Losguardodalontano

Assaggiare l'antico. Parte III


Dopo gli Egizi e gli Etruschi, sabato 17 maggio il Museo Civico archeologico di Bologna ha registrato nuovamente il "tutto esaurito". A deliziarci il palato, ancora una volta, Claudio Cavallotti che, nel rigoroso rispetto delle fonti, ha illustrato e riproposto alcuni piatti tipici della cucina della Roma Antica. Prima tappa: periodo repubblicano. Sulla tavola…Brossicae iusculum – brodetto di cavolo, farina d’orzo e cumino;Libum – pane (azzimo) di frumento, con formaggio pecorino e uovo;Epytrum – olive con erbette (coriandolo, cumino, finocchio, menta, ruta);Uova sode di quaglia;Globuli – frittelle di farina di farro, formaggio pecorino, miele, semi di papavero);Vinum myrteum – vino con bacche di mirto. Un menù che riflette in tutti i suoi elementi le vicende storiche, economiche e culturali che coinvolsero la Roma di Catone. Un substrato culturale originario di tipo pastorale, segnalato dalla presenza del formaggio pecorino, mescolato alle farine di cereali (farro e frumento), la cui coltivazione fu incentivata dalla presenza degli Etruschi. Il farro in particolare, il cereale che per primo, qui, fu utilizzato con finalità alimentari, veniva abbrustolito, privato della scorza, ridotto in farina e utilizzato prevalentemente per la preparazione di polente (puls). Successivamente sostituito dal furmento, più adatto alla panificazione, sopravvisse come alimento da offrire in occasione di riti sacrificali.Il cumino, introdotto come spezia esotica grazie all’incremento degli scambi commerciali con il paesi del mediterraneo orientale, insaporiva la zuppa di cavolo, considerata un rimedio contro i morsi di serpente, e la salsa di olive (di origine greca), che era servita in abbinamento, ancora una volta, con il formaggio. Infine i globuli, dove la farina di farro e il formaggio pecorino si fondevano a formare palline di pasta, fritte nello strutto e bagnate col miele, accostamento dolce-salato piuttosto tipico dell’epoca.Tutto riprodotto esattamente com’era, senza alcuna variazione o adattamento al gusto contemporaneo. A Cavallotti non importa compiacere, non vuole sedurre il palato dei commensali: che vi piaccia o no, questa era la cucina di allora. Prendere o lasciare. Al che, Massimo Montanari, se fosse stato presente, avrebbe sobbalzato sulla sedia obiettando: - Caro dott. Cavallotti, “se la cultura gastronomica dei secoli passati si può studiare e ricostruire con una certa credibilità, il passaggio al piano pratico dell’esperienza (le sensazioni individuali dei sapori) appare totalmente velleitario. L’oggetto è cambiato, (i prodotti di oggi non sono più quelli di mille anni fa, anche se portano lo stesso nome) e, quel che più importa, è cambiato il soggetto: i consumatori non sono più gli stessi, e la loro educazione sensoriale è enormemente diversa.” (M. Montanari, Il cibo come cultura, Bari, Laterza, 2005, p. 82). Sperimentare cosa provavano i Romani assaggiando il brodo di cavolo… Non credo sia questa l’ambizione di Cavallotti, come non credo che le sue ricerche siano del tutto velleitarie. Del resto, quale ricostruzione storica è totalmente immune dal riflettere il gusto, la sensibilità e l’orientamento ideologico del ricercatore che la partorisce? Il segreto sta, forse, (e in questo diamo ragione a Montanari) nel non prendersi troppo sul serio. “Giochiamo” a fare «cucina storica», nella consapevolezza che si sta procedendo per approssimazioni e che ogni ricostruzione è comunque, in parte, un’invenzione. Giochiamo, si, e divertiamoci. Senza però mai dimenticare le regole della ricerca scientifica più seria e rigorosa. Regole che Cavallotti ha più volte mostrato di conoscere alla perfezione.