Creato da: hrothaharijaz il 27/12/2006
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Post N° 12

Post n°12 pubblicato il 17 Febbraio 2007 da hrothaharijaz
Foto di hrothaharijaz

Devo notare, con grande tristezza, che a leggermi siete veramente in pochi. Mi e' stato detto, da una di Voi, che i racconti sono troppo lunghi e scoraggerebbero il potenziale lettore fin dall'inizio. Cosa posso farci, scriverli piu' corti? farne il riassunto?

Io comunque continuo a scrivere egualmente, magari col tempo...troverete il tempo, perche' penso si tratti solo di questo, troppo presi dalla frenesia del correre quotidiano.

Il racconto di oggi e' scritto su commissione, su un fatto veramente accaduto, senza morti e con lieto fine. I protagonisti, ma chi altri se non loro, i miei amici cani.

           PICCOLA STORIA D'AMORE DI UN CUORE IMMENSAMENTE GRANDE

E cosi', per colpa di quella barboncina nera, pur anche bella ma tanto antipatica, al pari della sua vezzosa padroncina, mi trovo qui, solo, impaurito e terrorizzato a vagare per le campagne di Codevilla.

Per una stupidata, per una disattenzione mi ritrovo ad avere perso tutto: papa' Fausto e i miei sette compagni di cascina, sei cani, Flic e Floc, Nevio. Lilla, Orazio e Cornelia e il gatto Bartolomeo che era solito dividere con me la cuccia e il cibo.

Mi trovavo, come tutti i giorni, sull'auto con papa' Fausto che non si muoveva mai senza portarmi con se e, come era sua abitudine, quando scendeva dalla macchina per qualche commissione o per bere un bianchino con gli amici. mi lasciava solo sull'auto, "a fare la guardia", come soleva ripetermi.

Anche quella mattina era andata cosi', ero rimasto solo sull'auto, col finestrino abbassatoperche' faceva molto caldo quando, mentre stavo per prendere sonno, il mio naso viene solleticato da uno stimolo che conoscevo molto bene e che gli umani chiamano "di cagnetta in calore". Che definizione impropria e scolorita, per me era allo stesso tempo i colori dell'arcobaleno, il profumo del paradiso e l'aroma del giardino delle delizie. Svegliatomi all'istante, mi alzo sulle zampette posteriori e con quelle anteriori appoggiate al finestrino aperto chi ti vedo? lei, la barboncina nera che sculetta al guinzaglio di un'altrettanto sculettante padroncina.

Non ci credono gli umani che noi cani ci comprendiamo col nostro abbaiare, coi nostri ululati e uggiolii e col nostro incedere: la barboncina, che si era accorta della mia presenza, altro non mi stava dicendo:" Lo so che sei lì, te la faccio annusare ma non te la dò, sei troppo zotico, un cane campagnolo, mentre io sono di razza e aristocratica, per di più": Proprio io, Zago, spinone di quattro anni, che potevo contare un numero sterminato di cagnoline rese da me felici, non potevo certo assistere a quella presa in giro senza reagire e, con un balzo, salto fuori dall'auto e, lancia in resta, mi metto all'inseguimento di quella smorfiosetta.

L'inseguimento durò poco, due curve e un tratto di strada sterrata, quando la mia amata scomparve, con la sua padroncina, dietro il cancelletto verde di una villetta.

Non dandomi per vinto rimasi almeno un'oretta davanti al cancello ad aspettare e quando, sconsolato, feci ritorno sui miei passi,dell'auto di papà Fausto non era rimasta traccia.

In pochi minuti venni assalito dall'ansia e ben presto questa si tramuto' in terrore.; gli occhi mi si velarono di lacrime e i pensieri più lugubri occuparono il mio, fino ad allora, spensierato cervello.

Incominciai a girare in tondo annusando a destra e a sinistra, ma dell'odore di papà Fausto nemmeno l'ombra. Permaneva invece quello della barboncina, causa di tutte le mie disgrazie.

Avevo sete, una sete tremenda e gia' scendevano le prime ombre della sera. A quell'ora in cascina, venivano riempite le nostre ciotole e, festanti, con le code proiettate verso il cielo, cenavamo tutti quanti insieme.

Scese la notte, cercai riparo tra i cespugli, ma non riuscii di certo a dormire. Le punture delle zanzare e i rumori più disparati me lo impedivano.

Al mattino, più stanco della sera prima, mi incamminai per un viottolo; dovetti scappare perchè inseguito da un cane più grosso di me e che non aveva intenzioni pacifiche.

Anche le persone che incontravo non avevano un buon odore, mi sembravano ostili, non si accorgevano di me o, addirittura, mi gridavano:" Vai via cagnaccio".

Attraversando una strada sentii il rumore di una frenata; per poco non finii sotto le sue ruote.

Finalmente una fontanella e un po' di sollievo per la mia gola riarsa dalla sete.

Mi avvicinai a due bambini che giocavano e uggiolai:" Mi sono perso, non avete visto passare di qui papà Fausto?" Per tutta risposta un sasso mi sfioro' il naso accompagnato da un :" Pussa via, bestiaccia":

La seconda notte la passai in un fosso; come era diverso il paesaggio rispetto alla mia cascina.

Quella notte versai calde lacrime e i miei guaiti erano indirizzati ai miei compagni di gioco:" Flic e Floc dove siete", "Bartolomeo perche' non vieni qui ad accuciarti e scaldarmi un po??" e soprattutto:"Papà Fausto, dove sei, non abbandonarmi, sono ancora vivo".

