La vita che vorrei

Non è difficile volare. Basta volersi bene

 

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Meritate, gente, meritate

Post n°83 pubblicato il 30 Gennaio 2011 da ilmondocheiovorrei

Un lanciatore di baseball della squadra di Kansas City aveva ancora un anno di contratto da 12 milioni di dollari, ma vi ha rinunciato perché stava giocando male: gli sembrava di rubare lo stipendio e si è ritirato. Sai che sacrificio, per un campione miliardario: vero, ma a parte il fatto che anche per un miliardario 12 milioni di dollari non sono briciole, il punto non è la rinuncia, ma la motivazione.

Se tutti i manager scarsi, seguendo la stessa motivazione del lanciatore di baseball, rifiutassero la liquidazione con cui vengono accompagnati alla porta dalle aziende che hanno impoverito con le loro scelte sciagurate. Se i lavoratori assunti demotivati, raccomandati e sopravvalutati (tre caratteristiche talora riscontrabili nella stessa persona) presentassero le dimissioni con queste parole: "Trovo più giusto che la mia retribuzione vada a quel precario che sgobba il triplo di me". Se, per farla breve, ogni uomo, in ogni circostanza della vita, per prima cosa si guardasse allo specchio con obiettività e ne traesse le conseguenze naturali, anziché sentirsi sempre un fenomeno incompreso e la vittima di qualche complotto (del collega di lavoro, del capufficio, del datore di lavoro, della società, della gente), forse il mondo cesserebbe di essere quella sublime schifezza che oggi è. E che viene accettata, se non addirittura condivisa, all’insegna del “massì, chi se ne frega” “tanto è lo stesso”.

 
 
 

Yes, they surf

Post n°82 pubblicato il 23 Gennaio 2011 da ilmondocheiovorrei

"Hai visto come ha imparato bene?" mi chiede Dave, mentre osservo Saul surfare tra le onde che sfiorano la spiaggia di San Diego, in California. La moglie di Saul, Sarah, che tra poche settimane partorirà il loro primo bambino, è entusiasta: "E' bravissimo". Non capisco: Saul è un ragazzone di poco più di 20 anni, che problemi dovrebbe avere?" Saul, mi spiega Dave "è il sergente Saul Martinez, ha 23 anni e ha perso le gambe in Iraq a maggio dell'anno scorso quando una bomba artigianale è esplosa sotto la sua jeep". Dave Donaldson è uno specialista in terapie ricreative e si occupa di Saul e di un gruppo di soldati in cura al Naval Medical Center di San Diego. "Domenica scorsa" racconta Dave "Saul ha imparato a surfare e con una muta verde, un costume azzurro e rosso pieno di stelle e due nuove protesi fatte apposta per l'acqua, è planato sulle onde del Pacifico". Dave porta i suoi pazienti non solo tra le onde ma anche in canoa, ad arrampicare sulle pareti di roccia, a giocare a golf, a sciare e perfino in cima al Mount Whitney (4421 metri), la più alta vetta degli Stati Uniti se si esclude l'Alaska. Tra i suoi ragazzi c'è chi ha perso le gambe o le braccia, chi in guerra è diventato cieco, sordo, mentalmente ritardato, chi ha continue allucinazioni o soffre di depressione. "Il divertimento - sottolinea - fa parte della cura: la filosofia a cui ci ispiriamo parte dall'idea che il gioco sia un passaggio fondamentale della riabilitazione, come lo è delle nostre vite".

Dave fa parte di un equipe di 40 persone che studia e applica protesi d'avanguardia, insegna a camminare con le gambe di titanio su ogni tipo di superficie, ad arrampicare sulla parete artificiale che hanno messo nel cortile, ricostruisce il rapporto con l'acqua nella piscina e poi usa tutte le risorse della California - montagne, deserto e Oceano - come palestra e le tecnologie per creare realtà virtuali che aiutino a ricreare l'equilibrio e il senso degli spazi e del movimento. In questo momento in cura ci sono 40 amputati e un'ottantina di soldati che hanno danni cerebrali o soffrono di quella patologia che viene chiamata stress post-traumatico. Dave non parla della guerra, come non ne parlano Saul e sua moglie, sa solo che oggi l'America deve affrontare il problema di quegli oltre centomila ragazzi che sono tornati a casa ben diversi da come erano partiti. C'è la paura di creare una nuova generazione perduta come fu ai tempi del Vietnam, anche perché i numeri sono spaventosi: oltre 50.000 reduci che avranno handicap permanenti dovuti a lesioni al collo e alla schiena e 75mila a cui è stato diagnosticato il PSTD (Post traumatic stress disorder). In Vietnam i morti furono 58 mila e i feriti 150 mila, oggi la proporzione è completamente diversa, mi spiega Dave, i feriti gravi sono almeno dieci volte di più. Perché il tasso di sopravvivenza di chi viene colpito è del 92 per cento mentre in Vietnam era del 76 per cento.

