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Un blog creato da Mille_Piede il 10/02/2007

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Capitolo terzo.

Post n°19 pubblicato il 14 Maggio 2007 da Mille_Piede


Basso o chitarra.



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Scritto da Donna Ombra


- Ti capita spesso di baciare uomini di cui non sai nulla? ?
- In effetti sei il secondo uomo che bacio in tutta la mia vita...E´ un periodo strano... -   Rispose Valentina arrossendo.

- Allora racconta ? rispose Davide incuriosito.
- Non c´è nulla di particolare, la solita storia da feuilleton, famiglia modesta,  orfana di padre, madre costretta a fare dei lavori umili per mantenere me e mio fratello, due amori che ho dall´infanzia: Marco e la pittura. L´ho conosciuto all´asilo aveva una scatola di latta piatta piena di pastelli nuovi di zecca con una marca esotica, si chiamava Caran D´Ache, il coperchio era bianco con la foto di una montagna innevata.... ? L´espressione sognante della ragazza si tramutò in una risata isterica ? Eh si, capisci? Devo essermi innamorata di lui per le sue matite colorate, come una donna sciocca può innamorarsi di un uomo per la sua macchina sportiva...Comunque non avevo mai visto tanti rossi, tanti verdi diversi, non avevo mai visto la neve e mi sembrò un ragazzino davvero speciale...Da allora non ci siamo pià lasciati, finora. E´ andata bene finchè non ho passato l´esame all´accademia...Sai ...per lui avere la fidanzata pittrice significava stencil gratuiti sulle mura di casa e nella stanza dei bambini... o un hobby da casalinga, al posto del ricamo a punto croce ....La mia è una passione...Lui ha smesso di capirmi, ha smesso di amarmi, la sua necessità primaria adesso è quella di insultarmi e se potesse mettermi un lazo al collo come i cow fanno con le vacche, lo farebbe. La prima volta che ha visto un mio schizzo di uomo nudo mi ha dato un ceffone da farmi rigirare la testa e mi ha strappato il cartone..Era così bello...Adoro dipingere corpi, sono sempre così diversi....Guarda te, per esempio...Hai questi occhi così allungati...Gli zigomi così sfacciati...Sempri un guerriero ecco.... ? Valentina aveva preso il blocco che teneva sempre con se ed il suo mozzicone di matita ed aveva cominciato a tracciare quello che lei vedeva del ragazzo.
 
Davide si rese conto che in un attimo la ragazza confusa e triste si era trasformata in una pittrice, la luce negli occhi era quella del fuoco sacro che aveva lui quando suonava il basso, quella sicurezza interiore che raggiungi solo quando sai chi sei davvero, perché solo allora sei disposto a combattere per ciò in cui credi, e mentre pensava questo si rese conto che decidere di suonare il basso era in fondo un´ammissione del suo limite, non aveva mai pensato di poter brillare con gli acuti di una chitarra, il basso era necessario e rassicurante, forse non era diverso in fondo da questo Marco che aveva le matite e non voleva usarle, non sarebbe mai stato un solista, lui era il rumore di sottofondo di una città che si risveglia, il rumore delle fronde degli alberi in un pomeriggio d´estate, Valentina invece era il frinio delirante delle cicale, e mentre così pensava vide la sua anima nuda spalmata su un foglio, come Narciso riflesso nella fonte e lacrime di commozione bagnarono i suoi occhi ombrosi. 
  

 
Prossimo blogger in via di definizione.
 
 


 
 
 

Capitolo secondo.

Post n°18 pubblicato il 10 Maggio 2007 da Mille_Piede
 

Attorno al caffe'

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Scritto da claudiane

Davide,incuriosito,le domandò:"Come mai sei giunta in questa metropoli?"e Valentina rispose"Mi sono iscritta all'Accademia voglio fare l'artista!".E intanto sorseggiavano il caffè,un pò amaro a dire la verità per Davide ma non osava dirlo a Valentina che sempre più sucitava in lui sensazioni strane e piacevoli.
Valentina dal canto suo non riusciva a capacitarsi di questo segno del destino e piano piano cominciava a dimenticare il motivo per cui aveva gettato il cellulare quando squillò un'altra volta.Era Marco.
Davide disse:"Perchè non rispondi?Non gli vuoi proprio parlare eh?!"
Valentina, presa dal panico,anzichè rispondere,incominciò a baciare Davide con un'irruenza mai conosciuta a sè stessa prima d'ora.
Il telefono continuava a squillare e Davide e Valentina si baciavano sopraffatti dalla passione.Poi il cellulare smise di suonare e,come interrotti dal silenzio,anche Davide e Valentina si fermarono ansimando e guardandosi ammutoliti.Non c'era più ritorno per loro.
"Bè,prenderei un altro pò di caffè se ne è rimasto"disse Davide per rompere il ghiaccio.Valentina non diceva niente,le sudavano le mani e le luccicavano gli occhi.Continuava a guardarlo con un'aria sorpresa,quasi attonita.
Erano seduti uno di fronte all'altro in cucina.Davide era un pò confuso e non sapeva come districarsi da quella situazione,temendo che Valentina gli facesse domande troppo personali,quando Valentina esclamò:"Che buffo!Non so nulla di te!".




Prossimo blogger  Donna Ombra



 
 
 

Capitolo primo. Cellulari e boomerang.