Il mattino successivo raggiunsi Voghera e, all'improvviso, sentii uscire dalla porta di un bar un odore buono, un odore di persona per bene, come quello che aveva papà Fausto. Mi avvicinai con circospezione e la vidi, dietro il bancone, affacendata con piatti, tazzine e bicchieri. Era lei ad emanare quel buon odore.

Piu' la guardavo e più pensavo a Pallina, la mia vecchia mamma.

Un guaito per attirare la sua attenzione, un suo sguardo e fu subito amore:" Ma cosa fai qui?, Ti sei perso?, Hai fame? Vuoi un po' d'acqua?.In men che non si dica avevo davanti al mio naso una ciotola d'acqua fresca e un piatto con dentro ogni ben di dio da mangiare.

Dopo due giorni di terrore avvertii un senso di rilassamento e di pace: Riassaporai i piaceri di una casa e di una famiglia. Quella signora cicciottella, Patrizia ho sentito che la chiamavano, intuivo che non mi avrebbe abbandonato; mi accarezzava in continuazione, mi porgeva dell'altro cibo e, per quella giornata, mi tenne, anche se legato sotto un ombrellone, vicino a lei. Io non la perdevo d'occhio mentre andava avanti e indietro con piatti e vassoi:

Solo verso sera, quando chiusero il bar, provai ancora un senso di paura: Si trattava di decidere dove avrei passato la notte. Mamma Patrizia mi voleva portare a casa sua ma Sara, la sua bambina, si opponeva perche' aveva paura che io litigassi col suo gatto.Io avevo cominciato a guaire:" Guarda Sara che io con i gatti vado d'accordo, dormo nella cuccia con Bartolomeo e non l'ho mai morsicato, nemmeno quando fa' le puzzette". Ma cosa volete farci, noi cani comprendiamo il linguaggio degli umani ma, sembra, che loro non comprendano il nostro.

Fatto sta che passai la notte rinchiuso in uno sgabuzzino del bar; pero' ero tranquillo perche' mamma Patrizia mi aveva promesso che il giorno dopo sarebbe tornata e, con quella faccia, come potevo dubitarne:

Il giorno dopo, infatti, torno' e fu ancora grande festa.

I due giorni successivi furono pieni di novita'. Per prima cosa devo dire che il mio piatto era sempre pieno di prelibatezze; avanti di quel passo mi sarei trovato anch'io cicciottello come mamma Patrizia.

Vedevo tanta gente che entrava e usciva dal bar; c'era chi mi guardava appena, chi si fermava a farmi i complimenti, ad ognuno non veniva risparmiata la mia storia. Mi sentivo un cane importante.

Ogni tanto arrivava Roberta che usciva da una porta vicina al bar e mi portava a spasso per i miei bisogni: Anche lei aveva un buon odore; non era la figlia di Patrizia, ma di un'altra signora che per mestiere vendeva quei pestilenziali cosi che di tanto in tanto papà Fausto metteva in bocca e, dopo averli accesi, facevano un fumo che mi faceva tossire e lacrimare gli occhi per un bel pezzo.

In quei giorni avevo intuito che Patrizia si dava da fare per ritrovare papà fausto; aveva addirittura scritto ad un giornale e inviato una mia fotografia.

Verso la tarda mattinata di quel venerdi' captai che qualcosa di nuovo era successo; mamma Patrizia aveva assunto in volto un colore rosso acceso e, quando parlava, le sentivo tremare la voce. Che differenza fra gli umani e noi, loro balbettano, noi agitiamo la coda o, al massimo, lasciamo andare qualche goccia di pipì.

Dopo una mezzoretta compresi il motivo di quel "ciapa, ciapa"; aveva telefonato papà Fausto che, dopo aver letto il giornale, comunicava che presto sarebbe giunto a riprendermi.

Non immaginate la felicita' che ho provato in quei momenti; se Roberta non mi avesse portato a fare un giretto, la pipì l'avrei lasciata andare tutta sotto l'ombrellone.

Da quel momento i minuti cominciarono a sembrarmi ore e le ore giorni. Non ebbi più il coraggio di toccare acqua e cibo.

Finalmente vidi arrivare l'auto e da essa scendere papà Fausto che, come mi vide allargo' le braccia e gridò:" Zago". Gli volai in braccio e lo leccai tutto sulla faccia ma, quando mi voltai e vidi mamma Patrizia, comprersi come fosse triste, intuendo che mi avrebbe perso. Saltando dalle braccia di papà Fausto volai addosso a mamma Patrizia e, leccandole il viso, uggiolai:" Cara mamma, sei stata tu a salvarmi, non ti scorderò per tutta la vita".

E' notte, abbiamo fatto tardi perche' in cascina si e' festeggiato il mio ritorno; ho dovuto raccontare ai miei amici la storia della mia avventura fino allo sfinimento.

Prima di dormire devo recitare le preghiere della sera, come mi ha insegnato mamma Pallina, fin da piccolo. Questa sere e le prossime saranno più lunghe perche', oltre a ringraziare Gesù per tutte le cose belle che ho e le persone buone che mi circondano, devo ringraziarlo per avermi fatto incontrare una mamma dal cuore così grande come Patrizia. "Caro Gesù mantienila sempre bella, giovane e in salute e, come l'ho sentita spesso lamentarsi, pur non comprendendone bene il motivo, con quindici chili in meno".