"Non tutti ce la fanno  mi dice Dave "ma io considero la mia missione compiuta quando riescono a camminare per un miglio e a stare in piedi per otto ore; poi c'è la ricostruzione delle facoltà cognitive, molti devono re-imparare le sequenze dei gesti, la capacità di memorizzare e perfino a chiedere aiuto; infine c'è la parte psicologica e qui abbiamo pensato al surf. Il primo passo avviene in spiaggia, quando i ragazzi si mettono in costume e mostrano in pubblico i segni che hanno sul corpo. E' un passaggio difficilissimo ma è l'unico modo per recuperare una socialità e imparare a convivere con le domande e gli sguardi delle persone. Poi c'è l'emozione di farsi portare dalle onde, sentire la forza dell'Oceano, quando escono dall'acqua hanno tutti un grande senso di realizzazione e di autostima. Ho capito che era la strada giusta quando in acqua ho visto sorridere due ragazzi a cui la guerra ha lasciato solo il torso. Era la prima volta che avevano una sensazione positiva".

Non appena la notizia che i reduci in riabilitazione facevano surf ha cominciato a circolare, Dave è stato contattato da un gruppo di veterani del Vietnam tutti ormai con i capelli bianchi. Gli hanno raccontato che cavalcavano le onde prima di andare in guerra, negli Anni Sessanta, poi non lo hanno fatto mai più incollati alle loro sedie a rotelle. Hanno chiesto se potevano provare anche loro e ora i reduci delle guerre americane hanno cominciato a surfare insieme, quasi ogni fine settimana. "Se ritorni sabato te li faccio conoscere e se ti va puoi imparare a surfare anche tu: ti insegneranno loro come si fa". Volentieri, ma parto prima, sarà per la prossima volta, gli ho risposto. Peccato, mi sarebbe piaciuto.

 

 
 
 

Il ragazzo pastore

Post n°81 pubblicato il 17 Gennaio 2011 da ilmondocheiovorrei

Non si è perso, Andrea. Ma per non perdersi ha rinunciato a tutto quello che era previsto per lui: l’università, gli amici con le moto, il bianchino al bar, la morosa da portare a spasso il sabato sera, le notti in discoteca, le vacanze, una vita borghese. Ha rinunciato ai sogni preconfezionati e alla velocità del suo tempo.

Andrea, 18 anni, figlio di un chirurgo e di una insegnante di Biella, da due anni ha scelto di fare il pastore: "Mi piacciono le bestie, stare all’aria, prendermi cura di loro. Andare a cercare sempre nuovi prati per portarle a pascolare, anche se non è facile. Ma quando finisce la giornata e vedo che le mie pecore hanno la pancia piena, sono felice anche io". Perché la felicità può essere davvero un’idea semplice.

D’inverno questo giovane pastore ramingo dorme dentro una vecchia roulotte con una stufetta, niente televisione: "Guardo il telegiornale quando torno a casa dai genitori. Magari sto anche mezz’ora davanti al computer. Facebook mi piace, ma posso farne a meno".

Andrea a scuola era un disastro. "A parte i voti, sentivo che non poteva essere la mia vita. Ero sempre stanco, insofferente. Il banco mi sembrava una prigione. Non era per me. Quando mio nonno mi portava in montagna, invece, stavo molto meglio. Lui mi diceva: "La senti l’aria?". Io la sentivo. Ho capito così quello che volevo fare".

Il primo vero sponsor del pastore Andrea è stato suo padre. "Facevo il secondo anno di Agraria. Alla fine della scuola, gli ho detto che volevo cercare qualcuno che mi insegnasse a fare questo mestiere. Lui mi ha detto di provare. Sono andato in montagna con un vecchio pastore: non è che parlasse molto, ma il mestiere si ruba, non si insegna". Al ritorno Andrea aveva deciso: "Ci sono state discussioni in famiglia, come è normale. Mio padre mi ha chiesto tante volte se fossi sicuro. Alla fine mi ha detto: “A noi va bene, se tu sei felice". Sono andato con lui a comprare le prime pecore".