Post n°17 pubblicato il 27 Aprile 2007 da Mille_Piede
 



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Scritto da: brujitao9


Valentina lancio' con noncuranza il cellulare dal finestrino dell'auto in corsa, e lascio' il braccio fuori a far scorrere il fresco notturno sulla pelle calda. Si sentiva stanca ma rasserenata. La notte le correva incontro carica di promesse. No, non avrebbe avuto nessun rimpianto, ne quella notte, ne mai.
Eppure era solo passata una settimana da quando lei con il grembiule nero in vita e la pinza rossa tra i capelli color ebano, leggiadra e rapida, andava avanti ed indietro tra i tavoli del piccolo pub del suo paese, sudava, mentre i suoi amici si divertivano.
Per lei quel lavoro di cameriera era il mezzo per raggiungere qualcosa di più grande, per toccare con la punta delle dita la maniglia della porta del suo futuro.
Quanti boccali di birra ghiacciata, traballanti su vassoi scoloriti avevano portato le sue mani affusolate; le stesse mani sporche di colore, capaci di creare universi infiniti su un pezzo di tela.
L’odore di trementina e di olio di lino, i pennelli consumati, la valigetta colma di tubetti di alluminio ed il vecchio cavalletto in legno dal quale non si separava mai, la sua coperta di Linus:
tutte queste cose l’avevano seguita nella sua grande avventura quando finalmente, con i soldi messi da parte, aveva deciso di raggiungere la metropoli per poter studiare.
Lasciava il suo microcosmo fatto di case bianche, di mare selvaggio, di vecchi stanchi seduti fuori dall’uscio di casa, di pane caldo fatto in casa e avvolto da un panno di cotone, di quella piazza di chiacchiere e risate, tra pochi amici cresciuti insieme, ora annoiati, ora grandi a fare i conti col proprio destino.
Ancora bruciavano sulla sua guancia le labbra di sua madre, premute con forza quasi a marchiarla di baci, per non farle scordare quanto le voleva bene. “Adesso però vai, parti figlia mia, sii felice!”
tristezza e speranza nel luccichio di quegli occhi segnati in un viso ancora giovane.
Un marito venuto a mancare troppo presto, un figlio di dieci anni da crescere, Maria Rosa non aveva mai chiesto nulla a nessuno e non aveva fatto mancare mai nulla ai suoi figli: una piccola pensione e durante l’anno la vendita delle uova e dei lavori di maglieria, d’estate il piccolo chiosco di granite sulla spiaggia. I sacrifici erano sacri se rendevano contenti i suoi figli e con ogni soldo in più Maria Rosa correva alla cittadina vicina alla bottega di belle arti per comprare una volta una scatolina di carboncino di qualità, un’altra un blocco da disegno sempre per Valentina. Sua figlia aveva un’anima dannata di artista, uno sguardo oltre quel mare e lo stesso orgoglio di sua madre, voleva farcela solo con le sue forze.
Lei non aveva avuto vita facile come la figlia del sindaco, mandata a studiare all’estero e poi raccomandata per una multinazionale a Milano, non era nemmeno come i figli del postino, che non pensavano nemmeno lontanamente a farsi una vita fuori da là e si erano realizzati trovando il loro posto in quel microcosmo: Francesca allo sportello del piccolo ufficio postale in collina e Marco con una borsa a tracolla, a consegnare lettere e bollette insieme al padre, nel solito e rassicurante giro quotidiano tra quelle trecento anime sparse intorno a quel minuscolo borgo.
“Hai troppi grilli per la testa!” le ripeteva Marco ultimamente. Un amore il loro, nato sulle panchine dei giardini del paese, baci rubati tra i vicoli, bagni al mare al tramonto.
Marco e Valentina. Tutti davano per scontato che a breve, tra tempeste di riso, applausi e le note stonate dell’orchestrina della proloco , avrebbero sceso le scale corrose dal vento salino della chiesetta tardo barocca. Tutto avrebbe dovuto seguire una semplice ed antica logica di confini prestabiliti in quell’ equilibrio antico. Non sapevano che i sogni sono quelli che ognuno ha dentro al suo cuore e non quelli che ti cuciono addosso gli altri.
“Marco, io devo andare, se mi ami dovresti capirmi!”, ma Marco era diventato troppo geloso, intrattabile, nervoso, possessivo. Quanto aveva pianto Valentina nel suo lungo e solitario viaggio in macchina verso la grande città, ripensando a quello schiaffo e a una storia forse finita.
Era questo l’amore, soffocare la propria natura, prendere o lasciare?
Era passata una settimana soltanto da quando aveva disfatto le sue valigie di attrezzi e di sogni ed anche di qualche senso di colpa; e le sembrava ormai di appartenere a quel nuovo macrocosmo che l’aveva sempre attirata, ma che ora le faceva un po’ paura.
L’esame di ammissione all’accademia era andato benissimo, ma a Marco non interessava molto, ciò che a lui importava era riavere la sua ragazza vicino a lui e basta.
Continuava a riempirla di telefonate per controllarla, per insultarla, per farle vacillare le sue certezze, per distruggere le sue ambizioni: “Torna qua, là non combinerai niente! Sei una poco di buono e basta!”. Che senso aveva tenere insieme frammenti di qualcosa che non si poteva più chiamare amore?
Le lezioni erano durate fino a tardi quel giorno e disegno dal vivo era stato incredibilmente interessante, più di scultura. Dopodichè stanca ma determinata, Valentina aveva deciso di farsi un giretto in qualche pub della città, per trovarsi un lavoretto serale.
.La suoneria ininterrottamente non dava tregua dalla borsa poggiata sul sedile, 6 chiamate perse: “Marco” lampeggiava sullo schermo del cellulare. 5 msg non letti “Vale, ragiona!”, “Vale, te la faccio pagare!”. Nemmeno il tempo di finire di leggere tutti i messaggi, che arrivò l’ennesima chiamata e lei rispose, rassegnata.. La voce dall’altra parte era troppo alta, troppo arrabbiata, troppo gratuita, troppo di tutto. Stavolta premere il pulsante rosso per chiudere la solita conversazione a senso unico non poteva più bastare, bisognava fare molto di più e solo con quel gesto liberatorio Valentina si sentì finalmente al sicuro. Il suo animo si rasserenò con la stessa velocità con cui il cellulare volò fuori, gettato dal finestrino. Sostò qualche minuto in macchina sotto il palazzo dove aveva affittato la sua piccola stanza, respirava profondamente, non sapeva se ridere o piangere, ma la stanchezza fisica ed emotiva le fece rimandare ogni considerazione razionale al giorno seguente, ora voleva solo salire quelle scale, mettere la chiave nella serratura e buttarsi nel suo letto.
Il pulviscolo impazzito nel raggio di luce che filtrava dalla tenda socchiusa annunciava l’alba di un nuovo giorno, mentre Valentina dormiva ancora stringendo forte il suo cuscino sporco di mascara, era così esausta che la sera prima nemmeno si era struccata. Uno scampanellio acuto ed improvviso ruppe il silenzio e la lentezza di un calmo risveglio, la ragazza balzò dal letto: nel dormiveglia per un attimo pensò si trattasse della suoneria del cellulare e di Marco, poi annaspando con una mano penzolante dal letto, faceva piccoli cerchi nel vuoto nella speranza di trovare la sveglia, che di solito appoggiava sul pavimento, e metterla a tacere. Quel suono infernale, però, proveniva dal campanello di casa. Spettinata e un po’ scocciata, Valentina andò ad aprire la porta senza farsi troppi problemi di presentarsi col suo pigiama con le mucche stampate sul fondo blu e senza nemmeno chiedere chi ci fosse dall'altra parte. “E tu chi sei??!” disse alla vista di quel ragazzo alto e mai visto prima. “No dico, ma che si fa così ?” fu la prima frase di Davide. “Non capisco….” replicò Valentina, appoggiata sullo stipite della porta e, con un pudore ritrovato, incrociando le mani sul seno, nel tentativo quasi di nascondersi dallo sguardo di quello sconosciuto.
Una strana sensazione nell’incontrare quegli occhi di giada, verdi ed arrabbiati come un albero mosso dal vento. “Io sono Davide, sono un musicista. Ieri sera stavo tornando da una serata,ero sul mio motorino quando improvvisamente mi è arrivato addosso QUALCOSA, veloce come un meteorite! Per poco cadevo, per non contare che il mio basso elettrico si è scheggiato! Questo immagino sia TUO, o no??” Concluse concitato e allungò il braccio per mostrarle il cellulare: era rotto, ma era proprio il suo ed era tornato come un boomerang dalla legittima proprietaria. “Noo, ancora questo aggeggio infernale! E pensare io che lo avevo buttato!” Davide le rispose stavolta con un tono più scherzoso: “Me ne sono accorto…ma dico io, per caso fai parte di quelli che tirano i sassi dai cavalcavia? Mi stavi ammazzando! Poi ieri sera ti ho seguita perchè volevo dirtene quattro.Ho visto che ti sei fermata in macchina sotto questo palazzo e piangevi, allora ho rimandato la ramanzina a stamattina. La portiera mi ha detto che abitavi all’interno 10”. Mano a mano che il ragazzo la guardava, la sua arrabbiatura svaniva: provava attrazione per quella ragazza un po’ matta, con quel pigiama da bambina che non riusciva comunque a nascondere le forme da donna e il suo viso un po' sconvolto, ma di una bellezza indiscutibile, quella vera che si vede in una donna appena sveglia.
Un secondo di silenzio e di imbarazzo, poi i due scoppiarono in una fragorosa risata. “Dai, entra a prenderti un caffé, così vediamo quanto ti devo per il danno al tuo basso!” lo invitò Valentina. “Sai, sono nuova di questa città e non vorrei dare spettacolo sul pianerottolo”. In realtà voleva conoscere meglio quell’angelo terribilmente attraente che il destino aveva fatto volare da lei.



Prossimo blogger claudiane


 
 
 

LA CITTA' DELLE PROMESSE

Post n°16 pubblicato il 21 Aprile 2007 da Mille_Piede
 



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Ed ecco il terzo incipit del prossimo racconto, scritto da
ventodamare:


"Valentina lancio' con noncuranza il cellulare dal finestrino dell'auto in corsa, e lascio' il braccio fuori a far scorrere il fresco notturno sulla pelle calda. Si sentiva stanca ma rasserenata. La notte le correva incontro carica di promesse. No, non avrebbe avuto nessun rimpianto, ne quella notte, ne mai."