 
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Post N° 11

Post n°11 pubblicato il 12 Gennaio 2007 da hrothaharijaz

Nei miei racconti c'e' quasi sempre il morto. In tanti mi han detto:" ma insomma Hrothaharijaz, fai morire sempre qualcuno!". In questo caso il morto saro' io e non sara' la prima volta dal momento che moriro' anche in un prossimo racconto. Non e' la mia morte il centro nevralgico del racconto, serve solo da spunto per introdurre la vicenda della persona che, con mia figlia, sta al centro della mia vita, mia moglie.

                              LA SIGNORA DEI CARLINI

E cosi' era rimasta improvvisamente sola, a ottantadue anni. Poche settimane prima era morto Menelao, l'ultimo di una serie di carlini che avevano allietato lei e suo marito Fiorenzo da quarant'anni a questa parte, poi era toccato a lei trovare suo marito morto su una panchina del parco di fronte alla Scuola S. Boezio di Pavia. Lo aveva visto da lontano, sembrava dormisse, con un libro semiaperto sulle ginocchia, il De senectute di Cicerone. Ultimamente cio' capitava sempre piu' spesso. Capitava anche che leggesse e non ricordasse quanto leggeva. "Cara Mary il mio cervello sta andando in pappa, meglio andarsene prima di ridurmi ad un essere senza dignità".Guardandolo da vicino si accorse che non dormiva, dalla bocca le usci' un sussurro:" Eccoti accontentato, amore della mia vita, ma io sono rimasta proprio sola". Se ne era andato come avrebbe voluto, a tempo debito, senza dolore e dignitosamente.

Piu' di cinquant'anni di matrimonio sono stati lunghi, attraversati da momenti felici e da disgrazie, sempre affrontate insieme e con dignita'. Il suo Fiorenzo era un bel uomo. soprattutto da quando,verso i quarantacinque anni, aveva deciso di perdere i chili di troppo. Era stata sempre gelosa di lui, piu' di una volta aveva notato come le altre donne lo guardassero:" Sara' sempre stato solo mio?" diceva. Non fa' niente, tanto la vita l'avevano passata insieme e serenamente erano invecchiati facendosi, pur borbottando di tanto in tanto, una tenera compagnia.

Nella sua vita Mary aveva sempre pensato che una situazione del genere si sarebbe potuta verificare, la temeva con terrore e disperazione. Ora che, purtroppo, si era verificata, era stranamente tranquilla. "E' lui che mi e' vicino e mi aiuta", pensava. Doveva affrontare serenamente tutti i problemi del caso. "Una cosa alla volta, con calma e tranquillità", come soleva ripeterle soventemente il marito in situazioni analoghe. E così avrebbe fatto.

Sbrigate tutte le incombenze relative al funerale, resasi conto che poteva affrontare il futuro, dal punto di vista economico, con tutta tranquillita', doveva decidere solo cosa fare. Scartata l'ipotesi di trasferirsi ad Auckland, in Nuova Zelanda, a casa della figlia Francesca, sposata con un ingegnere informatico italiano e cola' trasferitasi da oltre trent'anni con i quattro figli maschi, decise che i suoi ultimi anni li avrebbe passati a Pavia. Non che la figlia, il genero e i quattro nipoti avessero dimenticato l'Italia, anzi, almeno una volta all'anno, passavano il mese delle loro vacanze a Pavia e, una volta cresciuti, i nipoti, piu' di una volta si erani imbarcati su un aereo per raggiungere gli amati nonni e  portare un'ondata di gioventu' a casa dei due vecchi.

Una cosa faceva paura alla vecchia Mary: la solitudine. Le sarebbe mancato tanto il profumo del sigaro fumato, alla sera davanti alla televisione, dal marito, il disordine in cucina quando il suo Fiorenzo si dilettava a preparare le sue ricette, il calore dei suoi piedi quando, a letto, si allungava per riscaldarla e, soprattutto, la sua voce:" Mary, dove hai messo..", "Mary, cos'hai detto?" e, soprattutto la frase che ripeteva in continuazione da una vita: "Mary, mi vuoi bene?". Cosi', nel giro di pochi giorni, lei che aveva sempre avuto grosse difficolta' a prendere una decisione da sola, ruppe gli indugi e, chiamato un taxi, si fece accompagnare pochi chilometri fuori dalla citta', presso un allevamento di carlini.

L'idea era quella di acquistarne uno, sarebbe stato la compagnia della sua vecchiaia, ma, quando vide la cucciolata, non se la senti' di dividere i quattro cagnolini, decidendo al momento di acquistarli in blocco.

Fu cosi' che Anton, Bruno, Caesar e Dora, irruppero nella casa di Mary, ancora una volta mamma, o per meglio dire, nonna Mary per i suoi carlini. Si ripete' il solito rito, porte aperte e la voce della neo mamma che diceva:" Avanti bambini, questa é la vostra nuova casa, andate a scoprirla e annusatela tutta, sono sola e ci faremo tanta compagnia".

