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IL VELO - LA MINIGONNA E IL CONTROLLO DEI CORPI


Non facciamo confusione: la legge anti-burqa non è "delirio eurocentrico"Il velo, la minigonna e il "controllo dei corpi"di Giuseppe Cecere* Mentre il nostro Parlamento  si appresta a discutere di velo islamico (o presunto tale) nelle sue varie declinazioni, sul web esplode il caso NiqaBitch: le due studentesse francesi – una delle quali si dichiara musulmana – che hanno attraversato il centro di Parigi sfoggiando un austero niqab (velo integrale che lascia scoperti soltanto gli occhi) su vertiginose minigonne “integrali”, in un surreale défilé di protesta contro le recentissime leggi anti-burqa.  Un gesto simpaticamente “futurista” per una causa malinconicamente “passatista”. Ironiche nella mise e anche nel nome prescelto (irriverente fusione dell’arabo niqab e dell’inglese bitch ..qualcosa che potremmo tradurre, nobilitando un po’, come escort a velo), le NiqaBitch  si prendono invece molto sul serio nella rivendicazione del loro gesto, pubblicata nel sito Rue89: «Abbiamo scelto – si legge – di deviare la rappresentazione classica che si ha del niqab. Mettere un burqa era troppo semplice, così ci siamo poste la domanda: quale sarebbe la reazione delle autorità di fronte a donne che indossano burqa e minigonna?». Una terapia d’urto volta non «ad attaccare o degradare l’immagine degli integralisti islamici» ma piuttosto a «interpellare gli eletti della Repubblica»,  rei di aver approvato una legge «contraria alla Costituzione».  L’accostamento tra velo integrale e minigonna non è esplicitamente motivato, ma suggerisce chiaramente un parallelismo, una sorta di equazione simbolica, tra i due termini, anche se non è dato coglierne il segno con certezza: simboli entrambi di dominio maschile sul corpo delle donne o entrambe manifestazioni di autodeterminazione femminile, nella piena libertà per ogni donna di gestire il proprio corpo e la “rappresentazione” di esso? In ogni caso, quello che  le NiqaBitch affermano con chiarezza è che non spetta allo Stato occuparsi del corpo – e dell’abbigliamento – delle donne: questa legge, dietro la «sacrosanta bandiera femminista» agitata dai suoi promotori, nasconderebbe una «demenziale» volontà della Repubblica di «riprendere il controllo sul corpo dei propri cittadini», oltre all’intento di «stigmatizzare una comunità». Tesi intrigante, ma fuorviante, come fuorviante è l’equazione impossibile tra due simboli di segno opposto: se nella simultaneità di una rappresentazione surrealista, l’incontro (non)-casuale di un niqab e di una minigonna in una via di Parigi sembra svelare inediti orizzonti di senso, una semplice riflessione sui contesti storici e culturali in cui quegli “oggetti” sono venuti al mondo mette a nudo tutta l’artificiosità di una simile equazione.Il velo integrale è nato in un contesto patriarcale, come espressione di una concezione “proprietaria” del corpo femminile da parte del potere maschile – una concezione che l’Islam non ha certo inventato, perché caratteristica di tutte le società storiche, ma che la giurisprudenza islamica, nelle sue espressioni maggioritarie, non ha contrastato, anzi integrandola e spesso “santificandola” come presunta espressione della Legge divina. La minigonna è invece nata nella tempestosa Inghilterra degli anni Sessanta, nel pieno dei movimenti per la liberazione femminile e la rivoluzione sessuale, come manifestazione della volontà delle donne di dare espressione al proprio corpo, inteso come luogo dell’identità, della libertà, della relazione tra l’io e il mondo.  Questa concezione del corpo è invece radicalmente negata dal velo integrale: che spezza la relazione tra l’io e il mondo, annulla la dimensione pubblica dell’identità e dunque comprime inevitabilmente la libertà della persona, anche quando non è il frutto di una coercizione esplicita  ma di una scelta sentita come “libera” dalla diretta interessata. In questo senso, la legislazione francese anti-burqa non esprime l’aspirazione al “controllo dei corpi” e al “monopolio della violenza fisica” sui cittadini da parte dello Stato moderno, come teorizzano le NiqaBitch citando, inopportunamente, Max Weber,  ma la volontà – e il dovere – della politica e delle istituzioni di promuovere nei cittadini la coscienza della libertà, anche quando tale coscienza sia oscurata dal condizionamento, più o meno consapevole, di tradizioni percepite come sacre e inviolabili. Quanto poi alla presunta volontà di “stigmatizzare una comunità”, andrebbe precisato di quale comunità si tratti: non certo “la” comunità musulmana, che (intesa al singolare) non esiste, e se esistesse non troverebbe certo la sua unità nel burqa o nel niqab, diffusi solo in limitati settori del vasto e complesso “continente culturale” islamico. L’Islam non è “uno” ma intimamente e creativamente plurale,  pur nella condivisione di alcuni riferimenti comuni a tutti i credenti:  in primo luogo, ovviamente, il Corano, che però non contiene alcuna prescrizione in merito