La vita che vorrei

Non dimentichiamoci di Elvis


Si chiamava Elvis, come l’eroe del rock. Era un bimbo di 6 anni. Veniva dall’isola di Capo Verde, ma sapeva già leggere e scrivere in italiano. Era educato, ordinato, molto pignolo, dicono le maestre. Amava il disegno e sognava di fare l’ingegnere. Lo hanno trovato per terra, in una stamberga di venti metri quadri, i polmoni intasati dalle esalazioni di un piccolo braciere. Da quando l’Enel aveva staccato la corrente che alimentava la stufetta elettrica, quel fuoco improvvisato e velenoso era diventato l’unica fonte di riscaldamento di tutta la famiglia. Non c’era altro calore, non c’era più cibo. Ed Elvis se n’è andato così. E' successo in una metropoli italiana, la notizia è di molti mesi fa, risale se non sbaglio a ottobre 2009, ma io non riesco a levarmela dalla testa. Non mi vergogno a scriverlo: mi fa sentire inutile, prima di tutto come essere umano. Ci riempiamo la bocca, io per primo, di parole tanto belle quanto, forse, superflue. E intanto accanto a noi, in un silenzio distratto, si consumano le disfatte degli umili e dei mansueti. Persone come la mamma di Elvis, che fino all’ultimo ha provato a raggranellare onestamente qualche soldo per la stufetta, andando in giro a fare le pulizie. Il Bene, con Elvis e la sua famiglia, ha perso di brutto. L’importante è rendersene conto, non distrarsi, non rassegnarsi, organizzare la riscossa. Anche per Elvis, che tornerà a trovarci ogni giorno, sulla faccia di tanti bambini uguali a lui.