La vita che vorrei

Non giocheranno più


Domingo ha solo metà della guancia destra, gli manca un dito, ha i polsi ricostruiti dalle cuciture del chirurgo, una orribile cicatrice marca il suo torace all'altezza del cuore, sulla spalla e sotto i capelli neri, lucenti, a caschetto, altre profonde cicatrici. “Erano le sei del mattino” racconta Domingo, 15 anni, un indio di Chinamequita (Salvador) “e vennero quelli della Guardia Nacional e di Orden (la milizia dei latifondisti). La mia casa è lontana dal paese. Mia madre stava in cucina, io con mio padre e i miei tre fratelli eravamo nel campo. Gli uomini gridarono il nome di mio padre e si misero a sparare con la mitraglietta. Lo vidi cadere assieme ai miei fratelli e scappai. Uno di Orden gridò "tappagli la bocca a quel nino" e mi corse dietro un uomo grande armato di machete. Il primo colpo me lo diede in testa, alzai le mani per difendermi e gli dicevo "per amor di Dio non mi ammazzare (...) “Al mattino quando mi vedo così brutto nello specchio, mia madre dice che prima ero bellino, però gli altri bambini non lo sanno e mi sfottono. Forse questa è la guerra”. A Sarajevo c'era una bambina che teneva un diario, scrivendo sotto gli spari in un quaderno a righe verdi. Ora quel quaderno a righe verdi è diventato un libro e l'autrice ha fatto il giro del mondo per promuovere il diario. "10 settembre. E' esplosa una granata nel parco. La mia amica Selene stava giocando lì accanto. Ha perso un rene. Nina invece è morta. Una scheggia della bomba l'ha colpita al cervello. Avevamo fatto l'asilo e un pezzo di elementari insieme. Era simpatica. Giocavamo spesso nel parco, questa guerra è disgustosa". Un mattino dell'aprile del 1965 in una frazione di Pleiku: 12 capanne vietnamite, una chiesa di bambù, la scuola prefabbricata, arrivò la morte. Sotto forma di un razzo sganciato per errore da un elicottero. I trenta bambini che riempivano la scuola rimasero uccisi, con la maestra. Uno solo, un solo bambino si salvò perché l'avevano mandato in chiesa a spolverare l'altare. Tra il fumo, l'odore blasfemo della carne e il pianto dei contadini superstiti, il bambino, quel bambino, girava come una falena impazzita raccogliendo i resti dei suoi compagni. Il sacerdote aveva esclamato: “Come faremo a ricomporli?”, e lui voleva aiutarlo. Sembrava avesse fatto una doccia di sangue. “Non ci riesco, non ci riesco”, gridava. Lo mandarono in un ospedale per bambini “disturbati” dalla guerra. A Bangkok. Due mesi dopo, un farmacista di Pleiku tradusse un brano della lettera che quel bambino aveva scritto al parroco: “Qui non è così fresco il clima come da voi ma mangio molto e sto bene, ascolto la radio e vado regolarmente a Messa. Mi hanno dato un pallottoliere. Se lo avessi avuto quel giorno avrei potuto calcolare subito quanti pezzi mancavano dei miei compagni di scuola”. C'è un libro bellissimo, “Non si trova cioccolata”: lettere, scritti di bambini jugoslavi. “La guerra: che cos'è? E' quando i bambini non possono giocare, non possono correre in libertà e andare in bicicletta. Le scuole non si sono riaperte, non possiamo giocare in libertà, non si ride, manca la cioccolata. Quando io chiedo a mia madre di comprarmi qualcosa, lei mi risponde “figlio mio, non ci sono soldi”. Questa è la guerra. E' guerra anche quando muoiono tante persone, quando i bambini restano orfani. Questa guerra è brutta e stupida. Non vedo l'ora che finisca. Amar Jahic, otto anni, via Matija Gubec, 16,C. Mostar”. Che almeno i bambini dormano sereni, in ogni angolo del mondo.