Il primo blogger invitato e'   brujita.09


 
 
 

CAPITOLO SETTE. L'ULTIMO VIAGGIO DI FELIPE

Post n°15 pubblicato il 18 Aprile 2007 da Mille_Piede
 



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Scritto da ventodamare



Felipe sbuco' in un tratto della metropolitana dove ancora si lavorava.
C'era molta luce, ed arrivava da una specie di pozzo dalla cui sommita' il cielo blu profondo occhieggiava nel tunnel come l'occhio ceruleo di un gigante che spia un pertugio bizzarro e affascinante.
L'aria fresca proveniente dal pozzo, investi' Felipe ed i suoi capelli grigi, facendoli danzare a ciocche mentre una bagliore di consapevolezza di se' gli attraverso' veloce lo sguardo.
Lo risveglio' dalla “bambola” e Felipe si rese conto di aver solo immaginato la sua amata Madrid.
Quella maledetta droga doveva avergli fumato il cervello mentre apriva la valigetta.
Doveva essere stato il crack in cristalli, che in tutti quegli anni era parzialmente evaporato in gas, saturando la valigia ed entrando nelle narici piene di rosse venuzze di Felipe appena libero dalla morsa della valigia.
Felipe si senti' improvvisamente l'uomo piu' stanco del mondo.
Si sedette su di un grosso tubo di cemento e si prese la testa fra le mani.
Ripenso' al tradimento fatto ad Armando detto er Tramontana,
al suo straziarsi fra il rimorso dello sgarro fatto ad un amico, e la promessa di una vita nuova con Natalia lontano da Roma e dal suo giro di impasticcati, cocainomani e debosciati che circondavano Armando e la sua corte di fregnoni, che la valigetta gli prometteva.
Se fosse riuscito a piazzarla ai calabresi, nemici giurati del Tramontana, tutta quella merda chimica si sarebbe trasformata in un bel mucchietto di grana, nel passaporto verso il sudamerica, forse il Brasile o l'Uruguay, con Natalia.
Aveva combinato tutto usando come contatto uno sbandato a cui ogni tanto passava una dose per pieta', una specie di grasso topo di fogna coi capelli sempre unti ed appiccicati alla testa su una grassa faccia da maiale dal colorito grigio. Le magliette aderenti che portava, sottolineavano il gonfiore del corpo, la pancia ballonzolava ad ogni passo, era un ciccione ripugnante e maleodorante, un parassita che s'ingrassava vivendo ai margini del mondo, raccattando tutto cio' che poteva senza indugio.
Felipe aveva creduto di accontentarlo con 4 dosi di crack ed una decine di pillole del paradiso, le farfallineviola, la piu' tremenda sintesi dei laboratori improvvisati dei fornitori olandesi del Tramontana.
E di sfruttarlo per arrivare ai calabresi per vendere tutto il contenuto della valigetta.
Ma se avesse scorto in tempo il lampo di cupidigia ingorda negli occhi del topo grasso, mentre apriva la valigetta per prendere le dosi con cui blandirlo, sarebbe corso via come se avesse tutta la questura alle calcagna.
Invece non l'aveva visto, ed il grassone l'aveva fottuto.
L'aveva studiata bene.
Aveva mandato due topi di fogna a rapinargli la valigia e sistemarlo con una mega dose di Lsd, mentre lui spargeva la voce che Felipe si era venduto ai calabresi.
E Felipe ci era cascato in pieno nel falso appuntamento coi calabresi, il grassone l'aveva fottuto.
Ma fra topi di fogna i patti valgono poco, ed i due rapinatori cercarono anche loro di sparire con la valigetta senza salutare il ciccione.
Il topo grasso invece li trovo', sottoterra e nell'inseguimento capitarono nella zona sotterranea dominio dei barboni organizzati e guidati dal Principe che presero la valigietta e la vita di uno dei topi di fogna gia' impasticcati nella fuga.

Il Principe odiava la droga, aveva rovinato molti suoi amici quando ancora viveva in superficie, e conservo' la valigia intatta, che fu poi ereditata quarant'anni dopo dai bambini che avevano permesso a Felipe di riprenderla.
Felipe si alzo' e si allontano' di pochi passi dalla valigetta, con passi cosi' stanchi e trascinati che pareva avesse tutta la stanchezza del mondo nelle ossa.
Mando' un urlo disperato gridando verso il cielo blu che lo guardava dall'alto del pozzo, mentre ripensava a come la droga avesse reso viva il suo amore, Natalia solo pochi minuti prima.
Gli era sembrato di sentirne l'odore, di percepirne il calore e l'enorme carica vitale.
Le ultime parole che gli aveva detto al telefono erano state:”Felipe, ti prego... riporta la valigia ad Armando. Lui capira', ti perdonera' e tornerete amici e la smetterai di tormentarti.”
Ma lui non l'aveva ascoltata, voleva darle quella normalita' che non avevano mai conosciuto.
Lui piccolo spacciatore cresciuto con il mito del padre, in galera per avere portato in Spagna dalla Colombia la piu' grossa spedizione di coca che si era mai vista in Spagna, un mito per la malavita di Madrid.
E la madre, una maniaca depressiva fissata con la religione e che imputava alla scarsa frequentazione della chiesa ogni sorta di sciagura che aveva investito la sua vita.
E Natalie nata da due fricchettoni, lui spagnolo e lei olandese che si erano fatti di eroina anche per tutto il periodo della gestazione di Natalia. Aveva preso la sua prima dose gia' nel grembo materno e la sete di droga non si era mai estinta in lei.
L'urlo di Felipe non accennava a smettere, stava ricordando tutto e la memoria di quel che aveva fatto, lo colpiva come un maglio sulle tempie.
Improvvisamente si fermo', smise di urlare, torno' verso la valigetta, l'apri' e si sedetta li' affianco per terra.
Comincio' ad ingoiare le farfalline rosa, una ad una. Poi mise in bocca i grani di crack e Natalia gli apparve ancora mentre continuava ad inghiottire tutto il contenuto della valigetta, pillola dopo pillola, sacchetto dopo sacchetto.
Ed il fantasma di Natalia, l'avrebbe accompagnato nell'ultimo viaggio, con in bocca il sorriso del sole e del cielo di Madrid.


FINE


 
 
 

NATALIE Y FELIPE

Post n°14 pubblicato il 11 Aprile 2007 da Mille_Piede
 



Scritto da
brubus1


Natalia era una ragazza venuta dal nulla. Circondata da un alone di fatalità. La sua voce era calma, sicura, piena di passione e considerazione. Possedeva energia da vendere, un calore intenso, la gioia della speranza, nel credere che tutte le cose non avevano mai una fine, ma un eterno movimento e rinnovamento. Già da bambina manifestava una natura intransigente. I suoi occhi luminosi di un verde quasi smeraldo, inconsueto, difficile da riscontrare su altri visi. Era una specie di Musa venuta da un lontano irraggiungibile oriente. Terra dalle “mille e una notte”, dalle cento culture, dalle vesti dorate e setate, dai colori sgargianti e vivi. Salvaguardia di un patrimonio intensamente caliente, e degna nota di fragranza madrilena. Incarnava la personificazione di una Dea virtuale ora diventata e fatta donna a tutti gli effetti. In un'era moderna e proiettata sempre più al futuro, lei conservava uno splendore ineluttabile e un'espressione naturale, bruna, radiosa, genuina come le donne di una volta. Il gene umano non si smentisce mai, la bellezza si propaga come un fiore profumato, odoroso, desideroso di essere impollinato che chiede strada per rinnovarsi fedelmente, pensava fra sè Felìpe. Sembrava averla conosciuta da tanto tempo. Meravigliava quell’incrocio di sguardi per intendersi, senza mistero. Era una nota “alta” degna di essere eseguita, che scivolava magistralmente sul pentagramma. Corroborante musica che s’inoculava nel turbinio di una danza emozionante, in insenature e pieghe sentimentalmente intonate. Come un vino corposo, pregiato, d’annata, da degustare e sorseggiare a poco a poco, desiderando che rimanesse solo per ora, mistico fascino e meravigliosa attrazione. Avvicinandosi, sfiorando i pori della pelle, avvertiva sempre più forte la sensazione di venire contraccambiato. L’interesse era sicuramente reciproco. Ora non c’era tempo per sostare a pensare, riflettere sul loro unico destino; scrutare linearmente millimetro per millimetro le forme sinuose del corpo di Natalìa. L’aria si era fatta più calda, più intensa, quasi torbida. Un rìgolo di sudore scendeva, costeggiando lungo la fisionòmica espressione del suo giovane volto. L’emozione soffocava la gola, la deglutizione risultava difficile. Il respiro eccitato, diveniva sempre più affannoso per l’attesa. Gli stimoli alternati, si accendevano come luci abbaglianti nelle membra. Facendo vibrare le corde nervose molto sottili, trasmettendo intensi impulsi e segnali al cuore. Madrid, affascinante città in parte barocca, capoluogo di provincia della regione dell’antica Castilla, nel centro della Spagna, “soffre” di un clima continentale, nel quale gli inverni si rivelano rigidi e le estati torride. E il caldo iniziale quasi dirompente, di un’ennesima estate assolata, vicina, si faceva già sentire. Era tempo di afferrare subito la valigia di Armando di finissima pelle e corrergli incontro. Armando, compagno di avventure infantili di Felìpe, non era solo, con lui c’era Pablo, il suo unico ed eterno amante. Un uomo forte, muscoloso, virile costante e fedele compagno, che non dava affatto l’idea di un omosessuale. In questo paese da tempo tanto cambiato, l’unione fra appartenenti allo stesso sesso, veniva considerata come di ordinaria amministrazione. Essi avrebbero aspettato alla stazione di Chamartìn, accanto alla zona finanziaria e ludica della città, fra circa un’ora in un momento di apparente minore congestione del traffico. L’idea all’unisono stava divenendo realtà, stuzzicando e provocando l’ennesima macchiavellica catalessi di un’ulteriore avventura che a presto li attendeva.



