LAVORI LETTERARI

LA CAMERA DI...


Tanto tempo fa vivevo in una casa dov'era una camera che aveva vari nomi o meglio era stata posseduta da svariate persone, con i nomi più diversi.     <<La camera di Mario, di Giovanni, di ...>> così si esprimeva la padrona di casa, volendo indicare la camera che tanti anni prima le era stata sottratta per ospitare la lunga schiera di parenti che, sparsi nei vari paesi limitrofi, per adempiere al proprio dovere d'uomini dovevano trasferirsi in città.  La camera si affacciava su di un lungo corridoio, vicino alla porta d'ingresso, ed era davvero facile per chi entrava raggiungerla senza dover percorrere tutto il corridoio.   La camera era tenuta sempre in ordine e pulita, in modo che nessuno potesse definire sciattona la padrona di casa, ne valeva l'onore di donna. I bambini che capitavano in quella casa, quando passavano dinanzi a quella camera lo facevano con discrezione ed in silenzio, onde evitare disturbo al possessore del momento e, se ad aprire l'uscio di casa era la padrona, questa intimava sempre al silenzio, nel timore di arrecare disturbo a chi in quel momento stava riposando; anche se ad occhi aperti.  A noi era vietato accedervi anche quando la porta era aperta, segno evidente, questo, che l'ospite di turno era fuori stanza. L'avere a disposizione tutto l'appartamento, tranne quella camera che esercitava su di un'attrattiva particolare, ci faceva sentire un po' sfortunati.   La regola alla quale dovevamo attenerci limitava la nostra spontaneità e ci poneva in netta avversione verso i possessori di quella camera.   Questo è in breve il ricordo dell'infanzia e della mia prima giovinezza che ho impresso di più nella mente.   Diventato quasi un adulto, dovevo andare avanti nella vita e scacciare via i miei ricordi, doveva in altre parole lavorare; ero stato cresciuto per produrre.      Cominciò così ad attendere il lavoro.      Una mattina, fui svegliato ad un'ora insolita, con una gioiosa notizia: iniziare un'attività lavorativa, presentarsi al sig. Noci.      In un attimo fui pronto e, trovato fortunatamente un passaggio in auto, iniziai il mio viaggio verso una meta che mi era sembrata irraggiungibile da anni.       Erano quelli gli anni della maggiore disoccupazione e io, come gli altri miei coetanei, avevo assoluto bisogno di lavoro, visto che le mie condizioni economiche erano molto, ma molto precarie.      Avevo frequentato le scuole superiori ed aveva conseguito il diploma. Quell'anno gli studenti avevano occupato le aule scolastiche per far valere i propri diritti ed io avevo partecipato attivamente all'occupazione del mio istituto, passandoci anche la notte. Tutto questo aveva svalutato terribilmente il mio titolo di studio, ma certamente era solo una scusa e io lo sapeva benissimo; la realtà era un'altra, ma io preferiva tacere.     Appena giunti sulla strada principale, io ed il suo accompagnatore vedemmo automezzi pieni di barbabietole da zucchero che sfrecciavano sull'asfalto bagnato dall'umidità notturna, e subito ebbi il presentimento che quelle bietole mi avrebbero dato il pane.     Svoltammo dopo un po' a sinistra e, attraversato un passaggio a livello, cominciammo a vedere lunghe file d'automezzi carichi di barbabietole che sostavano dinanzi ai cancelli della fabbrica. Vicino ad ogni automezzo vi erano uomini che, tutti infreddoliti, discutevano sul lavoro che anche quell'anno  erano pronti ad eseguire.     