Il perche' della scelta di quei nomi Mariella non lo sapeva, ma si ricordava che il marito una volta era venuto fuori con una frase:" Se avessi quattro carlini li chiamerei Anton, Bruno, Caesar e Dora". Ma non disse il perche'. Il marito defunto, medico neurologo, era un po' un originale.; uomo di profonda cultura, soprattutto storica e classica, aveva sempre chiamato i suoi carlini con nomi che si rifacevano a personaggi storici o della mitologia; avevano avuto, inizialmente, Caronte, il piu' amato, vissuto per quattordici anni, un'età vetusta per la razza, poi erano arrivati, in successione, Venceslao, Totila, Seneca, Frine e Menelao.

Il perche' di quei quattro nomi doveva venirlo a sapere alcuni anni dopo, in occasione di una delle visite settimanali del medico di famiglia, il dottor Vespa, gia' ottantenne, vedovo, da quando la moglie se ne era andata a causa di un melanoma, di vecchia scuola, amante anche lui dei cani e vecchio amico del defunto marito, col quale soleva passare pomeriggi in noiose, come diceva lei, discussioni su argomenti di storia e di politica. Vedendo il dottor Vespa campeggiare in una bacheca il modellino della nave da battaglia Bismarck, della marina militare tedesca ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, si ricordo' che i nomi dati ai carlini altro non erano che quelli delle rispettive quattro torri binate con i due potenti cannoni da 381 mm.

Fin dal giorno successivo al loro arrivo, lo spettacolo dei quattro carlini al guinzaglio, condotti da una simpatica ed arzilla vecchietta, divenne una delle maggiori attrazioni per gli abitanti di  Città Giardino. Educati,  facevano festa a chiunque li fermasse per festeggiarli, agitando i loro codini a doppio ricciolo; insieme si fermavano e facevano pipì e quasi contemporaneamente per fare il resto: si era venuto poi a sapere che i quattro la facevano a comando quando la Mary ripeteva la magica frase:" adesso, bambini, dovete fare la cacca".

La loro educazione e la tenerezza che ispirava alla gente quel tenero donnino con i quattro cagnolini al guinzaglio era tale che nessun luogo era loro precluso, dai negozi, anche quelli che esponevano il cartello col divieto di entrata per i cani, al cimitero dove si recava poche volte all'anno per piangere i suoi morti.

In effetti il marito, per lei, non era morto, continuava ad aleggiare per casa e con lui intavolava lunghe chiacchierate, quasi sempre riguardanti i suoi cani. Dormivano a letto con lei e spesso diceva:" Lasciate un po' di posto anche al papa' che, se fosse ancora qui, chissa' come vi avrebbe voluto bene".

La solitudine di Mary era certamente mitigata dalla presenza di quelle quattro bestiole che, oltre alla compagnia, incidevano positivamente sulla sua salute fisica e mentale. Ora aveva compiuto i novant'anni e, per due volte al giorno, in qualsiasi stagione e qualunque tempo, li portava a spasso; leggeva ancora libri e giornali e l'unico aiuto era quello di una domestica che le sbrigava i lavori di casa per qualche ora al giorno.

Aveva le fisse tipiche delle donne della sua eta'; si lamentava spesso con il macellaio che la carne trita non era di filetto o che il pollo era di allevamento e non ruspante. Un giorno si' e l'altro pure si recava dal veterinario:" Il mio Anton ha la flatulenza", "Bruno fà poca pipì", "Caesar perde il pelo". Solo Dora, la sua preferita, era sana; peccato che non poteva darle dei carlini perche', ovviamente, con tre maschietti in casa, era stata costretta a farla sterilizzare.

Aveva novantatre' anni quando, nel volgere di pochi giorni, i tre carlini maschi si ammalarono e se ne andarono uno dopo l'altro.

Un freddo mattino di dicembre la domestica trovo' Mary ancora a letto, sembrava dormisse ancora, con Dora accucciata ai suoi piedi. Se ne erano andate tutte e due quella notte, insieme.

Il medico legale arrivato per la constatazione di morte, guardando la scena sussurro':" Che tenerezza, sembra la statua di Ilaria del Carretto, del maestro Jacopo della Quercia, che c'e' a Lucca".

 
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Post N° 10

Post n°10 pubblicato il 02 Gennaio 2007 da hrothaharijaz

Oggi faccio una una pausa, nessun racconto. Una considerazione e un invito ad un sondaggio: sarete portati, per un anno in un luogo deserto; a voi la scelta: un'isola, una baita in alta montagna, una cella di un carcere o di un monastero di clausura, una sonda nello spazio, una grotta. Potrete portarvi dietro solo 10 libri fra quelli che avete letto, quali?

La mia scelta fra i 1276 libri letti fino ad oggi:

1) Il signore degli anelli - J.R.R. Tolkien

2) Divina Commedia - Dante

3) Antologia di Spoon River - E.L. Masters

4) Il cavallo rosso - E. Corti

5) Declino e caduta dell'Impero Romano - C. Gibbon

6) Odissea - Omero

7) Trilogia galattica - I. Asimov

8) Interpretazione dei sogni - S. Freud

9) Storia della Seconda Guerra Mondiale - W. Churchill

10) Il nome della rosa - U. Eco

e Voi cosa scegliereste?

 
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Post N° 9

Post n°9 pubblicato il 31 Dicembre 2006 da hrothaharijaz
Foto di hrothaharijaz

Vorrete sapere come mi nasce l'idea di un racconto, molto velocemente. La parte piu' difficile e' farsi venire l'idea; una volta che c'e' quella, scrivo di getto, rileggo, correggo, batto a computer, faccio leggere a mia moglie, se dice si', il racconto e' pronto. Due ore, quasi mai di piu'.

