La vita che vorrei

Il 2011 che vorrei


Né avanti, né indietro, ma sempre più in fondo: il 2010 è stato l'anno delle sabbie mobili. Si è discusso sul nucleare, dimenticando che l'energia che ci manca, e di cui avremmo maggiormente bisogno, è la passione: quella che ci spinge prima a immaginare il futuro e poi a crearne uno. E invece, dopo l'entusiasmo per il "yes, we can" di Obama, siamo arrivati al "non si può", che è la frase preferita degli arresi, la gabbia contro cui si infrangono i sogni.Il 2010 si è chiuso con gli studenti in piazza e presto la piazza potrebbe toccare anche ai pensionati e persino agli occupati, perchè se gli stipendi stanno diventando cinesi, il costo della vita rimane inevitabilmente, e drammaticamente, europeo.Ci si può opporre a questa crisi epocale che ha cambiato la storia? No, temo. Ma ci si può convivere. Purchè tutti facciano qualcosa. A cominciare dalla nostra classe dirigente: tutta, a prescindere dal partito. Non chiedo, né pretendo miracoli, ma un minimo di dignità. E il coraggio di impegnarsi seriamente a favore dell'istruzione, della ricerca, della cultura e dell'ambiente, perchè la sopravvivenza di una specie è garantita, anche, dalla crescita dei giovani, non dall'immortalità degli anziani, con rispetto parlando.Dai potenti vorrei, per favore, meno prediche e più buoni esempi. Più decenza e senso della realtà. Questa classe dirigente, spesso, si vanta di assomigliare alla società anche nei difetti, ma è proprio questo che le ha tolto autorevolezza. Se il capufficio ruba e tocca il sedere alla segretaria, gli impiegati si sentiranno autorizzati a fare altrettanto: magari lo ammireranno, ma non lo rispetteranno più.Detto questo, però, sarebbe troppo comodo gettare tutto il peso del 2011 sulle spalle di chi ha responsabilità pubbliche. O di chi ha responsabilità, a tutti i livelli. Un po' tutti, dovremmo spazzare via dalla nostra testa il vittimismo e l'egocentrismo, in virtù dei quali ci riteniamo sempre, continuamente, vittime di ingiustizie e di torti, come se il mondo non avesse altro da fare che pensare a noi, salvo poi lamentarci proprio di questo: che il mondo non pensa abbastanza a noi. Dimenticandoci che siamo cittadini e non sudditi, che la vita dipende in larga misura dalle nostre scelte personali e non dalla politica, o dal datore di lavoro, o dal capufficio. Dimenticandoci che se una cosa è pubblica appartiene a tutti, non a nessuno. E che per ogni porta che si chiude c'è sempre una finestra che si sta aprendo da qualche altra parte. A volte basta smettere di piangere e asciugarsi gli occhi per riuscire a vederla.E nel 2011 vorrei vedere Yara riabbracciata alla sua famiglia. Con il suo cellulare dove sono memorizzati solo dieci numeri: un mondo piccolo di affetti seminati in profondità, perchè volere bene richiede tempo e troppi amici significa nessun amico. E' difficile proteggersi dal dolore che quotidianamente ci viene rovesciato addosso da storie come queste. Dopo un po' si fa come l'inviato dì guerra: metti il filtro alle emozioni. Certo, è un filtro che perde da tutte le parti: la lacrima ci scappa spesso e ancor più spesso la speranza. Ma la speranza non si sogna, si vive.