massimopiero

la casa


Cinque giorni di ferie, un lusso piacevole che solo nel primo giorno getta il proprio abbraccio verso la pigrizia e incolla il sedere alla stoffa del divano. L’iperattività prende il sopravvento già dal secondo, una frenesia un po’ scema e allo stesso tempo allegra. Questa volta penso proprio che succederà, succederà l’incredibile mantenimento dei propri propositi, riuscire a realizzare tutto quello che ci si era ripromessi di fare appena fossero arrivati questi giorni di ferie. L’intenzione di lavorare fin dal primo mattino a sistemare il porfido del posto macchina sembra procedere senza impedimenti. Sono andato a letto prima di mezzanotte, mi sono alzato presto, e soprattutto ieri sera ho parcheggiato l’auto fuori dal cancello, ovvero lungo il marciapiede, circa cinquanta metri dopo casa mia.Quindi non è colpa mia se al mattino ho deciso di andare a fare colazione, con calma, al bar. Sono in ferie, ho tutto il tempo. Non potevo immaginare che una volta superati quei cinquanta metri per arrivare all’auto mi sarei trovato davanti a un problema di questo tipo.Scomparsa. Come può essere possibile. Non sto parlando della macchina. Non solo sono sicuro di aver parcheggiato davanti ad una casa, ma abitando qui da quasi quindici anni, sono assolutamente sicuro che quella casa davanti alla quale ieri sera ho parcheggiato ci fosse. C’è sempre stata. O meglio, da quando è nata, da quando l’hanno costruita, è sempre stata li, incastrata tra altre due e condividendone i muri laterali, come buona tradizione della prima periferia dove abito, in modo che si crei una linea lungo la strada, dove tutti si affacciano dalla finestra al mattino e si voltano a destra e a sinistra per salutare i vicini, anche loro affacciati alla finestra. E’ così per chilometri, senza interruzione. Come è possibile quindi che davanti alla mia macchina adesso ci sia un buco, una striscia di prato incolto tra due case.La prima ora l’ho passata così, immobile, a bocca aperta, osservando quello che non c’era, con le chiavi dell’auto in mano. C’è un momento della nostra vita che siamo come una spugna asciutta. Questo momento coincide spesso con il periodo scolastico. Si inizia dalle prime classi, quando l’acqua è rappresentata da strane linee che diventano velocemente un alfabeto, fino ad arrivare, a seconda dei casi, a ragionamenti alti e difficili. Ma siccome una spugna secca siamo, tutto viene assorbito, senza distinzione tra insegnamenti e semplici avvenimenti. Infatti, se devo pensare alla prima cosa che ricordo di quel periodo è proprio l’inizio della mattinata. Una persona che chiama e dei nomi che rispondono. Un evento automatico che a volte si interrompe. Tra una risposta e l’altra un attimo di silenzio, un nuovo tentativo e ancora nessuna risposta. Ricordo bene che è solo in quel momento che giri la testa verso il punto esatto dal quale ti aspettavi di sentir arrivare un suono, e ti accorgi di una sedia sulla quale nessuno è seduto e di un banco vuoto. La prima volta che ho incontrato questa parola: assenza. Una cosa seria, per giustificarla era necessaria una firma da parte di chi ci ha messo al modo.Un lavoro così impegnativo come la riparazione di un lastricato in porfido non poteva essere affrontato dopo accadimenti di questo tipo. Giusto il tempo per una veloce chiacchierata con la propria coscienza e la condivisione di rimandare tutto alle ferie estive ma solo a patto che qualche lavoretto fosse comunque svolto in questi giorni. Infatti la mattinata è oramai trascorsa, sprecata, alternando dieci minuti di camminata su e giù per la cucina ad altri dieci seduto sul divano. Per pensare, cercare di capire. Non sparisce così una casa, in una notte. Non è possibile, non è giusto. Certo, prima