massimopiero

l'esame


L’ansia di arrivare tardi mi aveva portato ad alzarmi due ore prima di quanto preventivato, poi ero riuscito comunque a perdere tempo. Il resto ce lo aveva messo il traffico. Un parcheggio improbabile e una corsa verso l’ingresso. Quando ero entrato, nella grande stanza erano già tutti seduti. Gli altri aspiranti in banchi di scuola troppo piccoli per contenere le ginocchia, gli esaminatori ad un lungo tavolo. Come avranno fatto per farlo passare dalla porta un tavolo così lungo. A meno di non averlo portato in pezzi e montato successivamente, o di averlo costruito con il legno di un albero cresciuto li dentro. Avevano già cominciato a chiamare. Non in ordine alfabetico, ma con un meccanismo di cui dopo i primi settanta nomi non riuscivo ancora ad interpretare la chiave. Impossibile prevedere quando sarebbe arrivato il proprio turno.Il perché della lunghezza del tavolo. Gli aspiranti appena sentivano pronunciato il proprio nome dovevano uscire dalla grande stanza, ma attraverso un percorso guidato, tra transenne che li portava a sfilare davanti agli esaminatori per tutta la sua lunghezza. I primi centoquaranta erano già usciti dalla stanza. Duecentodieci nomi e ancora non riuscivo a capire. Poi il mio nome, dopo la settima serie di settanta, la sfilata davanti agli uomini che scrivevano, l’uscita dalla stanza, il corridoio percorso insieme a due uomini in divisa bianca davanti a decine  di porte chiuse, fino a quella aperta dello stanzino che mi attendeva.Prima di entrare mi ero dovuto privare di tutto ciò che avevo.  Nudo, camminando sul pavimento in legno, solo una sedia e un tavolo, un foglio e una matita,  forse tutti provenienti dallo stesso albero cresciuto nella grande stanza. Giorni e notti, freddo, sete e fame. Prima di riuscire a prendere la matita e disegnare un cuore. E’ allora che la porta si è aperta e sono entrati i miei vicini di stanza. Aspettavano fuori, con dei vestiti nuovi, nell’attesa di abbracciarmi. E non avevo più freddo, sete e fame.