Ero al mio primo lavoro, alla mia prima esperienza, e per caso la iniziavo, quella mattina, presso  uno dei tanti stabilimenti saccariferi che stavano sorgendo in quel paese. I primi giorni lavoravo in modo impacciato, vista la mia inesperienza, ma in pochi giorni entrai anch'io nell'ingranaggio produttivo e tutto mi sembrò più facile. Lavoravo molte ore al giorno e mi sentivo utile, cosa molto importante per me. Quando ebbi il mio primo stipendio rimasi strabiliato. Aperta la busta paga, con la gioia negli occhi, non mi stancavo di far scorrere i biglietti di banca fra le mani e di contarli in silenzio. Non mi montai la testa, anzi pensai che avrei dovuto avere molta cura di quei soldi che ricevevo per la mia partecipazione alla produzione dell'azienda. Imparai ben presto a tenere gli occhi chiusi e le orecchie sorde: obbedire, lavorare, produrre, fu il mio motto.     Anche se con gran sacrificio, cercai di adattarmi all'ambiente di lavoro, perché avevo bisogno di lavorare ed anche perché volevo farmi strada, e dal momento che era l'ultimo della compagnia, dovevo farmi ancora le ossa. Oltre al mio dovere, al mio lavoro, cercavo d'informarmi di tutto, interessandomi al mondo che mi circondava, così come avevo appreso dai miei insegnanti.      LA LIBERTÀ  E' PARTECIPAZIONE, ed io avevo una sfrenata voglia di partecipare a quegli eventi della mia vita che così intimamente s'intrecciavano con la vita di molti altri uomini.       Nei momenti liberi dal mio lavoro, mi soffermavo volentieri con gli operai  che, fra un morso ai panini ben imbottiti e un sorso di vino, discutevano dei loro problemi; mi fermavo a discutere con i camionisti che, anche se in modo sconnesso e volgare, conoscevano più di me le verità della società in cui vivevano.  Questo suo modo di vivere all'interno della fabbrica diede fastidio ai superiori che trovavano indegno che un impiegato conversasse con degli operai, ma io volevo vivere, volevo imparare e non mi accorsi che questo  avrebbe potuto portarmi al   licenziamento, cosa che puntualmente successe. La causa fu uno sciopero dei camionisti.     Schierarono i loro automezzi davanti ai cancelli della fabbrica e sbarrarono le strade d'accesso, accesero fuochi per riscaldarsi e di notte ospitarono anche alcune prostitute per rallegrare l'intera carovana. Non avevo mai visto niente di simile, cominciai a circolare fra i vari gruppetti di dimostranti, ascoltando, discutendo e cercando più di tutto di capire, di partecipare e di vivere.    <<Ragionie' sentite, ragionie' avete visto?>> così loro mi accoglievano ed io cercavo di ascoltare l'uno, di rispondere all'altro e quando facevo ritorno in ufficio, discutendo con i colleghi dicevo: <<Pero' anche loro hanno ragione!>>           I miei superiori non trovarono niente da ridire riguardo al mio comportamento, ma i colleghi d'ufficio, che un tempo amavano discorrere con me, scoprirono in me una pericolosità sociale e personale.    Lo sciopero ebbe termine ed in breve fu terminata, anche quell'anno, la campagna saccarifera e con la sua fine si tracciarono le linee  del mio avvenire. Tirate le somme, oltre ai cospicui guadagni, si addivenne alla mia condanna. Senza difesa, essendo un avventizio, fui classificato un sobillatore ed un eversore.    Presi coscienza anche di questa nuova realtà che quegli uomini gli presentavano, ma l'unica cosa che potei capire veramente fu che la mia ingenuità ed inesperienza mi avevano giocato un brutto scherzo.  Non mi fu mai detto il perché del mio licenziamento, lo avrei dovuto capire da solo.   Fu veramente pochissimo quello che capìì, ma quel poco mi bastò per accorgermi che quella camera che da bambino gli avevano evitato di visitare era piena di tutte quelle brutture e quelle incomprensioni che la vita possa racchiudere; quella camera ora si era improvvisamente aperta alla mia esplorazione e così il suo nome fu aggiunto a quelli dei suoi possessori, ed oggi, fra i Mario, i Giovanni, quando si parla di quella camera, qualcuno dice ancora: <<La camera di ...>>.