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L’AQUILA? STANNO TUTTI BENE


Triste vigiliaA due anni dal terremoto la ricostruzione è ancora ferma al 6 aprile, poche le promesse mantenute, tanti i problemi da risolvere  L’AQUILA – Sono trascorsi due anni dalla notte del 6 aprile, quando alle 3.32 una scossa di magnitudo 5,9 della scala Richter squassò il centro dell’Aquila. Poco è cambiato da allora; sono stati costruiti dei moduli abitativi provvisori (Map), sono sorte delle piccole new town in periferia, ma il cuore della città è rimasto come allora. Il centro storico, il cuore pulsante dell’Aquila si è fermato alle 3.32 di quella notte. Le dimore storiche, le chiese, il municipio, tutto, è venuto giù come fosse di burro. Il centro si è trasformato in “zona rossa”, un cumulo di macerie transennate, presidiate dai militari, che ne impediscono l’accesso. Nei primi mesi dopo il sisma, c’è stato un fiorire di promesse e di progetti: «gli aquilani avranno un tetto, le tendopoli sono provvisorie, la città sarà ricostruita, l’Aquila e il centro storico torneranno come prima, non vi lasceremo soli». Anche il trasferimento del G8 all’Aquila, aveva lo scopo di sensibilizzare i grandi del pianeta al fine di ricavare i fondi necessari alla ricostruzione. Il premier, come fa un padre premuroso con il figlio malato, ha mostrato le ferite aperte della città a capi di stato e di governo. Ha chiesto loro aiuto puntando sulla pietà suscitata da quello spettacolo. Quante di queste promesse sono state mantenute? Solo la prima. Al governo va riconosciuto il merito di aver saputo affrontare l’emergenza con celerità rispetto ad altri casi, ad esempio il terremoto delle Marche e dell’Umbria del 1997. Ma per il resto, l’Aquila è rimasta esattamente com’era nel 2009. Gli edifici, le chiese e le dimore storiche sono stati puntellati, ma le macerie sono ancora lì. Gli abitanti sono stati sparpagliati nelle periferie delle “città nuove”, che non hanno nulla della città, né una piazza, né un ritrovo. Sono dormitori che di giorno vengono abitati solo dai vecchi, chi può va via: a lavorare, a scuola o in qualche centro commerciale, gli anziani rimangono, in attesa di far passare il tempo.Poi ci sono gli aquilani sparsi per gli hotel della costa. Quelli che stanno bene, quelli che sono in vacanza, almeno secondo quanto affermato da una figurante a Forum. Peccato però che lei questi “vacanzieri” non li abbia mai visti. Io ne ho conosciuti parecchi per lavoro e ne ho da raccontare. Ho visto rifiutare l’alloggio ad una famiglia aquilana qualche giorno dopo il terremoto perché non c’era posto, anche se l’albergo era vuoto, ma si sa, la stagione era alle porte. Ho visto dipendenti e proprietari infastiditi dopo un anno di presenza nei loro alberghi, perché, si sa, il pesce, come l’ospite, dopo qualche giorno “puzza”. Li ho visti venire trattati male perché «se non gli va bene che se ne vadano» e soprattutto ho sentito i loro racconti. Quello che mi ha maggiormente colpito sono i gli anziani. Se ne stavano a ciondolare in albergo tutto il giorno, anche d’estate, lasciavano il tempo scorrere come i vecchi delle new town aquilane. Qualcuno cercava di ricreare qualche abitudine: la chiacchierata con la vicina (di stanza), una partita a carte, la messa della 18. Qualcuno si fermava a chiacchierare con me, l’unica che li ascoltava ancora, gli altri si erano stufati. Un giorno, mentre preparavo per una signora un latte caldo, la sua cena, parlando dei problemi dell’Aquila ho voluto farle coraggio e superficialmente, per consolarla le dissi: «vedrà signora, un po’ alla volta la ricostruiranno». Lei rispose: «signorina, l’Aquila non è più per me». L’essenzialità della sua risposta mi fece capire tutto il peso che aveva avuto la tragedia per le persone della sua età.Come il terremoto ha spazzato via il centro della città, così, simbolicamente è avvenuto per la società aquilana. Se è vero infatti che una città trova il suo punto di aggregazione nel centro, allora l’Aquila si è disgregata, se il centro ne rappresenta il cuore storico e culturale, allora quella storia e quella cultura si sono frantumate come gli edifici che sono crollati. La metafora del fallimento della ricostruzione, e per esteso dello stato, è rappresentata dal crollo del palazzo del governo. L’immagine del crollo di un edificio simbolo del potere, che per sua natura dovrebbe essere solido e incrollabile, rimanda allo sbriciolamento del potere stesso, incapace di far fronte al problema. Un cinico gioco del caso, si è rivelato oggi presagio dell’incapacità dello stato.