Prossimo blogger ventodamare

 
 
 

CONFINE TRA FONDO E SPROFONDO

Post n°13 pubblicato il 29 Marzo 2007 da Mille_Piede
 

Capitolo 5



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Scritto da
inattesadi

Felipe vide aprire la porta.
Una porta,legno caldo respirava la paura dei suoi passi avvicinarsi, erano come suoni e ritmi di piccoli tonfi sgonfi, come ovatta nelle orecchie e voce dietro un vetro.
Natalia uscì dall’ombra del corridoio come una lucetta improvvisa,come un piccolo sogno la mattina un’attimo prima di svegliarsi,l’impressione di non essere ancora sceso sulla terra,il bisogno di tenere quell’imagine ancora dentro,non farla appassire nel medesimo istante in cui i talloni entrano a contatto col freddo terrestre.
Filipe quella mattina era andato per la valigia marrone,e,Natalia gliela porse sull’uscio con piedi scalzi sul pavimento in cotto,in fondo alle sue mani,un cuore batteva caldo.
La paura era che, forse non doveva andare così,ma faceva parte del piano, un gioco troppo grande per uno come Filipe capace di spaiare tutti i suoi calzini , innamorarsi di un portacenere e di Natalia, ma senza lasciare la benché minima traccia di un sentimento.
A quei tempi la valigia profumava di pelle nuova,e, si confondeva con le parole dette e dimenticate nel medesimo istante,e non ricorda se la porta chiusa sul suo naso grande fece rimbombo o solo appannaggio dentro quel condominio silenzioso alle porte di Madrid,non ricordava,se il biglietto per Roma fosse sulla sua mano o su quella di Natalia.
Non ricorda se aveva la valigetta o se era rimasta sullo zerbino.
Lei disse solo ciò che ricorda Filipe:”Questa è la valigetta di Armando Ricci, detto er Tramontana”
La capitale sopra di lui odorava cinese,borgo o stazione,lupa spennacchiata di poveri strati di gente solita non lavarsi,per gusto o per noia,e li,su quelle strade dimenticate tanti anni fà conobbero l’omino madrileno sgattaiolare come un povero topo con il formaggio in mano.
I bambini improvvisamente più grandi di Filipe si allontanarono come un obiettivo sfocato continuando a gonfiare palloni di sapone ,e il nostro eroe spagnolo corse via stringendo la valigia marrone.
“Non l’avrai mai caro il mio Tramontana”boffocchiò sputando saliva e sudore.
Seduto su una montagna di rifiuti biologici fece per aprire la valigia,ricordava a canzone che quel giorno accompagnava l’incontro sulla soglia tra lui e Natalia,ricorda la sua promessa di restituire ciò che spettava ad Armando,ma,non la mantenne mai e, Felipe, si calò nel buio confine tra fondo e sprofondo.
Ora che aveva di nuovo il suo grande spettro da aprire ,si accorse che forse tutta questa storia lo aveva catapultato per troppo tempo in un mondo sommerso da illusioni e speranze di mezzo mondo che ci camminava sopra ricoprendolo di strati.
Nell’istante in cui Felipe iniziò l’apertura del suo scrigno improvvisamente da diecimila e passa valigie impilate, incastrate a creare un mosaico di pelle di coccodrillo e di vitello, tessuto idrofobo, cartone e lana sbucò Natalia,dolce destino e via destinata a risolvere la storia.


Prossimo blogger brubus1

 
 
 

Post N° 12

Post n°12 pubblicato il 23 Marzo 2007 da Mille_Piede
 

Capitolo 4. Se non ho passato, ho inventiva.


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Scritto da shockportatile


Imboccarono un condotto, poi svoltarono in un altro un poco più basso e ancora più buio. Felipe annusava l’aria gelida di chiuso, ascoltava i suo passi , quelli di Josè strascicati in scarpe di cartone. Sopra di loro, a tratti ,si sentivano voci e onde di tacchi che marciavano:dipendeva sicuramente dai vari strati di pavimento che li separavano dal giorno, dalle strade alberate, dai vestiti colorati, dalla luce tiepida del sole o dalla neve .
” … la neve bianca luce montagna fuoco camino neve sci sole orsi bianchi lepri bianche civette bianche ..” un’onda di associazioni esplose nella testa di Felipe, uno squarcio nel grigio di un tumulo. L’essere umano invecchiato nel corpo e nello spirito, nell’intelletto presenilizzato, stava tirando calci a quella scorza rattile di oblio.L’uomo, pur sempre animale, stava risorgendo nelle connessioni cerebrali. Dalla malattia mentale si può guarire e nessuno lo sapeva.

- Felipe…
Josè lo guarda seduto a terra, poco lontano due arance imputridiscono.
- che anno è Josè?
- 2049 pofferbacco!
- E tu nel duemilaquarantanove dici ancora pofferbacco.
Josè gli porge la mano e dice:
- Muoviamoci, tra poco i bambini devono andare a letto.

La porta è lucida, sembra quella di un’astronave vista nei film da ragazzo, al cinema o nella sua cameretta del riformatorio. Acciaio puro.
- Vai pure, dieci minuti ok. Ti aspetto qui, io intanto mi fumo una sigaretta …
- Prima una domanda e ovviamente un tiro alla sigaretta menzionata, io una volta fumavo sai? Ecco, qui dentro c’è puzzo di bruciato, di combustione, come mai? Mica vivrete nei condotti del gas … ah no giusto, altrimenti come potresti fumarti quella sigaretta … mah, quest’odore, c’è.
- Provarono a bruciarci qualche anno fa, un paio di volte, sai com’è: ardere per sterilizzare. Dei folli, come ci son sempre stati d’altronde. Quando i negri, quando i poveri, quando le donne, quando gli zingari , comunque c’è sempre qualcuno che si sente superiore.
Felipe fece un tiro alla sigaretta, ingoio il fumo come fosse un rito , chiuse gli occhi e lento lo espirò sull’acciaio della porta.
- Ciao.

Entrò.
I neon sparavano una luce fredda sul pavimento verde come un tavolo da biliardo.
Molti bambini,dai cinque sei anni ai quattordici, stavano costruendo un materasso con delle valigie di pelle morbida, altri una piramide di trolley. Alcune bambine si provavano degli abiti, ridevano di una bimba grassa che si era messa un tubino verde pisello. La chiamavano Madama Primavera.
Una bimba con degli occhiali da vista poggiati sulla punta del naso si avvicinò ballettando a Felipe e , canzonandolo, gli disse: - Dieci minuti soltanto nonnino!
- Dove sono le valigie … piccola?
Per un istante non aveva detto microbo. Microbo, qualcosa di piccolo, nella valigia c’era qualcosa di piccolo, il coltello e i due tipi, la droga, i trip … nella valigia c’era della droga. Un sacco di droga.
- A parte quelle che stanno usando loro , ce ne sono una decina di migliaia nel corridoio H4, come puoi vedere le lettere sono dipinte da chi è cresciuto bambino qui dentro, là su quegli scatoloni appesi al soffitto.
Bofonchiò un grazie , Felipe, e iniziò ad incamminarsi verso il corridoio. Sotto i piedi il tappeto di fiorellini di plastica scoppiettava.

La bambina glielo aveva detto ma vederle diecimila e passa valigie impilate, incastrate a creare un mosaico di pelle di coccodrillo e di vitello, tessuto idrofobo, cartone e lana, è suggestionante.

Il signor Felipe ha sei minuti di tempo – i bambini parlavano dentro un megafono di cartone ed erano tutti alle sue spalle.