al velo integrale. Dalla fine dell’800, il velo è anzi diventato un simbolo della lotta, interna al campo di forze dell’Islam, tra correnti liberali e correnti fondamentaliste, dalle tesi del musulmano riformista Qasim Amin  (1863-1908) che propugnava il sufur (“rimozione del velo”) come rottura della segregazione femminile e come simbolico superamento dei “veli” che ostacolavano l’incontro tra Islam e  modernità, fino alle recenti condanne del velo integrale, come pratica non-islamica, da parte delle autorità religiose di al-Azhar, massimo centro di studi dell’Islam sunnita. Il velo è anche al centro delle lotte delle prime femministe  arabo-musulmane contro  il tabù più profondo e inconsapevole della società: l’alienazione delle donne dal proprio corpo.  Il nesso tra liberazione del corpo e libertà delle donne è già presente, con la forza radicale dei simboli, nella straordinaria esperienza di Doria Shafiq, prima donna egiziana ad ottenere un dottorato alla Sorbona, e insieme prima vincitrice di un concorso di bellezza in Egitto. Più esplicitamente, esso è proclamato di fronte al mondo nel gesto – questo sì  “futurista” – compiuto da Hoda Sha‘rawi nel 1923 alla stazione del Cairo, di ritorno dal congresso femminista mondiale di Roma (ne resta una curiosa immagine in cui le delegate egiziane, rigorosamente velate ma presumibilmente sorridenti, simpatizzano con una femminista italiana in camicia nera, protesa in un entusiastico saluto romano). Scendendo dal treno con le sue compagne, la fondatrice dell’Unione Femminista Egiziana avverte la presenza dei fotografi: con intuizione fulminea, si toglie il velo dal viso, subito seguita dalle altre delegate, sollevando un’ondata di contrastanti emozioni in tutto il mondo musulmano. Almeno nei casi citati non si potrà parlare di quel «delirio di eurocentrismo narcisista»  che Randa Ghazy, intervenendo su laStampa.it  a supporto delle NiqaBitch, individua come causa principe delle tendenze “anti-burqa”  a Nord del Mediterraneo.  Il problema centrale, però, è un altro: se fosse effettivamente una prescrizione religiosa, o l’espressione di una specificità culturale, il velo integrale andrebbe necessariamente accolto nell’ordinamento di uno Stato laico? Né la libertà religiosa né il riconoscimento di una specificità culturale possono mai giustificare comportamenti in contrasto con le leggi e con i valori costituzionali.  La tendenza, pur presente in diverse correnti del pensiero giuridico,  ad ammettere “eccezioni culturalmente motivate” al rispetto delle leggi (ammettendo ad esempio la poligamia o il delitto d’onore per particolari categorie di individui) mina l’uguaglianza dei cittadino di fronte alla legge e rischia la deriva di un inconsapevole, ma non meno terribile, “razzismo giuridico”. Voler evitare tutto questo è forse una forma di “delirio eurocentrico”? Non pare ispirato a “delirio eurocentrico”, in verità,  neanche il parere espresso dal Governo italiano davanti alla Commissione affari costituzionali della Camera,  dove sono approdate varie proposte di legge sul velo integrale. Sulla base delle valutazioni del Comitato per l’Islam italiano , commissione di saggi – metà dei quali musulmani – costituita presso il Ministero degli Interni, il Governo invita a “deconfessionalizzare” l’intervento legislativo, suggerendo di vietare esplicitamente il burqa e il niqab, essenzialmente per ragioni di sicurezza pubblica, ma di non fare riferimento all’Islam, poiché «sulla base di una ricostruzione storica e di una argomentazione esegetica – secondo il Comitato –  non si può affermare che tali indumenti abbiano origine coranica». Un parere di grande equilibrio, che favorirà probabilmente una soluzione legislativa rapida e  condivisa. Ma la questione, per le ragioni che abbiamo appena esposto, non si può ridurre a un tema di sicurezza pubblica. È una questione di libertà, per le donne e per la società nel suo complesso. È, dunque, una grande questione di cultura politica. Che investe la nozione stessa di laicità, di società aperta, di convivenza tra diversi. È in causa, innanzitutto, una  visione innovativa delle politiche migratorie, in cui il divieto del velo integrale  diventi simbolo non di rifiuto ma di integrazione, di progressiva inclusione della persona immigrata nel perimetro della polis, in una dialettica che accolga e valorizzi le diversità ma respinga gli aspetti che risultino incompatibili con il tesssuto delle reciproche libertà che della polis è il fondamento stesso. Occorre esprimere un “pluralismo esigente”, che respinga la presunzione di fagocitare l’altro ma combatta la tentazione di sciogliere la società in una nebulosa indistinta di “specificità culturali”, ciascuna delle quali aspiri a un suo riconoscimento giuridico fino al rischio di collasso dell’uguaglianza tra i cittadini.  Perché la laicità non sia uno spazio vuoto, ma uno spazio di libertà condivisa. *Ricercatore associato presso l’IFAO (Institut Français d’Archéologie Orientale) del Cairo – sezione di studi arabi e islamici11 ottobre 2010