Il protagonista di questo racconto l'ho incontrato per caso e, come l'ho visto, l'ho fatto diventare il diavolo in questa storia. Successivamente questo signore l'ho conosciuto di persona, un soggetto buono e mite. Non ho avuto il coraggio di fargli leggere il racconto.

                                             FAUST A PAVIA

I momenti prima di una gara sono sempre i piu' importanti e difficili per un atleta.

Ulderico Sacchi, ventiduenne atleta pavese, era convinto che una gara la si vinceva o la si perdeva nei dieci minuti prima della partenza. Cosi' era stato nelle sue tre passate esperienze. Nella maratona di New York, tre anni fa, partito senza alcuna responsabilita', si era classificato venticinquesimo, un bel risultato per un dilettante al suo esordio. L'anno successivo, alla maratona di Boston, la tensione aveva cominciato ad attanagliarlo fin dalla notte precedente la gara e il risultato, il giorno dopo, era stato quello di un ritiro dopo nemmeno tre chilometri di corsa, con i muscoli contratti e duri come il marmo e gli intestini in fiamme. Decisamente meglio, l'anno successivo a Venezia, col sesto posto finale.

Ora gli si presentava un'occasione piu' unica che rara; un buon piazzamento lo avrebbe promosso fra i candidati a partecipare, per i colori italiani, alla maratona olimpica di Pechino 2008.

In quel radioso mattino del marzo 2008 si correva la Prima maratona Citta' di Pavia e Ulderico Sacchi non voleva lasciarsi scappare l'occasione di ben figurare nella sua citta' e davanti al suo pubblico.

Dietro i favoriti Loris Fanti e Severino Giudici vi erano altri tre o quattro atleti dati per piazzati e lui era, anzi, si sentiva maledettamente sicuro di essere uno di loro.

Mancavano venti minuti al via; si era sgranchito le gambe e tenuti caldi i muscoli percorrendo un paio di volte il Corso Cavour da Piazza della Vittoria fino alla statua della Minerva; si sentiva in forma, era tranquillo e, soprattutto, aveva buone sensazioni per l'imminente gara.

Mentre sotto i portici guardava la vetrina di un negozio di dischi, avverte una sensazione di disagio, un brivido freddo lungo la schiena; vicino a lui si e' fermato uno strano individuo, alto poco meno di un metro e mezzo, dell'apparente eta' di cinquantacinque anni, pochi capelli neri e unti con il riporto ad incorniciare un viso spigoloso e decisamente brutto, rovinato dall'acne giovanile; portava una giacca principe di Galles fuori moda sopra una camicia grigia su cui spiccava un'indecente cravatta verde smeraldo chiazzata al centro da una vistosa macchia di grasso; portava poi un paio di pantaloni marroni stazzonati, di almeno un paio di taglie piu' grandi e calzava un paio di vecchie scarpe invernali, pure marroni; emanava uno strano odore, rancido e dolciastro misto a fumo, quasi zolfo.

L'ometto sussurro' qualcosa che Ulderico, inizialmente, non afferro'. "Cosa ha detto, ce l'ha con me?", disse; "Si!" rispose l'ometto, "Devo farti una proposta interessante, ti offro una vita intensa, piena di soddisfazioni sportive ed economiche, ma purtroppo breve, vuoi accettare? Devi decidere in fretta, hai poco tempo a disposizione".

Ulderico, che aveva sempre la battuta pronta, squadro' con aria di compatimento l'ometto e, lapidario, rispose: "Senti bello, vai fino in fondo a Corso Cavour, giri a destra in via Palestro, a meta' via, sempre sulla destra, troverai la Clinica neurologica Mondino, li', senz'altro, qualcuno ti potra' dare una mano". Girati i tacchi si diresse a passo di corsa verso il Municipio, per l'ultima sgambata.

Mancava ormai poco alla partenza della maratona e Ulderico aveva gia' dimenticato lo strano incontro di pochi minuti prima quando, a pochi metri dal portale della chiesa sconsacrata di S. Maria Gualtieri, rivide lo strano ometto di prima che parlava con Luigi Sartori, uno dei concorrenti che avrebbe potuto dargli fastidio nella corsa verso l'olimpiade cinese. I due si sorridevano amichevolmente e li vide salutarsi con una vigorosa stretta di mano. Improvvisamente Ulderico si senti' a disagio, gli sembro' che le forze lo stessero abbandonando, senti' le gambe molli e incomincio' a sudare ancor prima di far fatica.

Lo sparo dello starter lo prese in contropiede e si ritrovo', lui che aveva deciso di attuare una tattica d'attacco fin dalla partenza, intruppato in mezzo al plotone. Giunto all'altezza del Borgo Ticino capi' che da quella posizione non si sarebbe piu' schiodato.

La sua fu una corsa incolore, senza sussulti; tento', senza convinzione un allungo per recuperare qualche posizione, alla periferia di San Martino ma, dopo nemmeno duecento metri, dovette desistere, con le gambe dure come l'acciaio e il cuore in gola che martellava a piu' non posso.

Decise di portare a termine la gara per onor di firma, non poteva permettersi il ritiro nella sua Pavia e davanti ai suoi tifosi.