La valigia era marrone, ma che se ne faceva del suo contenuto anche se. Vabbè Felipe inizio a cercare.

Il signor Felipe ha quattro minuti, tre minuti, due minuti … Il signor felipe ha un solo minuto e deve avviarsi all’uscita.

Con una mano grigia , afferrò una valigia marrone, strappò via l’etichetta col nome senza farsene accorgere e la mise in tasca.
- Eccola!!!!
Urlò felice e dentro di sé inizio a pregare di non trovarci un vestito di Trussardi.
I bambini iniziarono a cantare e a soffiare bolle di sapone , accompagnarono Felipe alla porta e la porta si richiuse dietro di lui.


Prossimo blogger inattesadi

 
 
 

Capitolo tre.   Storia di nessuno.

Post n°11 pubblicato il 17 Marzo 2007 da Mille_Piede
 



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Scritto da Evolution Moka


Ci sono persone che spariscono all’improvviso. Senza un motivo apparente. Si dileguano nel nulla della confusione della vita di tutti i giorni. E qualcuno li cerca, magari, le prime settimane dopo la sparizione, ma poi si arrende. Inevitabile. Di queste persone che scompaiono non si ricorda più nessuno. Sono fantasmi, sono invisibili, sono niente.
Così anche Felipe era divenuto un signor nessuno svanito in un giorno di ordinaria follia. Non vi era una persona che rimpiangesse la sua mancata presenza o che aveva continuato le ricerche per ritrovarlo.
Felipe non aveva famiglia. Era cresciuto giorno dopo giorno con piccoli furti e truffe e si era ritrovato a venticinque anni nella strada della malavita soltanto per sopravvivenza. Che poi non sempre qualcuno si ritrova sulla strada sbagliata per scelta. Molte volte ci si ritrova lì solo per necessità.
Felipe non aveva amici. Perché nella malavita tutti ti sono amici fino a quando sei loro utile. Ma un presunto amico è il primo ad accoltellarti al fianco se non servi più a nulla o se al contrario rischi di diventare più importante. Non potevano certo essere amici suoi individui come er Tramontana o Serdo Patanegra.
Felipe non aveva un amore. Certo aveva una ragazza all’epoca della sua scomparsa, ma nulla che si potesse chiamare amore. I sentimenti per i furfanti sono un lusso che non ci si può permettere.
E’ cosi Felipe oggi non esiste più. Non esiste più in quella che viene chiamata società. E’ stato rimosso come un virus dal sistema di controllo di un computer.
Invece quello che una volta veniva chiamato Felipe esiste ancora. Finalmente forse risvegliato da un sonno non lucido durato quarantadue anni. Alimentato da droghe chimiche e allucinazioni. L’unico indizio, l’unico presunto ponte che potrebbe riportarlo a quella che era la sua vita, a quella che era la sua identità, è una valigia. Una valigia che gli apparteneva e chissà cosa nasconde al suo interno. Doveva trovarsi da quelle parti, non vi erano dubbi.
Così girovagando come un rinnegato per gli scantinati all’improvviso imbocca un corridoio invaso dalla luce. Luce, sempre più luce, troppa luce.
La sensazione che ha nell’attraversare quella luce è simile a quella di un bambino che viene al mondo. Una nascita. La rinascita del signor nessuno.
Felipe si ritrova alla stazione della metrò C, nel pieno di una qualsiasi giornata settimanale. Il suo cervello è invaso immediatamente da milioni di sensazioni ed imput che rischiano di farlo impazzire definitivamente. Persone che camminano, parlano, urlano, si rincorrono, luci, rumori, suoni, cartelli della pubblicità, vetrine di negozi, spazzatura, televisioni, immagini varie, stridore sulle rotaie…disorientamento. A Felipe viene proprio da piangere come ad un bambino quando nasce. Poi si gira e s’imbatte in una signora affascinante. La guarda negli occhi e poi nella scollatura. E mentre questa urla in maniera terrificante lui forse riconosce in lei qualcosa. Sta per fargli una domanda, ma lei è già scappata chiamando la sorveglianza.
“Ma cosa avrà mai questa da urlare?” Pensa quello che una volta si chiamava Felipe. Poi per caso passa d’avanti ad un vetro e capisce. Guarda la sua immagine riflessa e non può riconoscersi, anzi si spaventa anche lui. Barba e capelli incolti, vestiti a brandelli, un colore indefinito della pelle…si gira e ha gli occhi di tutti addosso, tra lo spavento e lo schifo. Incomincia a correre il signor nessuno, spaventato come qualsiasi topo in quella situazione. La sicurezza lo sta rincorrendo anche, intimandogli di fermarsi. L’inseguimento viene ripreso dalle televisioni. Poi Felipe sguscia via dentro un piccolo buco in un muro.
“Ehi amico”.
Qualcuno lo stava chiamando. Si guarda intorno, ma non vede nessuno.
“Ehi, dico a te”.
Ancora quella voce. Si guarda ancora una volta attorno e finalmente vede una faccia baffuta dalle grate di un impianto di aerazione.
“Vieni quassù altrimenti ti beccano”.
Il tizio apre la grata e aiuta Felipe a salire sopra.
“Vedi amico se te ne vai in giro per il mondo conciato in questo mondo attirerai senza dubbio la loro attenzione. Devi curare maggiormente la tua persona per poterti permettere di passare inosservato. Devi essere più accorto per avere il lusso di essere un fantasma in mezzo alla confusione che c’è lassù”.
Dice il tipo baffuto.
Felipe lo guarda come si guarderebbe la sfinge dopo un suo enigma.
“Devo dedurre che mi sono sbagliato e pertanto non fai parte della nostra associazione. Ma non sei nient’altro che un barbone comune senza nome”.
Dice a quel punto guardando un sempre più disorientato Felipe.
“Io non so chi sono. Mi sono risvegliato oggi da un sonno che è durato chissà quanto tempo. Mi sono ritrovato in questo corpo e mi sono ritrovato in un mondo che non conosco. Non ricordo nulla della mia vita. Sto cercando una valigia che mi apparteneva e che forse potrà risolvere i miei interrogativi…”
“Amico la faccenda è alquanto grave. Ma tuttavia nella vita con la volontà si possono affrontare anche i più insormontabili dei problemi.
Mi presento: io mi chiamo Josè. Faccio parte di un associazione che ha deciso per propria scelta di vivere sottoterra, rinunciando a quello che la società impone ogni giorno in superficie…regole, leggi, comandamenti, costrizioni, consumo, falsi valori…abbiamo formato una nuova società quaggiù dove ormai da decenni viviamo in perfetta armonia. Ogni tanto certo qualcuno di noi viene in superficie per qualche ora o giorno, ma oramai siamo dei signor nessuno, invisibili e il mondo non si accorge più di noi. Molte persone importanti, anche, decidono di venire con noi disgustati dalle regole che la società impone: politici, musicisti, scrittori, sportivi…per esempio credi davvero che Elvis sia stato rapito dagli alieni?”
Quello che una volta veniva chiamato Felipe rimane in silenzio cercando di poter credere alle parole pronunciate dal tizio…ma a quel punto qualsiasi cosa poteva essere vera. Lui non sapeva ancora chi era e non sapeva ancora che fine aveva fatto la sua vita.
“Io Josè devo ritrovare quella valigia smarrita chissà quando qui nella metrò. Solo così potrò fare un po’ di ordine e capire che cosa è successo alla mia vita”
“E va bene, la tua storia mi ha colpito. Ti porterò nella sala degli oggetti smarriti. L’abbiamo costruita noi della società di quaggiù, ed è un enorme stanza piena di scaffali ricolmi di oggetti che le persone lassù hanno smarrito in tutti questi decenni. Per riuscire a ritrovarla, sempre che ci sia, potresti metterci anni. Ma anni tu ne hai già persi in abbondanza. Io penso questo: se questa valigetta e il suo contenuto sono così importante per riprenderti la tua vita, allora il destino ti aiuterà e la ritroverai immediatamente. Pertanto ti lascerò soltanto dieci minuti in quella stanza. Se non la troverai dovrai scegliere cosa fare: Rimanere qui con noi nella nostra società sotterranea dove potrai ricostruirti un’identità oppure ritornare in superficie e rinascere in una società che non sa chi sei e che ti considera un elemento estraneo. Inutile dirti che se scegli la seconda possibilità non dovrai fare alcun riferimento alla nostra associazione. E comunque non ti crederebbero e le tue parole aumenterebbero le probabilità di finire in qualche istituto saturo di sedativi.
Cosa ne pensi della mia proposta? Sei d’accordo?”
“Sono d’accordo. Portami nella stanza degli oggetti smarriti. Se in quei dieci minuti non troverò ciò che cerco allora deciderò cosa fare. Se non ritroverò la vita che mi apparteneva deciderò se costruirne un’altra e dove”.


