con noi
da guardiano, vuole fiaccarti il morale appena entrato. Se la tua mente
comincia a dargli retta è finita. Il resto della navigazione fila liscio e
tranquillo. La linea dei pozzi è sicura. La corda  che tieni in mano alla partenza, continua fino
in fondo; mica come quella volta che su ogni pozzo c’e n’era solo metà, che se
non eri abbastanza furbo da guardarci ti ritrovavi con in mano un discensore
vuoto, utile come un uccello
moscio. 

 

Il campo di Capo Magiaro è un bel
posto. Tutto è rimasto come l’ultima volta, e molto è fermo da tanti anni. Una
lattina di wurstel, di quelle che solo a Budapest sanno confezionare, ci
propone di passare l’inverno con lei: “…sono quattro anni che sono qua sotto è
guarda come sono bella e appetitosa, non dare retta a quelli di fuori la vera
vita comincia a -500…” effettivamente si presenta bene, per lei il tempo sembra
essersi fermato, magari potremmo anche andare a dare un occhiata nei rami
Utopia.

 

 “non ascoltarla, non è vero niente,
disseppellite il tesoro e scappate in fretta prima che arrivi la grande onda,
qui stiamo tutti marcendo per l’eternità”

 

la vocina che a risposto è triste
e allo stesso tempo melodiosa come un coro. Sposto una buatta di carburo e
dietro trovo una distesa di piccole palline pelose che escono da una busta
infangata.

 

“guarda come siamo diventate, anche
voi farete la nostra fine se non scappate subito.. anche voi diverrete grandi
palle di muffa”

 

Prendo la busta, sotto la crosta
di fango e carburo si legge ancora: “Deliziose Arachidi Tostate”, osservo di
nuovo le piccole palline grigiastre e un brivido mi percorre la schiena.

 

“Non è la fine, è solo un
passaggio necessario, rimanete con noi, tutto questo è solo l’inizio di una
grande esplorazione oltre ogni sifone” 

 

La lattina ha ripreso la parola,
le grandi zuppe liofilizzate ascoltano e tacciono, loro in fondo è una vita che
dormono e sognano di acqua bollente. Una vecchia bottiglia di grappa risponde
che ad essere abbastanza pieni, in fondo non ci si accorge neanche della
differenza.

 

Decidiamo che forse è meglio
ascoltare le arachidi e cominciamo a caricare il tesoro. Duecentocinquanta
metri di corda: dalle sottili 8mm che ornavano il vecchio pozzo Cuccurucù alle pesanti e indistruttibili 11mm da lavoro
donate dal Pollo. Tutte ovviamente inzuppate come un biscotto nel latte. A
fargli compagnia oltre trenta attacchi di ogni genere, chiodi, ancorette,
fettucce. Il bottino vale la corsa, il problema adesso è tirarlo fuori, è anche
in fretta. Si vede subito che siamo in minoranza rispetto ai sacchi, loro
spingi e bestemmia diventano tre, noi restiamo due.  Non ci sono altre soluzioni, questa volta va
così, in meandro bisognerà mettere in pratica la famosa tecnica zen del
passa-sacco, mentre suo pozzi ci giocheremo il magico tre per due, oggi a me
domani a te. Dopo i primi duecento metri di pozzi comincio a fare l’abitudine
alle due casse appese alle palle, però comincia a venirmi in mente di aver
letto da qualche parte di una famosa tecnica tibetana di meditazione detta “dei
tre sacchi”. Mi sembra di ricordare che il fedele che vuole raggiungere
l’illuminazione si lega tre sacchi sotto l’imbraco e comincia a salire; dopo un
numero non precisato di pozzi avviene il miracolo, la sublimazione, la mistica
transustansazione finale. L’adepto nell’apice della sublime fatica svampa  e svapora, lasciando solo una dolce nuvola al
profumo di violette, mentre l’imbraco resta appeso alla corda, vuoto, con sotto
i tre sacchi appesi. Sembra anche che un attimo prima del miracolo il fedele
urli qualcosa del tipo: “si, ti vedo, principio ultimo, grande motore immobile,
sono ormai giunto alla grande svampata”

 

Non mi sento ancora pronto per
svampare, e sono contento di portarne solo due; poi la ruota del tre per due
gira, e sono ancora più contento di portarne uno solo. La rotta del ritorno è bastarda ed è fatta
principalmente di trucchi della memoria, l’unico modo per andare avanti. Finché
sei sui pozzi maledici la dimensione verticale con il suo spazio freddo e
distaccato e non vedi l’ora di essere
coccolato teneramente tra le braccia del meandro. Quando finalmente arrivi nell’orizzontale
infinito, in posti da cui potresti uscire anche al buio tanto sono stretti,
allora invochi il grande pozzo. Mentre ci trasciniamo sdraiati in un tubo verso
il meandro egiziano penso che se dovesse arrivare la grande onda, dopo essere
passata,  guardandosi indietro,  si farebbe una grande risata: un sacco, un
coglione affogato, un sacco, un altro coglione affogato e un altro sacco, e
soprattutto passando per il Maelstrom, andrebbe poi a riferirlo alla vecchia
lattina, allora tutta la Lemuria risuonerebbe di fragorose risata come non si
sentiva da quando le rudiste scoprirono che non avrebbero mai più rivisto il
mare. Questa soddisfazione proprio non bisogna dargliela. Due ore dopo siamo
fuori nella notte stellata, della grande onda non c’è traccia, tutto
tranquillo, fa anche caldo. Ci mettiamo a dormire sotto l’albero maestro, sono
passate undici ore dall’ingresso. Tre ore dopo la grandine ricopre i sacchi a
pelo, e l’acqua tenta di trasformarli in bustine da tè. Siamo tranquilli, le
mucche ci hanno insegnato che quando piove è inutile agitarsi, tanto prima o
poi passa, il porto e sicuro ed anche questa volta non faremo la muffa sulle
orecchie. Mentre mi giro di fianco mi sembra di sentire la voce triste delle
palline di muffa che furono arachidi: “non ci dimenticare…”

 
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