massimopiero

Saltafosso


Un nome che ognuno di noi darebbe a un bambino immaginario, che passa le giornate scorrazzando insieme agli amici per i campi, con i pantaloni corti e la faccia di chi ha appena rubato le ciliegie e adesso sta scappando rincorso dal contadino. E quando scappi, saper superare con un salto i fossi di irrigazione è fondamentale per due motivi: riuscire a non farsi acchiappare dal padrone delle ciliegie e nello stesso tempo a tornare a casa pulito e asciutto. Ecco quello che avrei voluto essere. Non mi mancava niente. Gli amici, i campi dietro casa, l’albero delle ciliegie, il contadino facile all’incazzatura, la grande capacità di corsa. E’ sul finale che ero inadeguato, quando mi prendevo le sgridate di mia madre per essere tornato a casa bagnato e infangato. Forse perché ero il più piccolo della banda, forse perché al contrario degli altri indugiavo impaurito sul ciglio  prima del salto, fatto sta che la cosa non mi riusciva mai bene e invece che saltare dall’altra parte, al fosso ci finivo sempre dentro. Il contadino non mi ha mai comunque acchiappato, ma la sgridata me la prendevo comunque poco più tardi. Perché, perché non sono mai riuscito a saltare un fosso. Questa la domanda, che non avendo mai avuto riposta, si è spenta da sola quando l’età non è più stata quella di correre per i campi e rubare ciliegie.Domenica a pranzo a casa di un amico, la madre è di Campi Bisenzio, il posto dove hanno inventato la trippa con il sugo. Quando la fa mi invitano sempre. C’è anche il padre del mio amico, il fratello con moglie e  figlio di diciotto anni. Il bambinone diciottenne l’ho visto nascere ed è già più alto del mio metroeottanta abbondante. Quei pranzi domenicali che alle tre del pomeriggio fanno appena intravedere la fine con caffè e grappa fatta dal contadino. Quei pranzi domenicali dove gli uomini di casa poi si spostano sul divano portandosi dietro il bicchierino, per continuare la chiacchierata ad libitum. Ma la cosa viene interrotta dal neomaggiorenne che chiede l’intervento del padre affinché lo accompagni a un campetto sportivo dove ha la partita di pallone. Il fratello del mio amico posa il bicchierino rassegnato, ci saluta ed esce di casa con il figlio. Rimaniamo in tre sul divano del salotto. Io, l’amico e suo padre che ci guardiamo negli occhi scuotendo il capo, mentre versiamo un altro goccetto. Non è tanto il più anziano di noi che pensa a quando alla stessa età del nipote metteva soldi da parte perché di li a poco si sarebbe fatto una famiglia, quanto noi ben più giovani che ricordiamo il fatto che arrivare al campo di calcio dove ci sono tutti gli amici e l’allenatore accompagnati dai genitori sarebbe stata una vergogna assoluta già a quattordici anni.Quattordici anni, l’età del motorino. Quello scassato che ti lasciava a piedi, che non partiva e dovevi asciugare la candeletta, che con la paghetta settimanale di cinquemila lire ci doveva entrare il pieno, il cinema e un insieme di altre cose. Il motorino usato per andare a scuola, con il bel tempo, con la pioggia e con la neve. Il motorino che alle sette del mattino di gennaio faceva diventare le mani viola anche se avevi i guanti imbottiti. Eppure non ci ammalavamo mai. Mendicando un po’ di febbre per saltare un compito in classe indigesto, ci trovavamo costretti ad accostarlo al termosifone. Una volta l’ho tenuto accostato per troppo tempo e mi volevano portare al’ospedale. Febbre oltre i quarantuno, nemmeno avessi la malaria. E invece era la “malavoglia”.Dopo un pranzo a casa del mio amico c’è sempre bisogno di una passeggiata, così ci incamminiamo lungo uno stradellino che inizia dietro casa e ci troviamo a percorrere la ciclabile costeggiata da campi di grano ancora verde. Al lato della ciclabile il mio nemico di sempre, il fossetto per l’irrigazione. Si parla ancora del nipote. A diciotto anni io studiavo d’inverno e lavoravo nei mesi estivi, per pagarmi quindici giorni di vacanze in agosto, a Rimini,  con gli amici, pensioncina a diciottomila lire al mese, primi grandi amori, vissuti nella loro pienezza e senza farsi domande, una felicità e un ritmo cardiaco difficili da raccontare. Com’è che adesso è così difficile, com’è che adesso ho tutti questi dubbi. Com’è che prima di far partire lo stesso motore al mio interno mi pongo tutte queste domande gelide, che lo raffreddano prima ancora che si accenda. Andando avanti le cose dovrebbero migliorare, non il contrario.Poco più avanti, una piazzola con delle panchine, dove mi sembra di rivedere il me stesso di allora, nei panni di un ragazzo che cerca di baciare una ragazza. Lei interpreta il suo ruolo e si discosta quel tanto che basta, ma il suo sguardo pieno di luce indica che il balletto durerà il minimo indispensabile. Adesso ricordo come si fa. Guardo verso il campo di grano, poco lontano un grande ciliegio. Non ci penso neppure, sorrido, spicco il salto. E per la prima volta in vita mia, sono tornato a casa con i piedi asciutti.