Prossimo blogger in via di definizione.


 
 
 

Capitolo due.      2049

Post n°10 pubblicato il 14 Marzo 2007 da Mille_Piede
 



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Scritto da claudiane


Anno 2049: i lavori della metrò C vengono ultimati con un anno di anticipo.
Di Felipe non si sente più parlare ormai da anni, niente più volantini attaccati al muro ma lui vive ancora in uno scantinato di uno scantinato di un altro scantinato.
Felipe ha una famiglia con una ratta immaginaria, è sereno mangia quello che trova fra i binari, legge il giornale consunto che rimane per terra dimenticato da qualcuno; l'unica cosa che gli manca ogni tanto è la luce del sole ma forse ormai gli darebbe fastidio.
A volte quando incontra gli umani ha una strana sensazione addosso, come una sorta di attrazione verso quel mondo poi però se ne torna nel suo scantinato. Ma la notte, ultimamente, continua a fare lo stesso sogno e cioè di essere un essere umano che gira con una valigetta e che dentro la valigetta c'è una siringa in caso di emergenza per eventuali trasmutazioni improvvise.
Una notte si sveglia all'improvviso e decide di andare a cercare la valigetta, si ricorda di averla lasciata sotto il metrò C solo che adesso sono ultimati i lavori!
Non si arrende comincia a correre per gli scantinati quando....


Prossimo blogger EvolutionMoka.


 
 
 

Capitolo uno. Un topo.

Post n°9 pubblicato il 02 Marzo 2007 da Mille_Piede
 


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Afferrando saldamente l'elegante valigetta in pelle Felipe Pizarro y Azevedo si incamminò con passo spedito verso Piazza dei Cinquecento.
Un tiepido sole scaldava le vetrine dei negozi.
Sorridendo sicuro di sè, Felipe si lasciò ingoiare dalla scala mobile della metropolitana.

Scritto da polystyrene


Nessuno lo vide più. Per giorni, settimane, mesi. Furono sguinzagliati polizia, carabinieri, cani, Chi l’ha visto, ma di Felipe non v’era traccia, come fosse evaporato in un sogno.
L’ultima ad averlo visto era una donna incrociata all’entrata della toilette del metrò cui Felipe aveva rivolto un ammiccamento piacione: le aveva strizzato l’occhio mentre l’altro occhio, quello aperto, precipitava nella di lei scollatura.
I muri, i lampioni, le pensiline degli autobus e persino i cestini dei rifiuti erano tappezzati delle foto di Felipe, nelle quali sorrideva come un bambino vincitore di un improbabile trofeo.
“Che cazzo se ride, ‘sto stronzo d’uno spagnolo?” Armando Ricci, detto er Tramontana, ogni volta che si imbatteva in una di quelle foto aveva un travaso di bile: “Io l’ho sempre detto che chi sorride troppo, presto o tardi te lo mette nel culo. Ah, ma se lo becco, quell’infame che è scappato con la valigetta! Glielo faccio passare io, quel sorriso ‘mbecille!” Ma er Tramontana si era guardato bene dal raccontare alla polizia che quel giorno Felipe aveva appuntamento con lui.
Quel giorno maledetto accadde che Felipe, dopo aver incrociato l’avvenente signora all’entrata della toilette, si imbattè in due tipastri gobbi e dalla pelle grigiastra. Uno di loro tirò fuori un coltello dalla tasca sbrindellata e intimò a Felipe di farsi consegnare la valigetta. Aperta la valigetta, i loro occhi da ratti si illuminarono di un rosso vivo. Tra la varietà degli stupefacenti in essa contenuti, i due scelsero tre francobolli di LSD, costrinsero Felipe a suon di pugni e calci a ingoiarli e infine lo lasciarono lì, disteso sul pavimento del cesso con gli occhi sbarrati.
Nella notte percorse a quattro zampe i binari, imboccò una biforcazione fino agli scavi dei cantieri per la metro C, abbandonati da tempo; si installò in una confortevole insula di epoca romana ancora semisepolta; scavò fino a svelare il pavimento, un pregevole mosaico raffigurante seppie e totani.
Da allora Felipe è convinto di essere un topo. Striscia nel buio delle gallerie e si nutre dei rifiuti gettati dai turisti tedeschi sui binari.
Riusciranno a ritrovarlo? Lo faranno forse i suoi pronipoti, presumibilmente intorno al 2050, quando saranno terminati i lavori per la metro C?


Prossimo blogger: claudiane



 
 
 

La valigetta.  

Post n°8 pubblicato il 24 Febbraio 2007 da Mille_Piede
 

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Ed ecco il secondo incipit scritto da La Chambre d Isabeau:

"Afferrando saldamente l'elegante valigetta in pelle Felipe Pizarro y Azevedo si incamminò con passo spedito verso Piazza dei Cinquecento.
Un tiepido sole scaldava le vetrine dei negozi.
Sorridendo sicuro di sè, Felipe si lasciò ingoiare dalla scala mobile della metropolitana."


Il primo blogger invitato e'  polystyrene.



 
 
 

Capitolo cinque. Un abbraccio eterno.

Post n°7 pubblicato il 22 Febbraio 2007 da Mille_Piede
 



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Scritto da La Chambre d Isabeau

Uscì dalla foresta che il sole era già basso all'orizzonte.Come un'apparizione maligna, nei rossi raggi del sole calante, appariva come uno Spirito del Male coperto di sangue secco e raggrumato, dagli occhi di pazzo, cattivi e scellerati.
I quattro cani dello Xoor alzarono la testa.Il vento aveva portato alle loro narici l'odore della Bestia e del sangue, e del desiderio di sangue da versare.Uggiolarono come cuccioli, si alzarono dal loro giaciglio e con la coda tra le zampe si allontanarono da quell'odore di morte.

