massimopiero

il Ristorante di Diana


Era arrivato sei mesi fa. Lo avevano trovato ad un chilometro da li svenuto e completamente disidratato. Ci avevano messo due giorni per rimetterlo in sesto, ovvero per far uscire dopo due giorni di delirio un nome dalla sua bocca. A me piace molto viaggiare e visitare posti nuovi e lontani. Il momento delle ferie di Agosto rappresenta quindi il momento ideale per dedicarmi a questa attività. Non si tratta di raggiungere posti alla moda o di sentirmi parte del rito collettivo delle vacanze, quanto di soddisfare un fuoco che mi brucia da sempre: la curiosità. Ma in questo mio tormento di vedere e scoprire sempre cose nuove c’è però un elemento di ripetitività. Una cena nel mio ristorante preferito il giorno del mio ritorno.Lo avevano trovato a terra, in giacca e cravatta completamente stracciati e il suo bell’orologio al polso. Questa dell’orologio e del vestito è una cosa che va detta. Si, perché trovare un ubriaco che si è addormentato su un marciapiede la notte precedente era una cosa già successa. Anche trovare un esploratore che si era perduto era già successo. Non era successo trovare una persona normalmente vestita come per andare ad una festa al bordo di un deserto come se avesse improvvisamente deciso di attraversarlo spinto da un impulso irrefrenabile, un istinto folle che non gli permetteva nemmeno di passare da casa a cambiarsi, a prendere un cappello per il sole, una borraccia per l’acqua.Da cosa si stabilisce che un cuoco è veramente bravo. Nel mio caso si tratta di una cuoca, nonché della padrona del ristorante, che tutti chiamano Diana. Non ha un cognome, la chiamano tutti Diana e basta.Si può fare il cuoco per necessità, per professione, per noia, per obbligo, per passione, per curiosità. Diana lo fa insieme a chi mangia i suoi piatti. Il suo essere cuoca è intimamente legato d una persona che gusta il suo cibo e ne gode i sapori. Non cucina per mandare dei piatti nella sala accanto dove ci sono persone sedute ad un tavolo in attesa di alimentarsi, cucina per la persona. E’ qui la prima differenza con gli altri ristoranti, il fatto che non esista un menù. Appena ti siedi al tavolo, Diana viene da te ed inizia una conversazione all’interno della quale propone i suoi piatti. Se la ascolti mentre fa lo stesso con un’altra persona, ti accorgi che parla di cose diverse e propone piatti diversi. Quello che cucina è per te, solo per te. Non riuscirebbe a preparare una certa quantità di porzioni o di ingredienti e sughi pronti all’uso in modo da soddisfare tutte le varie esigenze di Clienti che arrivano durante il giorno e scelgono da un menù. Arrivo, si siede vicino a me, gli dico che non ho molta fame e lei evita di parlarmi di sughi, intingoli, fritti, tutte quelle cose che riempiono solo a sentirne parlare ma parla di altro, parla di campagna, di colline, mi parla di un sentiero che conduce ad un boschetto dove un torrentello crea una piccola cascata. Volendo si può sdraiarsi in solitudine al fresco o addirittura fare il bagno. Non so come, ma poi la discussione finisce su dei piccoli assaggi di cose crude, pesce e verdure, gusti delicati, pochi condimenti. Vede la curiosità e l’interesse che si accendono nei miei occhi. Ha capito che la mia porta si è aperta e tanto le basta perché deve evitare di saziarmi parlando ancora di cibo. Si alza e va verso la cucina. Ne esce dopo pochi minuti per portare al mio sorridente vicino di tavolo un piatto colmo di pasta e fagioli accompagnata da una bruschetta fatta con una fetta di polenta di castagne alla griglia con un sugo di salsiccia e funghi. Sul tavolo un fiasco di vino rosso,  una bottiglia di olio extra vergine verde e non filtrato, il macinino per il pepe. A me arriva un piatto con alcuni cubetti di pompelmo su cui sono stati adagiati tre scampi crudi e un piccolo bicchiere di vino bianco freddo. Arrivano a seguire due sedani crudi con una punta di formaggio alla crema di salmone, due fette di tonno rosso appena scottato con semi di sesamo su un letto di rucola,  due ruote di aragosta con agrumi e ananas della quale continuo a chiedere il bis fino a terminare l’intero crostaceo. Ogni portata arriva quando hai terminato la precedente da un po’, e ognuna accompagnata dal suo piccolo bicchiere di vino bianco freddo. La cosa continua. Questi erano solo gli antipasti. Però alla fine, quando mi alzo da tavola, mi sento tutto sommato leggero.Prima di andare via vado a salutare Diana, direttamente in cucina. Sta rimproverando teneramente il suo aiutante perché  sta lavando alcune pentole senza essersi tolto l’orologio. Non se lo toglie mai. Lei continua a sgridarlo in modo giocoso,  poi ridono insieme. Si stanno per abbracciare, mi vedono, li saluto e me ne vado.Ah, cosa strana, nel piazzale antistante mi accorgo dell’insegna. Adesso il ristorante ha cambiato nome. Si chiama “Ristorante Livia”. Chiedo spiegazioni ad un uomo seduto su un muretto all’ombra di un gelso. Mi dice che quello è il primo nome che ha pronunciato un tizio arrivato in giacca e cravatta dal deserto dopo due giorni di delirio. Anche se mi sembra una grande cosa che qualcuno abbia compiuto un’impresa del genere e quindi la cosa valga una decisione di quel tipo, fondamentalmente non ci capisco granché, ma va bene così. So che ci sono cose che non dobbiamo capire tutti, ma che riguardano solo i diretti interessati. Forse è lo stesso anche per questa storia. E mi sono incamminato felice verso casa.