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Elrond lands :dove il mito e la fiaba, la realtà e la fantasia si incontrano al crocicchio del vento

 

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Dorian II

Post n°119 pubblicato il 28 Gennaio 2019 da Marvelius
 

 

 

 

DORIAN II

 

 

Era al culmine del suo potere, quel potere che tanto è cercato da ogni  uomo, da un umanità sempre in bilico tra i principi, che come paletti guidano l’etica e la morale pur tra  le eccezioni che ne scalfiscono la corazza, e le deviazioni che li portano sul quel terreno incognito che è terra di nessuno.

Debole è la carne, debole la mente, fragile il corpo che unisce l’anima all’involucro che è destinato a frantumarsi sugli scogli del tempo, ma in questa fragilità quanta grandezza si erge sui bastioni di questo mondo che instancabile ruota macinando i grani di clessidre sempre uguali a se stesse.

Era all’apice del successo, quel successo che lo poneva  sul piedistallo della fama sotto il quale una moltitudine di uomini lo invidiava, altri, pochi, lo ammiravano,  i più lo odiavano aspettando che da quel piedistallo un giorno  potesse scivolare finendo nella polvere.

Ma lui era il falco che volava al di sopra delle sue sventure, l’astore solitario che amava rifuggire dalla compagnia dei suoi simili, il rapace che quegli stessi uomini avrebbe divorato sulla sua strada, percorsa sempre alla ricerca di un traguardo che lo poneva al di sopra di tutto.

Ma questa meta cosi ardentemente desiderata, questa ricerca strenuamente cercata, non era soltanto frutto di un volere banale  che lo ponesse al comando degli altri, ne la vanità frivola di potersi sentire al vertice di una piramide di consenso e di potere . No, egli non era il vuoto plutocrate che si sarebbe seduto sullo scanno soddisfatto di vedere il mondo prostrato ai suoi piedi, non era il despota che traeva soddisfazione e compiacimento nel sentirsi servito, quasi fosse un divino dispensatore di fortune e di condanne.

Piuttosto quel suo continuo varcare la soglia delle conoscenze era il prezzo che pagava all’ansia di una curiosità che gli bruciava dentro, quel suo impeto, quasi irrazionale, di confrontarsi coi suoi simili nella corsa per il dominio e il controllo,  era l’obolo che pagava alla insoddisfatta consapevolezza dei suoi limiti, al continuo misurare se stesso più che il valore degli altri, i quali rimanevano solo il mezzo, in mancanza di altro, per  soppesare le sue virtù.

Ma solitario restava, e la solitudine era il solo conforto, l’unica amante con cui amava restare solo, la sola  a cui consentiva di dare un giudizio su se stesso col suo silenzio che spesso diveniva nelle sue riflessioni  notturne un giudice impietoso, un boia cinico e feroce.




Eppure era stato bambino, e di quella  sua prima  giovinezza  ricordava ancora quanto era stata felice, quanta gioia c’era stata nelle sue giornate, quanta pace lo aveva accompagnato nelle sue ore tra i giochi e la compagnia di altri giovani come lui.

Poi tutto era finito in quel giorno maledetto, tutto si era frantumato in quell’attimo che rintanato nell’ombra a volte emerge dal buio come un lampo nel cuore della notte per bruciare ogni cosa e infine  inghiottire per sempre il futuro con le sue speranze.

Era oramai incapace di tornare indietro e quella incapacità era ben presente nella sua consapevolezza, simile alla volontà di percorrere una via che si sa irta e difficile se ne stava acquattata nella sua mente, ma nella sua testa una volontà più forte lo irretiva allontanando questa scelta e tutto rimaneva confinato nella sua indolenza come una scelta possibile ma improbabile sullo scacchiere delle sue azioni.

Sapeva di quanto feroce poteva essere e di quanto lo era nell’affrontare le sue imprese, di quanto essenziale si circondava e quanto quella sua essenzialità aveva eretto a dimora del suo spirito. Conosceva bene quanto implacabile fosse con i suoi avversari e ancor più quanto fosse letale con i suoi nemici. Dentro di lui la fiammella del perdono non si era spenta ma ardeva come il brillio di una stella lontana, eppure nella sua infinita distanza quella luce era quella di una stella,  un immensa nebulosa, pulsante di vita e di grazia.

