mi dispiace per voi

Parma e Peggy


     Questa è la storia di un’amicizia, la migliore fra quelle che mi vengono in mente per ricordare un bell’esempio di amicizia.     Vidi per la prima volta Parma nelle mani di un gruppo di ragazzini mentre cercavano di piazzarla ai passanti, nell’atrio della stazione di Parma.     Sebbene il suo faccino fosse accattivante e decisamente carino, passai oltre senza indugi, pensando che Veronica, il cane di casa, non avesse mai visto un gatto e che la fine più probabile dello stesso non sarebbe stata molto diversa da quella (ingrata) di un peluche chi gli avevo regalato. Quando però ad uno dei teneri momentanei proprietari venne in mente di testare la resistenza a trazione della coda, svanì ogni mio dubbio: pochi minuti dopo la gattina viaggiava da clandestina tascabile in un convoglio di coda del “Regionale” delle 19.30.     Con Veronica fu amore a prima vista, subito condito da abbracci ed effusioni variamente assortite che durarono finchè le crescenti dimensioni del cane lo permisero.     Incontrai Peggy mentre vagava disperata nel parcheggio di un centro commerciale che, come capita frequentemente ad agosto, era quasi più frequentato da animali abbandonati che da vetture in sosta.     L’avere avuto, di sicuro, fra i suoi antenati, un micio persiano, mi suggeriva il nome “Persia” ma a qualcuno in famiglia piaceva di più “Gigia”. Peggy mi sembrò un accettabile compromesso.      Anche in questo caso fu amore istantaneo. Le due gattine, casualmente coetanee e da subito inseparabili, riempirono casa come non avrebbe, meglio, potuto fare nemmeno un uragano tropicale trovando l’uscio aperto.     Raccontare un anno passato insieme, splendido e breve, tremendamente breve nei miei rimpianti, trasformerebbe questo post in un prolisso romanzo e non mi sembra il caso. Ma non potrei giustificare la premessa senza raccontarvi come, a breve distanza, si salvarono, a vicenda, la vita.     Una sera, rientrando, vedo Parma distesa, apparentemente esanime, sulla strada davanti casa. Mi rincuorò il sentirla calda anche se immobile ed assente. Quella notte, e per la prima volta, Peggy andò a dormire nel cestino dell’amica e, mi commuovo mentre lo scrivo, dal giorno dopo iniziò in mille modi ed instancabilmente, a stimolarla (per trovare termini più appropriati dovrei consultare un’enciclopedia medica), fino a quando l’altra, lentamente, non ritornò alla completa normalità.     Qualche settimana dopo, in giardino, occupandomi dell’orto, sento miagolare Parma, come mai fino ad allora, mentre, circostanza ancora più strana, sembrava indicarmi con lo sguardo un punto ben preciso del cortile del mio vicino ed accennare ad incamminarsi verso lo stesso punto, rallentando solo per aspettare me. La seguo. Vedo Peggy letteralmente “incollata” al pavimento dopo aver strisciato su una delle tavolette-trappola che l’ineffabile Carlo continuava a preparare per i suoi topolini.     Quella sera l’orto ha dovuto fare a meno di me ma alla fine, grazie ad un bel po’ di olio d’oliva, solvente adatto per quella colla, e sempre sotto lo sguardo attento della gatta-sentinella, riuscii nell’impresa di liberare completamente la sua amica.     Uno ad uno, mi veniva da pensare, fosse stato un incontro di calcio.      Quando Peggy morì pochi mesi dopo sotto le anonime ruote dello Schumacher di turno, Parma, per giorni e giorni, continuò a cercarla nei posti consueti, miagolando alla luna come mai fino a quel momento.     Purtroppo nemmeno la sua vita fu lunga. Poche settimane dopo, vittima delle frustrazioni di qualche cacciatore impotente e dell’ignoranza di un veterinario, ci lasciò anche lei.     Dopo di loro arrivò Antonietta, poi Vito (trovato in un cimitero, come altro avrei dovuto chiamarlo?), Bianca, gattina completamente nera, ed infine i 17 meravigliosi anni con il vecchio But.     Tante storie belle, fra mascalzonate che solo da un gatto potresti aspettarti e insospettabili momenti di tenerezza. Mai però nulla che potesse, solo lontanamente, ricordare un’amicizia da additare ad esempio anche al genere a cui apparteniamo, qualora un giorno decidessimo di scendere dal pulpito che abbiamo costruito per salirci sopra e sentirci alti, come da sempre usano fare i nani.