oltre...mè...

Refuge


Una stanza tutta per sé diceva Virginia Woolf alle sue lettrici, madri e mogli vittoriane che bramano un’esistenza più sopportabile, Virginia propone questo gesto elementare, la conquista di uno spazio, anche minimo, in cui si possa esistere esclusivamente per sé. Sembra niente, ma è un intero programma di vita, la pietra angolare di un’eversione dalle conseguenze imprevedibili. La famiglia vittoriana non è esattamente la baracca dei deportati di Dostoevskij, ma si tratta di spazi resi affini dal patimento di una prossimità forzata ai propri simili. Per sottrarsi a questa perpetua tortura, ci vogliono scaltrezza e determinazione. La capacità di ricavare molto dal poco, di fare tesoro delle minime occasioni, di custodire la brace di una volontà inflessibile sotto la cenere dell’obbedienza. In mancanza di un materiale più ortodosso, bisogna imparare a utilizzare quello che c’è. Spesso questo spazio è fatto di immaginazioni, come la carrozza di Cenerentola, un artificio, con le ore contate, destinato ad estinguersi al primo impercettibile chiarore del’aurora, cosi sembra conservare prerogative del tutto simboliche, una fuga immobile, un’allucinazione di movimento. Ma cosa c’è di più resistente alla violenza e all’usura del mondo di uno spazio simbolico?? Ci sono romanzi epistolari in cui i personaggi  rifuggono dal proprio mondo interagendo fra loro per mezzo di lettere, l’esempio più perfetto va probabilmente riconosciuto nelle “Relazioni pericolose” di Lacros. In altri casi, quando diventa chiaro che non c’è da aspettarsi nessuna risposta da parte del destinatario, la comunicazione epistolare subisce una trasformazione lenta ed invisibile, ma alla fine impressionante. Un esempio giustamente celebre, sono le stupende “lettere di una monaca portoghese”, fra i più insigni capolavori erotici dell’intera età barocca. Quanto più si rivolge all’altro, tanto più la lettera sembra inoltrarsi in un vuoto dal quale non tornerà indietro nient’altro che il proprio stesso eco. L’ombra del destinatario, come una fata morgana, si dissolve, e l’autore della lettera, come se si svegliasse da un sogno troppo bello per essere anche vero, si ritrova davanti i suoi lineamenti, quello che rimane è un monologo tragico, pronunciato nel vuoto pneumatico della mente. Un diario, una confessione intima, che fingono la presenza di un interlocutore inesistente.Esiste forse una un’immagine più adeguata, della follia e del suo linguaggio??L’innaturale redime il naturale, invece di contraddirlo, di soffocarlo di negarlo (come inveterate abitudini di pensiero, ci portano a stabilire troppo frettolosamente) gli permette di pervenire, da inespresso che era, all’espressione. “Io sono la mia malattia e la mia cura.” La cara e vecchia cosa in sé..ma resa intellegibile da ciò che in apparenza…ma solo in apparenza...è il suo contrario…l’illusione…il troppo…la menzogna…