Oggi Andrea ha 300 capi, insufficienti per vivere, ma abbastanza per sperare un giorno di farcela: «Devo arrivare a 500, avere più contributi, produrre più lana. Riuscire presto a pagarmi le spese: il fieno, il granturco, la tosa". Una giornata al pascolo può fare bene. Lunghe ore di attesa da un prato all’altro. Nessun rumore, a parte le pecore che brucano e belano, mentre il cane Birbàn controlla che ci siano tutte. Andrea sta seduto appoggiato a un bastone: "È bello vedere come cambiano le giornate - dice - ognuna è diversa". Cosa ti manca di più della tua vita di prima? "Il tempo libero. Non dico le vacanze, ma mezza giornata per andare con gli amici, magari. Però le pecore non aspettano". Ci tiene molto alle sue pecore "Non so se potrò farmi una famiglia. Per stare insieme in questa vita bisogna fare tante rinunce".

"Le ambizioni di ogni genitore sono diverse. Non dico che speravo che facesse il chirurgo, ma magari un lavoro in cui si realizzasse di più" dice il padre di Andrea "Però Andrea a scuola soffriva troppo. E mi è venuto in mente che Mario Rigoni Stern aveva la terza media. Non so se in futuro ci rinfaccerà di non aver insistito di più per farlo studiare. Ma so che un uomo può trovare la sua morale in mezzo ai boschi come nel centro di Torino. Intanto gli stiamo con il fiato sul collo. La cosa più importante è che Andrea impari il rispetto".

Il rispetto è nel silenzio. Nelle carezze per Birbàn. Nei fischi che richiamano il gregge verso il recinto, quando il pomeriggio diventa freddo e buio. In giro che cosa dicono di te? Andrea sorride ancora: "I commenti sono vari. Molto mi criticano, dicono: “Ma cosa ci fa il figlio del dottore dietro alle pecore?”. Cerca un senso, come tutti, il suo.

 
 
 

Il 2011 che vorrei

Post n°80 pubblicato il 31 Dicembre 2010 da ilmondocheiovorrei

Né avanti, né indietro, ma sempre più in fondo: il 2010 è stato l'anno delle sabbie mobili. Si è discusso sul nucleare, dimenticando che l'energia che ci manca, e di cui avremmo maggiormente bisogno, è la passione: quella che ci spinge prima a immaginare il futuro e poi a crearne uno. E invece, dopo l'entusiasmo per il "yes, we can" di Obama, siamo arrivati al "non si può", che è la frase preferita degli arresi, la gabbia contro cui si infrangono i sogni.

Il 2010 si è chiuso con gli studenti in piazza e presto la piazza potrebbe toccare anche ai pensionati e persino agli occupati, perchè se gli stipendi stanno diventando cinesi, il costo della vita rimane inevitabilmente, e drammaticamente, europeo.

Ci si può opporre a questa crisi epocale che ha cambiato la storia? No, temo. Ma ci si può convivere. Purchè tutti facciano qualcosa. A cominciare dalla nostra classe dirigente: tutta, a prescindere dal partito. Non chiedo, né pretendo miracoli, ma un minimo di dignità. E il coraggio di impegnarsi seriamente a favore dell'istruzione, della ricerca, della cultura e dell'ambiente, perchè la sopravvivenza di una specie è garantita, anche, dalla crescita dei giovani, non dall'immortalità degli anziani, con rispetto parlando.

Dai potenti vorrei, per favore, meno prediche e più buoni esempi. Più decenza e senso della realtà. Questa classe dirigente, spesso, si vanta di assomigliare alla società anche nei difetti, ma è proprio questo che le ha tolto autorevolezza. Se il capufficio ruba e tocca il sedere alla segretaria, gli impiegati si sentiranno autorizzati a fare altrettanto: magari lo ammireranno, ma non lo rispetteranno più.

Detto questo, però, sarebbe troppo comodo gettare tutto il peso del 2011 sulle spalle di chi ha responsabilità pubbliche. O di chi ha responsabilità, a tutti i livelli. Un po' tutti, dovremmo spazzare via dalla nostra testa il vittimismo e l'egocentrismo, in virtù dei quali ci riteniamo sempre, continuamente, vittime di ingiustizie e di torti, come se il mondo non avesse altro da fare che pensare a noi, salvo poi lamentarci proprio di questo: che il mondo non pensa abbastanza a noi. Dimenticandoci che siamo cittadini e non sudditi, che la vita dipende in larga misura dalle nostre scelte personali e non dalla politica, o dal datore di lavoro, o dal capufficio. Dimenticandoci che se una cosa è pubblica appartiene a tutti, non a nessuno. E che per ogni porta che si chiude c'è sempre una finestra che si sta aprendo da qualche altra parte. A volte basta smettere di piangere e asciugarsi gli occhi per riuscire a vederla.