Il finale per Ulderico fu uno strazio, percorse gli ultimo metri quasi in apnea e, appena dopo il traguardo, in via XI febbraio, stramazzo' a terra sfinito. Si riprese solo dopo un'ora e seppe che a vincereera stato, sorprendentemente, Luigi Sartori, con un tempo incredibile, 1h59'37", nuovo record mondiale sulla distanza; lui penultimo; addio Pechino, addio sogni olimpici.

La carriera agonistica di Ulderico Sacchi fu costellata, negli anni successivi, da una serie incredibile di infortuni ed eventi sfortunati. Una fastidiosa tendinite al ginocchio lo tenne lontano dalle corse per quasi due anni; nel 2010 stava per coronare il suo sogno, vincere una maratona importante, quando, in quella di Tokio, a meno di due chilometri dal traguardo e con un ampio margine di vantaggio sugli inseguitori, venne assalito e morsicato da un cane randagio. Dovette abbandonare la gara e a vincere fu Sartori. Dopo la rottura del tendine d'Achille decise di appendere le scarpe al chiodo per consegnarsi ad una anonima vita di lavoro, come fattorino, all'Universita' di Pavia.

Nel frattempo la carriera di Luigi Sartori fu un tripudio di vittorie e ori olimpici e mondiali; nel 2008 alle Olimpiadi di Pechino vinse l'oro nei 10.000 metri e nella maratona, nel 2012, a Londra, ripete' la stessa impresa e quattro anni dopo, a Buenos Aires, vinse anche i 5000 metri.

Nello stesso anno Sartori si ritiro' dall'attivita' agonistica imbattuto e acclamato come uno dei mostri sacri dello sport italiano al pari di un Coppi o di un Tomba.

Si stava profilando per lui un futuro di successo come attore cinematografico quando, per un banale incidente domestico dovuto ad uno scaldabagno difettoso, mori' il 24 giugno dell'anno successivo, a 36 anni di eta'.

"Morto Sartori", titolavano i giornali "Il piu' grande atleta che l'Italia abbia avuto".

Incredulo, davanti alla televisione per assistere ai funerali in diretta, c'era anche Ulderico Sacchi. La bara stava per essere portata, a spalla, fuori dalla chiesa di Sant'Andrea a Vercelli, citta' in cui Sartori viveva, quando,, tra il pubblico, Ulderico vide , sorridente e quasi soddisfatto, un ometto, alto poco meno di un metro e cinquanta, dell'apparente eta' di 55 anni, con pochi capelli neri e unti, con riporto, una giacca principe di Galles sopra una camicia grigia su cui spiccava un'orribile cravatta verde smeraldo macchiata di unto, pantaloni marroni larghi e scarpe pure marroni.

Non ne poteva sentire l'odore, ma ci avrebbe scommesso che era rancido e dolciastro, misto a fumo, quasi zolfo.

 
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RACCONTI: n.6

Post n°8 pubblicato il 30 Dicembre 2006 da hrothaharijaz
Foto di hrothaharijaz

Vi ricordate il racconto "Brutto scherzo della natura", in cui la Silvana Grandi si vendica, alla fine, di tutte le angherie, o supposte tali, subite nel corso della sua vita?. Anche in questo racconto il protagonista, con il quale madre natura non e' stata certamente generosa, si vendica, in modo molto originale, di quanti gli hanno procurato sofferenze.

                                                           IL DONO

Del suo dono, Battistino Pernigotti, se ne era accorto fin dalla prima adolescenza quando, durante le calde e umide estati pavesi, si stendeva sull'erba dei prati, le braccia dietro la testa e, con una pagliuzza d'erba tra i denti, contemplava il cielo.

Si era reso conto di avere un certo potere sugli uccelli e di poterne controllare il volo; se lanciava, col pensiero, un messaggio ad un rondone di virare a destra o di lanciarsi in picchiata, questo immancabilmente obbediva. Lo stesso succedeva con cani, gatti e altri animali di taglia piu' grossa o piu' piccola; riusciva, col pensiero, a farli avvicinare o allontanare, attoniti o atterriti, a seconda dell'intensita' del messaggio. Tale dono l'aveva poi messo in pratica con farfalle, coleotteri ed insetti vari, andando a costituire una collezione degna di un entomologo professionista.

Timido ed introverso, non aveva veri amici; i suoi coetanei lo avevano ben presto escluso, per le sue stranezze, dai loro giochi, bollandolo col soprannome di Battistino al luc (il matto).

Il suo aspetto fisico aveva contribuito a questa sua forzata riservatezza e obbligato isolamento: piccolo di statura, grassoccio, bianchiccio di pelle tanto da farlo sembrare non in buona salute, con pochi capelli rossicci e stopposi, perennemente appiccicati ad un grosso testone. Trasandato nel vestire, spesso sporco e maleolente, era additato dai compagni per quello che aveva sempre il mocio al naso e da qui un altro dei suoi soprannomi, Battistino al candilòn.

Figlio unico di Francesco, fattorino alle Poste di un comune fuori Pavia, e di Adalgisa Tettamanzi, camiciaia, viveva con i genitori e quattro gatti in un modesto bilocale, all'ultimo piano di un vecchio caseggiato, a Porta Calcinara.

Grande fu la delusione del padre, orgoglioso alla nascita del figlio maschio, "quasi bello" era stato il suo primo commento quando l'ostetrica della Morelli glielo mise in braccio la prima volta, nel vederlo crescere un po' tardivo e impacciato. Forse anche per questo incomincio' a bere al punto da ammalarsi di cirrosi e di morirne di li' a qualche anno quando Battistino ne aveva solo otto.