che le case siano costruite c’è il vuoto, un prato verde. Il processo inverso  succede quando dopo molti anni una casa non è più abitabile. E’ così dalla prima casa costruita nella storia e continuerà nel futuro. Dalle capanne di paglia e fango ai tetti con i pannelli solari. Una mattinata persa, cercando di capire perché non riuscivo a spiegarmi una cosa, che alla fine dei conti è così normale e naturale . Il pomeriggio invece mi sono messo a lavorare intorno al porticato delle rose, come da accordi con la coscienza. Taglio delle sfioriture e potatura dei ributti troppo bassi o troppo alti.Non ho un rapporto semplice con le potature. Per attenuare la brutta sensazione che mi da la mutilazione delle piante cerco sempre di usare qualche ramo come ributto, come talea per far nascere una nuova pianta. Se la nuova pianta prende, se riesce a mettere le radici, cerco un nuovo posto nel giardino dove alloggiarla, oppure la porto a mia madre. Lei fa altrettanto con me. L’ho imparato da lei, che soffrendo dello stesso problema, spesso si presenta a casa mia con qualche piantina. Probabilmente la foresta amazzonica è nata nello stesso modo. Io porto una piantina di ributto a te, tu ne porti una a me, dopo un milione di anni una foresta è il minimo. Mi viene in mente che questa volta però, c’è uno spazio vuoto tra due case.Percorro i cinquanta metri con il mio stecco di rosa. Alla base una pallina, fatta con del terriccio avvolto nella carta di giornale. Non sono l’unico ad essersi accorto che dove prima c’era una casa, adesso c’è un quadrato d’erba. Altri vicini si incamminano in quella direzione, chi con qualcosa in mano, un fiore, un oggetto, chi semplicemente con la sua presenza. Quando arrivo vedo che alcuni hanno portato una sedia da casa e si sono seduti  vicino allo spazio vuoto. Altri che avevano fatto lo stesso adesso sono andati a preparare la cena lasciando la sedia li. Nessuno parla. Quando i nostri sguardi si incontrano, ne nasce solo un breve cenno del capo. Uso la mia paletta per fare la buca, sul davanti, vicino al marciapiede, come con la volontà di lasciare spazio a quello che fino al giorno prima c’era, tante volte domani ci svegliassimo e tutto fosse tornato nella notte al suo posto. E’ un’illusione, ma la delicatezza e il pudore ci impongono di fare così. L’annaffiata che segue questa operazione la fa un altro vicino, che poi lascia il secchio vicino al bordo del marciapiede, nel caso servisse ad altri che dovessero compiere la stessa operazione.Qualcuno bisbiglia qualcosa nell’orecchio di un altro. Il contagio si trasmette velocemente. Si dice che nella strada che parte dall’incrocio più avanti in questi giorni hanno visto un tipo piantare dei paletti in un praticello vicino alla lavanderia. Lo hanno visto poi guardare in uno strano marchingegno, quasi una piccola telecamera o una macchina fotografica posta su un treppiede. Quelli che un po’ se ne intendono non hanno dubbi: era sicuramente un geometra. Mi incammino verso casa. Quando arrivo davanti rimango un attimo fuori dal cancello, colto dall’ansia, pensando a quando un giorno i vicini passeranno da li e quella sparita sarà la mia. Ma ripenso anche a uomini che cantano, sotto il sole, con un cappello fatto di carta di giornale, con le mani sporche di polvere, di cemento, che lanciano saluti rumorosi alle donne che camminano sul marciapiede, gonne lunghe, fazzoletto sul capo e delle grandi borse di paglia da cui si affacciano foglie di sedano e pane avvolto in sacchetti di carta marroncina, poche macchine e molte biciclette per la strada. Vado verso le mie rose, ne accarezzo il velluto dei petali. E sorrido. Il giorno che passerete di qui dove adesso c’è la mia casa, e vedrete quello spazio vuoto, fate altrettanto.