A volte se ne stava seduto per ore sulla sua poltrona verde, fino a che quella pelle scarabeo si confondeva con la sua  pelle, fondendosi come una corazza a protezione della sua intimità e delle piccole fessure che si aprivano lungo le pareti del suo cuore pietrificato.

Si immergeva nelle sue ansie con  la  tenerezza di un bambino, fuoriusciva dal suo corpo col pensiero e si rivedeva fanciullo, così in questo suo viaggiare i suoi occhi si annacquavano nel silenzio dei suoi ricordi.

Il bicchiere di sidro gli scivolava a terra mentre il sigaro lentamente si spegneva ma il suo viaggio continuava fuori dal suo corpo e il pulsare del suo cuore scalfiva  il clipeo che lo avvolgeva. Ricordava la gioia nel tornare a casa quando ad aprire il portone di casa era suo padre che sorridendogli gli scombinava i capelli e ponendogli una mano sulla spalla si piegava per guardarlo negli occhi ricordandogli di quanto fiero fosse di lui.

Una lacrima si staccò dai greppi delle ciglia e scivolò veloce sul viso ma fu come se una carezza lo sfiorasse dolce, e in quella dolcezza che lui assaporava lasciandosene penetrare si alzò. Dentro di lui in quei momenti era come se qualcosa si spezzasse e l’uomo tenace e inafferrabile per ogni donna, così feroce e impenetrabile per ogni uomo, fosse d’un tratto diviso, come due tronchi di uno stesso albero, l’uno proteso al sole del comando e l’altro all’abisso della disperazione.

Erano i suoi momenti di solitudine che lo rapivano nell’ estasi fatta di un estrema desolante mietitura di se stesso. Serrato nelle sue catene  si contorceva non per liberarsene ma per sentire il freddo del metallo entrargli nelle carni, mentre  si perdeva nei suoi deserti  col desiderio di non ritrovarsi  e in queste lande  amava errare come sterpaglia rotolante nel vento.

Ancora una volta la mente percorse circoli che lui conosceva bene, sentieri seminati di spine che lo facevano sanguinare. Rivide gli occhi di sua madre e i suoi, verdi trasparenze fondersi come mare in burrasca. La voce di lei scaldargli il petto e la voglia soddisfatta di un fanciullo di cadere nelle sue braccia, come una nave nel porto di un mare in tempesta al riparo dalle sferzate del vento  e degli  scogli aguzzi.

Quando il ricordo divenne insopportabile si riscosse ricomponendosi sulla sua poltrona, raccolse il bicchiere da terra come se nulla fosse accaduto, ma sapeva bene quanto dura fosse stata la sua lotta. Si riaccese il sigaro e tirò forte per sentire il tabacco rosolarsi nella fiamma, ma stette ancora seduto nel silenzio come a far evaporare gli ultimi scampoli dei suoi ricordi, infine si alzò con una lentezza che non gli apparteneva e si diresse al piano che stava addossato a una parete della sua camera come un rapace dalla nera livrea. Si aprì la giacca e appoggiò le sue mani sulla tastiera, ma non suonò come  se temesse che le note che avrebbe suonato lo riportassero ancora una volta indietro nel tempo o che lo spogliassero di più e ancora del suo carapace .

 Si volse indietro  con lo sguardo allontanando le mani dai tasti e guardò la sua stanza così magnifica e teatrale, pareti rosse e tende di damasco, mobili pregiati e quadri di una bellezza mozzafiato. Ma non volle contemplare oltre tutte le altre ricchezze che aveva accumulato in quel sala a cui solo un trono mancava, se ancora qualcosa potesse mancare, così ritornò a posare le mani sui tasti e chiudendo gli occhi diede agio alle sue dita di amare l’avorio e  l’onice  del suo pianoforte, la vita e la morte della sua anima. E dentro di lui furono mille battaglie, mille altri ricordi  fino a che davanti a Dorian apparve lei … e la musica si fece rimpianto e il rimpianto si trasformò lentamente in rimorso per quell’amore che non aveva saputo trattenere. Lasciò che il dolore lo pervadesse in ogni suo canto e le note si trasformassero in aghi lacerandogli l’anima, il cuore libero dai cardini  sanguinò, mentre una lacrima di sangue sgorgando dal petto  scivolò a terra  .


Marvelius

 

 
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