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PUNTI DI SVISTA, MARIA ANTONIETTA PINNA


Maria Antonietta Pinna   Punti di svista                     Formiche e cavallette, mostruosi giganti, fili d’erba come alberi, laghi che in realtà sono sputi. Questo è il mondo dell’agente Dilke, una specie di James Bond. Di quest’ultimo infatti possiede sangue freddo, spirito d’avventura e galanteria. Guerra fredda in giardino, copyright 1971, è il primo libro della trilogia che Lindsay Gutteridge dedica alla miniaturizzazione. Si, perché l’ottimo Mathew Dilke è alto la bellezza di sei millimetri.  Ex soldato e agente segreto, l’eroe si sottopone ad un esperimento scientifico che ridurrà drasticamente le sue misure. Lo scopo? Eliminare il problema dell’esplosione demografica nel pianeta e verificare le condizioni di sopravvivenza del microuomo.Già nel 1966 viene proiettato Viaggio allucinante, tratto da un racconto di Otto Klement e Jerome Bixby. Uomini miniaturizzati entrano, (come Mastro Alcofribas, nel Gargantua e Pantagruele), dentro un corpo umano, per salvare una vita. Sulla sceneggiatura della pellicola, ha poi lavorato Asimov, dando alla luce un thriller fantascientifico con lo stesso titolo del film.Comunque, il romanzo della Gutteridge, ingenuo per certi versi, e non originalissimo, offre spunti di riflessione. In un mondo di gossip e cattiva letteratura, vale ancora la pena di procurarsene una copia e leggerlo. Almeno non ci troverete dentro la pubblicità falettiana di birre, macchine sportive e bibite gasate per diffondere il rutto nel mondo.Dominatore incontrastato della nostra storia è invece il punto di vista, una relatività ontologica che non garantisce certezze. Le dimensioni lillipuziane del personaggio aumentano la precarietà del vivere in un mondo pieno di nuovi pericoli. Niente è più come prima. Il giardino è una giungla, innocui insetti diventano pericoli mortali. La posizione da cui si guarda la realtà, cambia tutto. Ciò che ordinariamente viene percepito come normale diventa mostruoso, e viceversa. Capovolgimento insomma, ma anche travolgimento dei confini dettati dalla natura. Il rimpicciolire è un fiume carsico che sa di filosofica ribellione. Nello shock dell’infinitamente piccolo, lo scandalo della percezione macrocosmica.Si va oltre il possibile. L’agente lillipuziano si colloca nel limbo del mostruoso, è esso stesso, date le dimensioni, creatura liminale. Spezza il tedio dell’ordinario. Dilke mangia carne di mosche e altri insetti, riposa dentro gusci di scarafaggio, entra in una scatola di cipria, vede da vicino i pidocchi sulla testa di un uomo. Chi altro potrebbe farlo? E’ la poetica del mostruoso, tema caro alla letteratura di tutti i tempi, dal mitico e inafferrabile Omero alla moderna fantasy, non sempre di buona qualità.E non è un caso che in molti paesi, nani, gobbi, storpi, infelici, abbiano ricoperto in passato il ruolo di giullari. Ecco, signori e signore, vengano! La deformità diventa trastullo di ricchi e potenti contemplatori di miserie. Come materializzazione delle paure interiori dell’uomo cosiddetto “normale”, il reietto suscita un riso che esorcizza. L’esposizione dei bambini bicefali o di altre creature storpie era, ancora ad inizi Settecento, un fenomeno diffuso e curioso. Neppure i nobili educati nei collegi dei gesuiti, si sottraevano a quest’usanza. Scrive nel 1712 padre Antonio Magaza: “doppo lo studio si fece vedere a Signori nel Salone un’albero finto con varii uccelli, pure finti, che cantavano al naturale, alcuni giuochi d’una scimia, un Puttino di due teste, un Basilisco”[1].    