Piombò, ansante, in mezzo al piccolo accampamento come una furia. In mano brandiva una rudimentale clava ricavata da un femore di uro ove da un lato vi aveva attaccato una punta di selce.
Laika era intenta a cucinare e non alzò nemmeno lo sguardo. Lo Zamaj balzò fuori dalla tenda all'uggiolare dei cani e tentò, con versi gutturali, di richiamarli a sè. Inutilmente, se ne restarono ai margini della boscaglia. Di Luve nessuna traccia, sicuramente era rimasta rintanata.
I due uomini iniziarono a studiarsi guardinghi. Lo Zamaj era lievemente stupito dall'ardire di Koku. Presero a muoversi in circolo attorno al fuoco. Laika li ignorava,lo sguardo spento. Lo Zamaj impugnava una delle sue lance e studiava il momento adatto per sferrare l'attacco. Sembrava divertirsi.
Con gesto simile ad una saetta scagliò la sua lancia. Con un balzo Koku cercò di trovare scampo, ma la punta di selce si conficcò nel suo braccio. Digrignando i denti la estrasse. Uno schizzo di sangue colpì Laika sulle labbra. Con aria trasognata se le leccò e il suo sguardo riprese vita. Si rese conto della situazione e, senza pensarci, lanciò dei tizzoni ardenti contro lo Zamaj che cadde al suolo contorcendosi dal dolore.
Laika scappiamo, abbiamo pochissimo tempo.
Entrarono nella boscaglia, il cuore in tumulto, incuranti dei rovi e degli spini. Koku sanguinava copiosamente.
Fermiamoci, lasciati curare.
No, lo Zamaj ci sta inseguendo.
Se ci raggiunge per noi è la fine.
Ripresero la loro folle corsa. i polmoni urlavano in cerca d'aria, i piedi sanguinavano e il sudore accecava la vista. In lontananza i cani abbaiavano furiosi.
All'improvviso Koku mise in piede in fallo e franò al suolo, Laika fu su di lui per cercare di aiutarlo. I loro occhi finalmente si incontrarono.
Per sempre?
Si, per sempre.
Di nuovo via. Lontano dal villaggio, affinchè la collera dello Zamaj non si abbattesse sugli altri. I cani erano sempre più vicini e Koku perdeva le forze a vista d'occhio.
Dobbiamo nasconderci.
Un piccolo anfratto, ricoperto di muschi e licheni. Vi si rintanarono cercando di tenere a bada il respiro e il battito del cuore.
Per sempre?
Si, per sempre.
Si abbracciarono stretti. Koku sopra Laika a difenderla.
Eccoli. Erano giunti. I cani e lo Zamaj, simili a demoni.
Sembrarono allontanarsi. I due corpi abbracciati smisero di respirare.
No, i cani percepirono l'usta. Era la fine.
Per sempre?
Si, per sempre.
Koku afferrò la punta di selce della sua clave e con un gesto deciso squarciò la gola di Laika, mentre la lancia dello Zamaj gli affondava nella schiena.
I cani ulularono impazziti all'odore del sangue.
Nella sua tenda il Vecchio del Tempo ebbe un sobbalzo. Una nota distorta nel fluire lento delle cose: qualcuno delle Terre del Sole non era più.
Si concentrò, lasciò la sua mente vagare. Oltre i monti, oltre il bosco. Vide i due corpi abbracciati e insanguinati. Continuò oltre, verso nord e vide uno sconfitto Zamaj procedere lento. Alle sue spalle i cani e una donna con i capelli gialli. Le genti delle Montagne di Ghiaccio avrebbero ancora patito il gelo.
Il Vecchio sapeva cosa doveva fare. Con immensa tristezza si incamminò verso l'anfratto. Sapeva che era molto lontano e lui era vecchio e stanco. Si fermò spesso per riposare. Quando giunse alla cavità gli animali del bosco avevano già fatto il loro lavoro. Rimanevano solo ossa spolpate.
Il Vecchio del Tempo scavò una fossa bella profonda. Con gesti delicati ricompose i due corpi abbracciati. Li ricoprì con un grande tumulo, come si usa per gli eroi.
Era triste il Vecchio. Si accosciò accanto alla tomba e intonò il lamento funebre
A te Koku
a te Laika
vanno le mie lacrime.
Che possiate restare
per l'eternità abbracciati.
Trasse un profondo respiro e si volse per il ritorno. Sapeva che il tempo non avrebbe cancellato il loro amore.

 
 
 

Capitolo quattro. Il vecchio del tempo

Post n°6 pubblicato il 18 Febbraio 2007 da Mille_Piede



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Scritto da il grande sonno


Forse questo faceva parte della magia dello Zamaj, anzi di sicuro, perché nessuno al villaggio aveva mai sentito parlare di una cosa del genere, neanche il vecchio del tempo.

Il Vecchio si era alzato dal suo giaciglio, era uscito dalla tenda e si era seduto su una bianca pietra piatta e levigata dal tempo.Osservò pensosamente il cielo sereno e pallido dell'alba che incombeva su di loro.Dette un'occhiata accigliata a colui che aveva interrotto le sue meditazioni, vide ch'era Koku e fece un ampio sorriso.
«Ah, vieni ragazzo...» e fece cenno verso un'altra pietra lì accanto che, pensò Koku, era un segno buono per lui.Il sorriso del Vecchio si tinse di stupore.« Per tutti gli Spiriti della Foresta, ho perso qualche giorno da qualche parte? Non pensavo di rivederti qui così presto.Credevo che stessi trottando su e giù per i monti della Cona-Aqa in cerca di Laika.», sogghignò.«No, Vecchio del Tempo », rispose Koku «non hai perso nessun giorno.» Si mise più comodo che poteva sulla pietra ed allungò le gambe stancamente.Il Vecchio vide le estremità sanguinose e doloranti di Koku e sul suo volto crebbe dolorosamente la consapevolezza.«Che cosa hai fatto, ragazzo?», sospirò.
«Ho inseguito lo Xoor per riprendermi Laika ed ero pronto ad uccidere o morire per lei.Ma è successo qualcosa che non sono riuscito a capire.Laika non sembra più la stessa e lo Xoor non la tiene prigioniera.E' sotto un incantesimo, una magia la tiene legata allo straniero delle Montagne di Ghiaccio.»Il vecchio contorse le labbra come per negare dolorosamente.Le sue mani prima si chiusero rabbiose, poi si aprirono alla speranza.«Nessuno avrebbe osato discutere il tuo diritto di lottare per riprendertela e portarla via.Lo Xoor lo sapeva benissimo e solo con la magia poteva evitare che la tua lancia s'affondasse nella sua gola.Ai vecchi tempi altri Xoor hanno pagato con la loro vita il desiderio di una donna ardente da sacrificare».
Il Vecchio del Tempo cominciò a cantare con una voce bassa e gutturale.

"Ho incontrato una donna nel bosco
che per labbra aveva due rosse serpi
Mi ha sorriso con occhi ammiccanti
e come il fuoco ardenti".

«E' il canto rituale degli Xoor quando vogliono prendersi una donna delle Terre del Sole.Ho sgozzato io stesso uno Xoor dopo che l'avevo sentito cantare in quel modo», sospirò di nostalgia e proseguì.«Il mondo è cambiato da quando avevo la pelle liscia e senza peli, niente è più lo stesso.Ai vecchi tempi la tribù di mio padre avrebbe digerito le ossa degli Xoor che si fossero avventurati a caccia delle nostre donne.», fece una pausa, con lo sguardo ancora fisso, e sussurrò quasi a se stesso:«Spiriti del Mare, sono stanco di cambiamenti.Il solo pensiero di sopportare un altro mondo mi terrorizza.»
« Vecchio del Tempo», disse gentilmente Koku.Il vecchio guardò in fretta verso l'alto.« Non è colpa tua, ragazzo.Non è colpa tua.Tu sei stato preso e scelto dalla sorte, proprio come noi tutti.E' stato solo un caso che tu abbia trovato uno Xoor sul tuo cammino.Ma nonostante ciò ti sei comportato bene.»
Il silenzio si protrasse insopportabile.
«Trascinerò via Laika» mormorò Koku, riducendo la voce ad un sibilo.Lui non era un eroe, non era un guerriero come lo era stato il Vecchio del Tempo, ma avrebbe dato la sua vita in cambio di quella della donna.Meglio morire che saperla sacrificata agli Spiriti degli Xoor.L'immagine di Laika apparve davanti ai suoi occhi, il delicato profilo, i grandi occhi scuri, la calda luce dei suoi fianchi, i suoi neri e lunghi capelli mossi dal vento.
«Come posso combattere la magia dello Zamaj?Come posso evocare gli Spiriti e togliere dalla sua mente l'incantesimo che l'ha resa schiava dello Xoor?Aiutami, Vecchio del Tempo.» gli parlò come ad un padre.
Il Vecchio lo guardò e scosse la testa.Un forte vento iniziava ad increspare di onde la superficie azzurra del mare, i gabbiani erano fermi ad ali aperte nell'aria calda che sbatteva contro la costa assolata.
«Nessuna magia può fermare il vento.Nessuno sa di dove viene il soffio che l'origina.Gli uccelli si sono svegliati e si sono levati in volo senza battere le ali. Possiamo solo aspettare che lo Spirito che lo anima si plachi.E gli uccelli torneranno a battere le ali.», disse il vecchio mentre fissava l'orizzonte brumoso.
« Vuoi dire che la magia dello Zamaj abbandonerà da sola la mente di Laika?E' questo che vuoi dire, Vecchio?», chiese dubbioso Koku.
«Io sono vecchio, molto vecchio, più vecchio di qualsiasi altro uomo in piedi da che mondo è mondo e mi sono diventato perfino noioso a forza di vivere così a lungo.Una cosa è certa.C'è una magia più forte della magia dello Zamaj, un incantesimo che nasce da solo e che non ha eguali.Quell'incantesimo che ti da coraggio e tormento, che ti fa ardere, perdere la testa, uccidere con ferocia e piangere come un cucciolo, e tutto questo nasce da quel che Laika rappresenta per te.Andresti nel mondo del Fuoco per lei e cattureresti il mostro che divora gli Spiriti vaganti senza dimora, purchè tornasse libera.E ricorda, in ogni donna c'è una magia, un incantesimo possibile, che ne fa la vittima ma anche l'artefice di Luce e di Oscurità.Laika si libererà ed il primo uomo che dovrà vedere nel momento che tornerà ad essere libera dovrai essere tu, Koku.Un nuovo incantesimo nascerà nell'istante che i suoi occhi incontreranno i tuoi.Perciò corri da lei, prima che la notte piombi sulla foresta.»
Koku fece un respiro profondo.D'un tratto cominciò a temere di non fare in tempo.
«Voglio Laika.», disse.
Qua e là, nella sterminata foresta, lo Spirito del Vento aveva cosparso il cammino di rami spezzati e tronchi divelti.Ma così come era apparso, violento ed improvviso, così d'un tratto era scomparso.Koku correva e saltava gli ostacoli incurante dei suoi piedi sanguinanti, del cuore che gli batteva nel petto spezzandogli il respiro,
degli aculei e delle spine della folta vegetazione che strappavano la sua pelle dai fianchi e dalla faccia.
«Voglio Laika.», era il suo unico pensiero.
Il sudore si mescolava al sangue bruciando nelle ferite e gli colava negli occhi facendolo lacrimare, ma quel che più lo bruciava era qualcosa in mezzo al petto e le lacrime erano anche la disperazione di non arrivare in tempo.Se la magia dello Zamaj fosse scomparsa così come era scomparso il vento, che ne sarebbe stato di lui e di Laika?Irrompeva nella foresta come una bestia, osservato da migliaia d'occhi silenziosi appollaiati sui rami degli alberi giganteschi e nascosti nel profondo della bassa vegetazione.La foresta lo spiava, doma dalla sua forza e dalla noncuranza con la quale sfiorava i serpenti attorcigliati dalla testa svettante e troncava viticci e rampicanti nella sua folle corsa.La foresta sembrava quasi aprirsi sul suo cammino.Questo già era un incantesimo.

