La vita che vorrei

Poveri voi

Ogni volta che incrocio un collega è un fiorire di lamentele: sul datore di lavoro, sul capufficio, sui colleghi, sulla cucina della mensa. Tutto questo mentre le imprese, non soltanto editoriali, sono in affanno. Alcune chiudono per asfissia e molte hanno tagliato (più di quanto avvenuto nella mia azienda) stipendi e organici onde sopravvivere. Non importa: certi signorini e altrettante signorine sono talmente bravi da essere convinti di essere affrancati dalla necessità di rispettare le leggi di mercato. E pensano di ricevere lo stipendio per diritto divino. Non sanno, o fingono di non sapere, che la loro è un'azienda simile a tutte le altre e che, avendo i conti disastrati, è già un miracolo che riesca a stare in piedi. E non sanno, o fingono di non sapere, che, piaccia o no, le speranze di non restare disoccupati sono legate a un maggior senso di responsabilità: bisogna stringersi all'azienda, e al lavoro in azienda, anziché dare sempre addosso a tutto e a tutti, in azienda. Altrimenti, se butta male, presto non si potrà neanche scioperare, perchè nel frattempo la controparte, cioè l'azienda, avrà portato i libri in tribunale: per chiudere. E molti miei cari colleghi scriveranno sui muri, gratis. O faranno marchette: si guadagna bene, dicono. Per quelli bravi, c'è una terza via: andarsene, prima che sia troppo tardi. E mettersi sul mercato: troveranno subito un posto, e anche ben retribuito, visto che sono così bravi. Mi domando cosa aspettano a farlo: sarebbe una liberazione, soprattutto per loro.