Rimasto orfano di padre, la sua infanzia si intristi' vieppiu'; gli scarsi introiti del lavoro di camiciaia della madre era appena sufficienti per garantire una vita al limite del decoro.

Gli unici momenti in cui acquisiva, presso i compagni, una certa considerazione, era quando si recava a pescare sulle rive del Ticino o del Gravellone, allorche' il suo cestino da pescatore,grazie al suo dono, era sempre il primo a riempirsi di pesce.

Un'altra delle sue passioni era l'astronomia; sapeva riconoscere sulla volta celeste tutte le costellazioni e le stelle del firmamento; non per niente i suoi quattro gatti portavano i nomi, impossibili per i piu', di altrettante stelle: Albireo, la stella di testa della costellazione del Cigno, Aldebaran, l'occhio della costellazione del Toro, Rigel, la gamba sinistra di Orione e Altair nella costellazione dell'Aquila.

Alle scuole elementari ero lo zimbello dei compagni ma, soprattutto, la vittima prediletta del maestro Odoacre Berlingheri, un omaccione di 120 chili di peso, col pancione enorme, i baffi alla Umberto I° e che fumava in continuazione pestilenziali sigari. A scuola, Battistino, era piu' il tempo che passava dietro la lavagna o seduto all'ultimo banco ad eseguire interminabili esercizi di numerazione o a riscrivere, per castigo, anche per cinquecento volte, frasi del tipo: "se non studio di piu', mi cresceranno due orecchie d'asino".

La sua mitezza lo portava a sopportare senza arrabbiarsi eccessivamente sia la cattiveria dei compagni di classe che le angherie del maestro; mai un lamento con nessuno, nemmeno con la mamma. Solo una volta, in IV elementare aveva preso la sua piccola grande vendetta nei confronti del maestro; aveva notato fuori dalla finestra due grossi calabroni e, nel volgere di pochi attimi, li aveva lanciati all'attacco del grasso e sudato collo del maestro. Inesorabilmente morsicato, l'Odoacre Berlingheri, presento' una subitanea reazione allergica, al punto da dover essere trasportato con urgenza al Pronto Soccorso del S. Matteo dove rimase tra la vita e la morte per due giorni.

Un'altra volta dirotto' uno sciame d'api sul campo di calcio dell'Oratorio dove si svolgeva una partita di calcio tra la squadra della sua Parrocchia contro quella di un paese vicino, solo perche' era stato escluso dalla formazione, per evidente incapacita' tecnica.

Conseguito, a fatica, il diploma di scuola media inferiore, venne mandato a lavorare dapprima come garzone in una drogheria del centro, poi come manovale in una impresa edile; in entrambe le occasioni venne lasciato a casa nel volgere di pochi giorni in quanto elemento svogliato e inaffidabile.

Figlio unico di madre vedova, riusci' ad evitare il servizio militare e, come orfano di padre ex impiegato delle Poste, riusci' a farsi assumere presso lo stesso ente, grazie anche alla raccomandazione di un deputato della Democrazia Cristiana.

Assegnato agli sportelli del pubblico, venne rimosso dopo nemmeno una settimana per manifesta incapacita' e svogliatezza e relegato all'Ufficio Smistamento Posta piu' con compiti di fattorino e di responsabile del rifornimento di caffe', brioches, panini e bevande per i colleghi dell'Ufficio. Il Battistino era, pertanto, piu' facile da trovarsi seduto ai tavolini del bar antistante il luogo di lavoro a rimpinzarsi di tramezzini, dolci e focacce che non nel proprio ufficio a svolgere le preoprie mansioni lavorative.

La sua vita sarebbe trascorsa monotona, incolore e senza sussulti tra lavoro (si fa' per dire) e casa, tra casa e pesca se non fosse arrivata improvvisamente a turbare la sua squallida serenita' la Paola Vaccarossa, una procace e formosa ventunenne, neoassunta alle Poste e assegnata all'Ufficio Smistamento, lo stesso del Battistino. Trafitto da un amore a prima vista, per Battistino incominciarono le tachicardie, i sudori freddi, i languori e le notti insonni.

Alta 1 e 75, con un caschetto di capelli biodi, occhi azzurro mare, labbra sensuali, quinta di reggiseno, con due gambe slanciate rese ancora piu' aggressive da una corta minigonna arancione, la Paola irruppe nell'Ufficio Smistamento Posta i 6 ottobre 2000 e fu lo sconquasso, non solo per il Battistino.

Bella, un po' oca, aveva scatenato subito, fra i colleghi maschi, una lotta senza quartiere per portarsela a letto.

Primo tra tutti il Gian Luca Piselli, venticinquenne, palestrato, eternamente abbronzato e con la fama di tombeur des femmes.; il capufficio Girolamo Belladonna, cinquantenne, sposato con una donna bruttissima e con due figlie che avevano ereditato dalla madre questa sola qualita', con la fama di averci provato con tutte le colleghe ma di non esserci riuscito con nessuna. Stravolta venne anche la vita della Bernardina Trombetta, cinquantenne, ancora piacente, tardona e zitella che furoreggiava ancora al sabato sera nelle balere del Pavese e dell'Oltrepo', la quale si trovo' improvvisamente catapultata in secondo piano, nella considerazione dei maschi delle Poste Centrali, davanti alla prorompente avveneza della neoassunta.

