ÐEINAUTI
Solo in quanto gli uomini riescono ad offrire ebbrezza agli Dèi possono pretendere di attrarli sulla terra
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Qualcuno dice che la sua popolarità sia determinata dall’alta tecnologia con la quale si può rassicurare il pubblico sul fatto che ciò che vede, anche la più ruffiana delle immagini, è arte contemporanea.
O forse c’è dell’altro, un trucco vecchio quanto la storia della pittura. Una fascinazione che ci riporta alle lanterne magiche, ai diorami, alle vedute ottiche, ai pantoscopi settecenteschi retroilluminati da una candela. O all’attrazione esercitata da ogni composizione od oggetto riflessi in uno specchio, che saranno sempre più «belli» degli originali poiché lo specchio è ricettore di luce e quest’ultima irradia ciò che è riflesso.
Silvia Ronchey, raffinata bizantinista, ha riportato sulle pagine di «Robinson», uno dei settimanali di «la Repubblica», un antico racconto persiano. Due imperi, quello bizantino e quello cinese, si sfidano. Il campo di battaglia stavolta è incruento, è la pittura. Chi sono i più abili pittori? I bizantini o i cinesi? I primi riempiono una parete d’affreschi. Meravigliosi, impareggiabili, cromaticamente splendidi. I cinesi lavorano sulla parete esattamente di fronte, ma si limitano a lucidarla alacremente, sino a tramutarla in uno specchio.
Il racconto non lo dice ma noi immaginiamo che l’opera che apparve sulla parete-specchio fosse più bella e potente e luminosa di quella vera. Ma è indiscutibile che l’opera autentica resterà sempre quella reale, sulla parete di fronte. Il che non vuol dire che Bill Viola sia inferiore a Kiefer perché il primo fa video in cui la luminosità elettronica fa da brillante specchio a iconografie e capolavori piacevolmente riconoscibili e il secondo dipinge con non-colori opachi e pezzi di recupero rottamati. Il fatto è che, proprio perché la videoarte non è una categoria estetica assoluta, dipende sempre da come e perché la si usa.
La fortuna di Viola continuerà sino a che il pubblico sarà alla ricerca di una virtualità consolatoria, di un miraggio che sia nel contempo un sicuro rifugio; un pubblico gratificato dall’essere illusoriamente al centro della scena e sempre più abituato a una presa diretta dell’orrore e dell’estasi purché trasfigurata da una visionarietà digitale. L’uomo che ha reso popolare e spettacolare la forma d’arte sino a cinquant’anni fa più sgradita è l’analogo digitale di Marina Abramovic.
Ci offre le stesse cose, lei martire e lui demiurgo, entrambi elargitori di purificazioni e transverberazioni.
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