E nel 2011 vorrei vedere Yara riabbracciata alla sua famiglia. Con il suo cellulare dove sono memorizzati solo dieci numeri: un mondo piccolo di affetti seminati in profondità, perchè volere bene richiede tempo e troppi amici significa nessun amico. E' difficile proteggersi dal dolore che quotidianamente ci viene rovesciato addosso da storie come queste. Dopo un po' si fa come l'inviato dì guerra: metti il filtro alle emozioni. Certo, è un filtro che perde da tutte le parti: la lacrima ci scappa spesso e ancor più spesso la speranza. Ma la speranza non si sogna, si vive.

 
 
 

Non giocheranno più

Post n°79 pubblicato il 24 Dicembre 2010 da ilmondocheiovorrei

Domingo ha solo metà della guancia destra, gli manca un dito, ha i polsi ricostruiti dalle cuciture del chirurgo, una orribile cicatrice marca il suo torace all'altezza del cuore, sulla spalla e sotto i capelli neri, lucenti, a caschetto, altre profonde cicatrici.

“Erano le sei del mattino” racconta Domingo, 15 anni, un indio di Chinamequita (Salvador) “e vennero quelli della Guardia Nacional e di Orden (la milizia dei latifondisti). La mia casa è lontana dal paese. Mia madre stava in cucina, io con mio padre e i miei tre fratelli eravamo nel campo. Gli uomini gridarono il nome di mio padre e si misero a sparare con la mitraglietta. Lo vidi cadere assieme ai miei fratelli e scappai. Uno di Orden gridò "tappagli la bocca a quel nino" e mi corse dietro un uomo grande armato di machete. Il primo colpo me lo diede in testa, alzai le mani per difendermi e gli dicevo "per amor di Dio non mi ammazzare (...) “Al mattino quando mi vedo così brutto nello specchio, mia madre dice che prima ero bellino, però gli altri bambini non lo sanno e mi sfottono. Forse questa è la guerra”.

A Sarajevo c'era una bambina che teneva un diario, scrivendo sotto gli spari in un quaderno a righe verdi. Ora quel quaderno a righe verdi è diventato un libro e l'autrice ha fatto il giro del mondo per promuovere il diario. "10 settembre. E' esplosa una granata nel parco. La mia amica Selene stava giocando lì accanto. Ha perso un rene. Nina invece è morta. Una scheggia della bomba l'ha colpita al cervello. Avevamo fatto l'asilo e un pezzo di elementari insieme. Era simpatica. Giocavamo spesso nel parco, questa guerra è disgustosa".

Un mattino dell'aprile del 1965 in una frazione di Pleiku: 12 capanne vietnamite, una chiesa di bambù, la scuola prefabbricata, arrivò la morte. Sotto forma di un razzo sganciato per errore da un elicottero. I trenta bambini che riempivano la scuola rimasero uccisi, con la maestra. Uno solo, un solo bambino si salvò perché l'avevano mandato in chiesa a spolverare l'altare. Tra il fumo, l'odore blasfemo della carne e il pianto dei contadini superstiti, il bambino, quel bambino, girava come una falena impazzita raccogliendo i resti dei suoi compagni. Il sacerdote aveva esclamato: “Come faremo a ricomporli?”, e lui voleva aiutarlo. Sembrava avesse fatto una doccia di sangue. “Non ci riesco, non ci riesco”, gridava. Lo mandarono in un ospedale per bambini “disturbati” dalla guerra. A Bangkok. Due mesi dopo, un farmacista di Pleiku tradusse un brano della lettera che quel bambino aveva scritto al parroco: “Qui non è così fresco il clima come da voi ma mangio molto e sto bene, ascolto la radio e vado regolarmente a Messa. Mi hanno dato un pallottoliere. Se lo avessi avuto quel giorno avrei potuto calcolare subito quanti pezzi mancavano dei miei compagni di scuola”.

C'è un libro bellissimo, “Non si trova cioccolata”: lettere, scritti di bambini jugoslavi. “La guerra: che cos'è? E' quando i bambini non possono giocare, non possono correre in libertà e andare in bicicletta. Le scuole non si sono riaperte, non possiamo giocare in libertà, non si ride, manca la cioccolata. Quando io chiedo a mia madre di comprarmi qualcosa, lei mi risponde “figlio mio, non ci sono soldi”. Questa è la guerra. E' guerra anche quando muoiono tante persone, quando i bambini restano orfani. Questa guerra è brutta e stupida. Non vedo l'ora che finisca. Amar Jahic, otto anni, via Matija Gubec, 16,C. Mostar”.

Che almeno i bambini dormano sereni, in ogni angolo del mondo.

 
 
 
 
 

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Un blog di: ilmondocheiovorrei
Data di creazione: 06/01/2010
 

 

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