L'andirivieni di maschi dai vari uffici verso lo smistamento Posta si era fatto troppo sfacciato perche' il Direttore generale non se ne accorgesse e adottasse gli opportuni provvedimenti.

La gia' scarsa resa sul lavoro del Battistino, con l'arrivo della Paola, ebbe un ulteriore calo; posta per Catania si ritrovo' a Bari, per Torino a Venezia.

I suoi goffi tentativi di approccio alla Paolo abortivano in incomprensibili farfugliamenti o con maldestri atti di premura nei suoi confronti, come quella volta che, nel tentativo di porgerle una tazza di cioccolata, gliela rovescio' sulla camicetta color lilla'.

Bella, un po' oca, ma comprensiva, la Paola; aveva capito tutto del sentimento provato dal Battistino per lei e, gentilmente, lo ricambiava con affettuosa accondiscendenza, ascoltando, con materna premura, i goffi ragionamenti dell'impacciato innamorato.

Il Battistino aveva incontrato nella Paola la prima persona che lo trattava con umana gentilezza e non come lo scemo del villaggio; aveva interpretato, alla fine, le premure della bella collega come una accondiscendenza al suo sentimento d'amore. Non passava giorno che, sulla scrivania della Paola, ci fosse un mazzolino di fiori di campo, un cioccolatino, dei biscottini; quando vedeva volare, fuori dalla finestra, una farfalla, lanciandi il suo messaggio telepatico, la faceva volare attorno al viso dell'amata e le sussurrava:" Guarda, Paola, e' bella come te".

Battistino, col passare del tempo, era diventato pressante ed invadente. La seguiva, dopo il lavoro, fino a casa; col freddo e col caldo, con la pioggia e con la nebbia stazionava, nascosto dietro un siepe e, con gli occhi rivolti verso le finestre dell'amata, sperava di rivederla ancora una volta.

Duro fu il colpo quando scopri' che la paola si vedeva con un ragazzo; la reazione fu tale che gli venne un attacco febbrile che lo tenne lontano dall'ufficio per venti giorni.

Al suo rientro, gli parve che la Paola non fosse piu' la stessa, che non avesse piu' voglia di ascoltarlo, addiritturo non mangio' il cioccolatino che le faceva trovare, puntualmente, sulla sua scrivania.

Si mise ad ascoltare, per caso, la Bernardina e la Paola che chiacchieravano; quest'ultima in formava l'amica che sabato sarebbe uscita a cena con il nuovo ragazzo; sarebbero andati a mangiare in un ristorante in collina e aggiunse, ridendo:" e chissa' che, dopo cena, non ci scappi qualcos'altro".

A queste parole al Battistino si strinse il cuore: Nei due giorni successivi non mangio' nulla al che la madre, preoccupata, lo apostrofo': "Oh che, Battistino, non e' che ti sei innamorato".

Giunto il sabato fatidico, Battistino si apposto' con la sua Renault 4 nei pressi dell'abitazione della Paola, a Citta' Giardino, fin dalle 6.00 di sera. Alle 19.30 si fermo' un Duetto Alfa Romeo rosso fiammante e, dopo pochi attimi, la Paola usci' di casa e vi sali' sopra. I due partirono in direzione di Voghera dove poi presero la strada per Varzi e il Passo del Penice. Battistino seguiva i due a debita distanza. Giunti a Menconico, i due scesero ed entrarono in un ristorante della zona. Battistino rimase in macchina  ad aspettare la fine dela cena. Alle 23.00 i due innamorati uscirono dal ristorante e, al posto di fare ritorno a Pavia, presero la strada per il Penice: Dopo pochi chilometri imboccarono un viottolo sterrato sulla sinistra e si fermarono in uno spiazzo sotto i pini.

Battistino si fermo' a sua volta ad una cinquantina di passi dal Duetto e, sceso dalla sua R4, si avvicino', furtivamente.

Nascosto, dietro una siepre di agrifoglio, a pochi metri di distanza dall'auto degli innamorati, Battistino vide quello che non avrebbe mai voluto vedere.

La scena che si presento' ai Carabinieri della Stazione di Varzi, chiamati la mattina successiva da un escursionista in cerca di funghi, era, a dir poco, raccapricciante. In quello spiazzo, sotto i pini, era stata rinvenuto, in localita' Tre Passi, un Duetto Alfa Romeo rosso, con le portiere spalancate e con i segni di una furia selvaggia sulla carrozzeria. A venti metri dall'auto giaceva il cadavere, nudo, di una giovane di circa vent'anni, con morsicature e lacerazioni su tutto il corpo e mutilazioni alle estremita' degli arti. A dieci metri, il cadavere, sempre nudo, di un uomo di circa venticinque anni di eta', con la stessa tipologia di ferite della donna.

Le prime indagini portarono a sospettare la presenza di un mostro in Oltrepo.

Nel volgere di pochi giorni la verita' venne pero' a galla, inquietante ed inspiegabile nello stesso tempo; i due fidanzati sarebbero stati sorpresi, in auto, da un branco di cinghiali imbizzariti, presenti numerosi nella zona; presi dal panico i due avrebbero aperte le portiere per cercare scampo nella fuga, ma firmando, in tal modo, la loro orribile condanna.

 
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