massimopiero

Vento


Non ho mai amato il vento. Forse perché sono una persona troppo pacifica, troppo  abitudinaria. Il vento sconvolge e cambia il paesaggio. Una domenica mattina di settembre ero uscito presto per andare a comprare il giornale e c’era vento. Già pensavo al fatto che non avrei potuto dare la prima veloce lettura appena uscito dal gabbiotto di Natalia, la mia edicolante di fiducia, perché le pagine del mio giornale si sarebbero agitate come un tappeto scosso alla finestra. Ma non c’era molto vento. Ce n’era troppo.Una volta da bambino mi ero impuntato con mio nonno perché non mi aveva voluto portare al cinema. Avevo letto sul giornale che nella vecchia sala di periferia vicino a casa mia davano “gli ammutinati del Bounty”. Ho iniziato a leggere il giornale molto presto. Sono passato in pochi mesi da “A-lbero”…..”B-anana”….”C-asa…..” al quotidiano di mio padre. Gli ammutinati del Bounty, quello con Marlon Brando. Dopo tre giorni di bizze incredibili mi hanno dovuto portare a vederlo. Sono passati trentasette anni da allora e non ricordo assolutamente il motivo di questa mia fissazione. Mi ricordo però che dopo dieci minuti già dormivo.E così, quella mattina ero dovuto entrare di corsa dentro l’auto, con la paura quasi che questo ventaccio rapisse il mio prezioso quotidiano. Avevo addirittura la sensazione che da quanto era forte l’auto facesse fatica durante la manovra per uscire dal parcheggio nel momento che doveva andare nella direzione contraria. Effettivamente la sentivo ondeggiare mentre percorrendo la strada verso casa venivo investito lateralmente da raffiche improvvise.Non mi sembra di essere un dinosauro. Però ricordo bene che quando si sono diffuse le prime birre estere in bottiglia ero già adolescente. Senza fare troppa pubblicità, una era danese e l’altra veniva pubblicizzata come ottenuta dal malto per whisky. Ricordo anche la prima colletta fatta tra amici per un acquisto collettivo e la serata di degustazione organizzata nel garage di uno di noi da almeno un mese prima. Allora mi bastò il primo mezzo sorso di entrambe le qualità per fare una smorfia di disgusto e ancora oggi preferisco alla grande la bottiglia di trequarti nazionale.Oramai ero arrivato al semaforo che dista poche centinaia di metri da casa mia. Ancora pochi minuti ed avrei potuto richiudermi, barricarmi, nascondermi tra quattro mura sicure e isolate. Il semaforo rosso più lungo che ricordassi. Mi ero acceso una sigaretta e l’avevo finita. Era ancora rosso. Non ricordo perché avevo aperto il finestrino. L’avevo aperto completamente, forse per sporgermi fuori quel tanto per guardare verso l’alto, come per urlare di smetterla. Infatti avevo proprio messo la testa fuori, anche le spalle. Proprio a quel punto che era arrivata una raffica più forte delle altre. Molto più forte. Forte abbastanza da risucchiarmi fuori dall’auto e proiettarmi vero l’alto. Il semaforo era a quel punto diventato verde, ma oramai lo osservavo dall’alto, galleggiando, il semaforo di un plastico, di quelli  dove scorrono i trenini elettrici, perfetti in tutti i loro piccoli dettagli e particolari. Le  case, gli incroci, i semafori. Galleggiavo oramai a un’altezza tale che vedevo solo modellini di auto giocattolo.Galleggiavo. Iniziando lentamente a muovermi, a governare il mio galleggiamento, all’interno di questa corrente che mi sorreggeva sicura. Non era difficile. Ancora dieci minuti per prenderci un po’ di pratica e potevo dire che volavo più o meno decidendo la direzione in cui procedere. Sentivo che non era difficile. Ancora un’ora  e avrei fatto quasi invidia ai gabbiani. Volavo. Il sogno dell’essere umano dal principio dei tempi, e che solo in sogno a volte sperimentiamo. Volavo.Devo dire subito una cosa. Non è che le cose viste da lassù siano  poi quella grande meraviglia. O meglio, dopo l’estasi e l’euforia della prima mezz’oretta, vedevo le cose da un punto di vista più oggettivo. Volare è una cosa fantastica e confermo che vale la pena continuare a desiderarlo e sognarlo ma, allo stesso tempo, non bisogna idealizzare che da lassù sia tutto fantastico a prescindere. Le cose fantastiche certo lo sono ancora di più. Ma le cose che non lo sono non lo diventano solo per effetto della nuova visuale. E poi, era arrivata l’ora di scendere. I quattro cipressi di casa mia non erano abbastanza alti. Meglio il pino del mio vicino di casa. Un paio di giri intorno alla chioma del grosso albero per capire come funzionava la fase di atterraggio e mi ero ritrovato su un ramo. A parte la prima dolorosa sensazione, molto simile all’aver abbracciato un porcospino, rimaneva ancora molto da fare prima di tornare con i piedi per terra.  All’inizio avevo cercato di scivolare lungo il tronco, poi la corteccia increspata di questo tipo di conifera mi aveva fatto scegliere per il capitombolo finale. Un po’ frastornato mi ero guardato in giro, pensando a cosa inventare così su due piedi al vicino che mi avesse visto precipitare dall’albero del suo giardino, poi non vedendo nessuno, mi ero scosso gli aghi e qualche pezzo di corteccia dai vestiti, avviandomi verso l’incrocio dove mi aspettava l’auto. Avevo imparato anche questo. Volare è meraviglioso, ma la fase di discesa è sempre piuttosto dolorosa. Molte volte in questi mesi, specialmente dopo i primi giorni, quando i lividi erano ancora ben visibili, mi sono chiesto se ne fosse effettivamente valsa la pena.Beh, per oggi la finisco qui. E’ domenica, sento che da fuori le fronde degli alberi sbattono nervosamente e un semaforo a poche centinaia di metri da qui mi sta aspettando. Il giornale magari lo compro dopo.