La risata, oggi come ieri,  allunga le differenze e confina il diverso nel regno del meraviglioso, in un mondo altro, distante, che niente ha a che fare con la serietà della vita vera. Ben vengano dunque ciclopi, centauri, nani, giganti, elfi, ippogrifi, janas[2], chimere e fanfaluche varie...Ridiamoci sopra, dall’alto della nostra saggezza tutta naturale. I re si divertono coi giullari, li scrutano dall’alto. Soltanto San Francesco ha osato accostarvisi, mettendosi al loro livello. Ma non è facile guardare in faccia la sofferenza e caricarsela sulle spalle. Tutti gli altri guardano da lontano, non hanno mica la chierica. E poi, se proprio vogliamo essere precisi, c’è santo e santo, ma questo è un altro discorso...La distanza fa la differenza? Si o no?  Silenzio! Eccoli, sfilano. Non disturbiamoli. Gli spiriti panas[3] di deleddiana memoria, lavano i panni di notte al fiume servendosi di uno stinco di morto. Si destano gli spiriti erranti. Vagano nella notte, si stropicciano gli occhi appena le ombre si allungano. Il chiasso delle discoteche un po’ li spaventa, ma ancora resistono. L’immaginario collettivo vuole che non muoiano mai. Ascoltiamo la voce dell’ammuttadore, folletto dalle sette berrette. Oppure diamo sfogo alle saghe di  vari maghi e maghetti, anelli e anellini, licantropi, troll, hobbit, streghe e vampiri che oggi vanno molto di moda, in un misto di repulsione, attrazione e paura.Il paragone del nostro microuomo con spiriti e mostri è forse un tantino azzardato. Eppure, sia che si tratti di Dilke, Ulisse, Gulliver, arimaspi[4], coboldi[5], la psicologia è più o meno la stessa. Qual’è l’uomo? Dov’è il mostro? La differenza non è poi così netta. I due s’annusano, si scrutano, si fronteggiano. La risata solo apparentemente allontana, in realtà nasconde e basta. E’ come quando si mette la polvere sotto il tappeto. Principe e giullare, Ulisse e ciclope, c’è una confusione di ruoli e posizioni. Come diceva il problematico Poe, causa di errore in tutte le valutazioni è l’incapacità di capire che le reali dimensioni di un oggetto possono essere sottovalutate o sopravvalutate per un’imprecisa stima della distanza in cui si trova. Riecco l’imperturbabile logica della distanza, fisica, psicologia, filosofica... Tutto torna, in un eterno ciclico esistere.Ora l’insetto perseguita Dilke. L’eroe percepisce con lo sguardo la presenza dell’orribile formica. C’è l’altro lato della medaglia, però. Per la formica anche l’uomo è un mostro. Forse il secondo si trova dentro il primo. Polifemo accecato è soltanto l’alter ego d’Ulisse. Lo scontro tra i due mette impietosamente in luce una realtà che purtroppo è tutta letteraria. Il tappeto è stato sollevato, la polvere miseramente scoperta. Non ci sono confini, né colonne d’Ercole oltre le quali la fantasia non possa viaggiare. Ogni operazione di occultamento inutile. Nessuno può stabilire dove alberghi la normalità. Forse perché è concetto illusorio, traviante, soggettivo come le percezioni. Lo stesso oggetto appare diverso a seconda dell’occhio di chi guarda. Si cattura o ci si lascia scappare sempre qualcosa. In fondo, a pensarci bene, è tutta questione di punti di svista... [1] Padre Antonio Magaza, Diario del Collegio dei nobili di Parma 1912, p. 40. cit. in Maria Antonietta Pinna, Il Collegio dei Nobili di Parma agli inizi del Settecento, p. 266.[2] Piccole fate che tessono stoffe d’oro in telai d’oro.[3] Donne morte di parto. [4] Leggendario popolo di uomini da un occhio solo. Secondo Erodoto la loro terra si trovava tra gli Iperborei e gli Issedoni.[5] Folletti poco socievoli.