Merube

diafiṡàrio 3


 Ed ora, non dalla cappa dell'empireo, ma dal celeste del tetto, che pressa, una sera come inventata, la sera riagguanta le ossa laide e rachitiche delle parole e se ne va in quel paesaggio forellato delle cose che permangono. Con linguaggio dicèrto da lastricare mostro ora spalle impolverate che scrollo dall'ossuto incastro, insorgente odo il carrucolarsi della realtà, giù come un deus ex machina, col trapestìo desolato e giunto, uno sfiato rugghia del corpo quella eloquentia delicata al tatto e cedevole degli spazi che hinc ad hōram non risiedi.