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Acquerello: Rimini Ponte di Tiberio

 


 

Acquerello, donna allo specchio

 

 

I TRULLI DEL SALENTO »

Viaggio per Lecce.

Post n°1 pubblicato il 02 Settembre 2007 da MANUGIA95

E' facile: ho sposato un leccese, anzi un racalino e... volente o nolente tanti anni fa mi sono dovuta tuffare nel profondo sud. Mano mano che da Rimini si scendeva, per magia l'aspetto delle cartoline (non virtuali) osservabili dal finestrino-televisione cambiavano velocemente. Prati verdi, casolari con i tetti a punta, colline marchigiane trapanate da gallerie cortissime. E poi, lungo la striscia di mare adriatica, infinita e montona come quella grigia dell'autostrada, arrivavano immagini di sterminati campi, del Gargano che si tuffa in una cortina fumosa verso il mare, le brulle e desertiche campagne foggiane. Ed ecco maestosi i trulli scuri del barese, col tetto tondo e i secolari ulivi i cui tronchi assomigliavano a corpi abbracciati nella passione, e dopo, il grande momento dell'uscita dall'autostrada di Bari, verso l'nfinito, avanti, ancora, e ancora, ancora. Ulivi e ancora ulivi, sassi che incorniciano campi di terra rossastra ancora con dentro l'anima africana del continente unico Pangea. Le case bianche, i trulli con i piatti solai fatti pietra dopo pietra come i lego. Lecce! Ammasso di case antiche e moderne in tutti i toni dal beige al marrone e... verso Gallipoli: dall'alto un mare nuovo e lucente per continuare ancora nell'infinita campagna pugliese del tacco d'Italia. Bianchi i paesi e le strade, i sassi con mille sfumature di rosa, le donne vestite di nero, sedute a chiacchierare come facevano da noi le nostre nonne cinquant'anni prima. Ma in che mondo mi trovavo? Dove ero capitata? Era stato un viaggio nel tempo e nello spazio!

Da Wikipedia:

La "Pazzia" dei Racalini [modifica]

Il nomignolo di “Pazzi”, affibbiato dai loro vicini a causa del “trattamento” che avevano riservato a San Nicola Pellegrino, possiamo dire che ad essi non è che sia tanto dispiaciuto; anzi, quando con una decisione imprevista, perché poco usuale, riescono a trarsi fuori da qualche impiccio, è con un certo orgoglio che attribuiscono alla loro proverbiale pazzia il buon esito dell’operazione. Il fatto è che i Racalini hanno sempre inteso questa “pazzia” come intelligenza diversificante dal senso comune che non sempre è “buon” senso, o anche come “geniaccio” che, nonostante le apparenze, fa intuire il segreto delle cose ed operante nel senso voluto. Certo, molte volte questa vivacità della ragione si manifesta in modo bizzarro: sono ancora di ieri e baruffe causate dai giovani che per dare sfogo alla loro esuberanza mettevano ai piedi calzini diversi fra loro nel colore per attaccare briga col malcapitato che avesse fatto notare quella stranezza, subito assalito per non essersi “impicciato dei fatti suoi”. Era anche questo un modo di manifestarsi della “pazzia racalina”, quello più gaglioffesco e scapestrato, non certo il più esemplare. La pazzia che i Racalini hanno sempre apprezzato è quella che detta decisioni che sorprendono per la estemporaneità e sortiscono effetti positivi, diversamente irraggiungibili; quella che ha fatto nascere il proverbio in base al quale: “a ogni casa nciole nnu pacciu” (in ogni famiglia è necessario ci sia un pazzo).

Si racconta che...un giorno molto lontano, nel paese si fremeva di paura perché un agguerrito manipolo di Saraceni era stato segnalato in avvicinamento e non si vedeva come ci si sarebbe potuti salvare, dal momento che le forze di difesa non erano adeguate all’incombenza. Il buon senso suggeriva di trattare la resa: si sarebbero consegnate ai corsari tutte le vettovaglie che il paese poteva offrire; questo avrebbe significato nuova miseria e fame, ma avrebbe forse permesso di salvare gli uomini e le case. Ci si orientò verso questa decisione ed il più giovane gagliardo propose di affidare a lui questa l’incarico di trattare con i nemici; gli atri si chiusero nel paese e non si fecero notare sulle mura. La proposta venne accolta volentieri dagli altri abitanti e colui che l’aveva avanzata si fece aprire la porta della ”Terra” e se ne uscì. Allontanandosi un poco, si sedette su di un masso e con volto e atteggiamento dimesso e sconsolato, attese l’arrivo dei predoni. Non tardò molto ed essi apparvero sulla via, rimanendo subito sconcertai nel vedersi attesi da un uomo che, seppur solo e senza armi, non mostrava di temerli. Gli si avvicinarono e gli chiesero chi era, e perché non era corso a nascondersi come gli altri, e perché era in preda alla tristezza, invece che della paura. Col fare sconsolato di un orgoglio ferito a morte raccontò che non di sua spontanea volontà egli era fuori dalle mura; erano stati i suoi a cacciarlo dal paese, perché, per la scarsa statura, non lo avevano considerato degno di combattere al loro fianco; ora egli si voleva vendicare dell’oltraggio subito: che essi stessero attenti, gli abitanti del luogo non erano tappati in casa terrorizzati, ma avevano preparato un agguato al quale gli assalitori non sarebbero scampati. Quello non era un paese come tanti altri, era stato fondato da Ercole e gli abitanti, suoi discendenti, erano tutti di proporzioni gigantesche. Mentre diceva queste parole egli si levava in piedi e i “turchi” esterrefatti, videro che i più alti di loro arrivavano appena al petto di questo “piccoletto”. Se costui era il debole dei nemici, gli altri dovevano essere dei giganti con i quali non era consigliabile venire alle mani. Si guardarono fra loro negli occhi e decisero di puntare altrove con la loro scorreria. Per quella volta il paese era salvo, e non erano state le armi a difenderlo, ma la folle intraprendenza e la “pazzia” , appunto, di un “pazzo di Racale”.

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