Uscì dalla foresta che il sole era già basso all'orizzonte.Come un'apparizione maligna, nei rossi raggi del sole calante, appariva come uno Spirito del Male coperto di sangue secco e raggrumato, dagli occhi di pazzo, cattivi e scellerati.
I quattro cani dello Xoor alzarono la testa.Il vento aveva portato alle loro narici l'odore della Bestia e del sangue, e del desiderio di sangue da versare.Uggiolarono come cuccioli, si alzarono dal loro giaciglio e con la coda tra le zampe si allontanarono da quell'odore di morte.


Il prossimo blogger e' La Chambre d Isabeau.



 
 
 

Capitolo tre. Luve.

Post n°5 pubblicato il 16 Febbraio 2007 da Mille_Piede
 



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Scritto da Donna_Ombra


Mentre parlavano, un’altra persona uscì dalla tenda dello Xoor, era una donna. Koku e Laika si ammutolirono per lo spavento, era vestita di una pelliccia strana, del colore del cielo quando piove ed i suoi occhi erano così chiari da sembrare spuma di mare.

Laika le invidiò i capelli, gialli come l’erba d’estate ed il candore della pelle così diversa dalla sua. La donna si avvicinò con un’aria spaventata e decisa insieme “Luve” indicò se stessa come per presentarsi e con parole sconosciute e gesti universali fece capire ai due di essere la donna dello Xoor, l’uomo voleva portare via Laila perché lo Zamaj del loro villaggio chiedeva il sacricio di una donna con la pelle color del caldo per scacciare il gelo dalla loro terra.

Lo Zamaj aveva una magia molto potente di erbe e incantesimi e l’aveva già usata su Laika, per questo lei sembrava diversa. Luve voleva aiutare il suo uomo, ma si era accorta che lui, che la donna indicava come Uki, ora guardava la donna del fuoco con occhi di desiderio, e lei non voleva perderlo, quindi Koku doveva portarsi via Laika.

Il dialogo di segni e versi si fece fitto, fitto, lo sguardo azzurro di Luve si intrecciava con quello di brace di Laika e l’uomo percepiva se stesso come una presenza superflua, qualsiasi cosa sarebbe successa in seguito, lui ne sarebbe stato solo l’esecutore, per un attimo comprese il desiderio di Uki, forse poteva averle entrambe come compagne…

Luve mise al collo dell’altra una delle sue collane più preziose, fatta di pietre bianche e trasparenti come ghiaccio, Laika la ricambiò con la sua, fatta di conchiglie rosa e pietre azzurrine e fu sancito il patto. La notte, davanti al fuoco, la donna prigioniera avrebbe accettato il cibo dalla bocca di Uki ma Luve le avrebbe dato un po’ di magia di Zamaj da tenere sulla lingua, ogni Xoor succhia la lingua della compagna durante il corteggiamento, spiegò la donna, e a quel punto, Uki sarebbe stato fuori combattimento, e Laika sarebbe stata libera. “ che strano modo di corteggiare che hanno gli Xoor” pensò Koku, a me non piacerebbe ma già si chiedeva cosa si potesse provare a tenere fra le labbra la lingua morbida di Laika, e all’improvviso un calore forte gli scese giù per la schiena.

Forse questo faceva parte della magia dello Zamaj, anzi di sicuro, perché nessuno al villaggio aveva mai sentito parlare di una cosa del genere, neanche il vecchio del tempo.



Il prossimo blogger e' Il grande sonno.




 
 
 

Capitolo due. Xoor.

Post n°4 pubblicato il 16 Febbraio 2007 da Mille_Piede
 

  


Scritto da
reduced_noise.


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Quello vestiva una pelle di tangàko, la cui mascella gli arrivava poco sopra gli occhi. Le corna erano pitturate di giallo. Koku immaginò che fosse uno Xoor. Nessuno del suo villaggio li aveva mai visti. Ne parlavano le nonne ai bambini, cui dicevano di essi che vivevano molto lontano, oltre i monti della Cona-Aqa. Raccontavano di quando erano scesi fin qui, durante un inverno di più di settantasette stagioni prima, quando la neve non c'era stata, e le valli ed i passi tra i monti erano rimasti transitabili. E di quanto era stato difficile scacciarli. E di quante perdite, delle quali nulla si diceva se non che erano state grandi. Contro di essi pareva fosse impossibile battersi alla pari.

Dietro lo Xoor, vicino ai primi alberi del bosco, Laika era rimasta immobile e muta, dopo quell'urlo di terrore. Aveva visto quell'uomo spaventoso mentre tornava dalla raccolta di lencài. Ne aveva il cesto pieno. Koku guardò lei, e guardò lo Xoor. Si chinò per raccogliere un sasso, ma subito una lancia gli sfiorò la mano. Rialzandosi lesto, riuscì a scansarne altre due per un soffio. Guardò l'uomo, che stava all'altra estremità del piccolo campo, e che aveva ancora con sé, di nuovo, sette lance. Koku scartò di lato con uno scatto, per girargli attorno. Ma quello gli si fece contro urlando, così che lo costrinse a fuggire. Non lo seguì per più che pochi passi.

Koku tornò al villaggio solo e sconsolato. Laika era perduta. Non ce l'avrebbe mai fatta, a sconfiggere lo Xoor. Gli altri lo guardavano e non dicevano niente. Nessuno aveva il coraggio di sentirsi dire che uno Xoor era apparso da quelle parti per davvero. Preferivano non sapere. Preferivano non domandare. Malgrado la situazione, però, quella notte egli dormì profondamente.

Il giorno seguente, senza pensare troppo a che faceva, tornò di soppiatto vicino al punto di quel brutto incontro. Da lontano vide. Lo Xoor aveva quattro grossi cani inquieti, legati ad un albero vicino alla propria tenda. Aveva catturato un manguièro. Laika era sua prigioniera, e cuoceva su uno spiedo quel manguièro per lui ed i cani. Lui invece, steso in terra, fumava da un lungo tubo ed ogni tanto buttava, sul fuoco di cottura, una polvere che produceva una fiammata rossa, ed il cui fumo investiva lei. Lei aveva lo sguardo vitreo e Koku, guardandola, ebbe voglia di piangere. Forse non appena le nubi che nascondevano le cime delle montagne si sarebbero diradate, essi sarebbero ripartiti per il lontano paese sempre innevato, si diceva, degli Xoor. E lui non l'avrebbe rivista mai più. Avrebbe dovuto cercarsi un'altra compagna.

Eppure non riusciva a mettersi il cuore in pace. Tornò al villaggio e cominciò ad arrovellarsi al pensiero di cosa fare. Decise di andare a parlare con quel vecchio che gli aveva insegnato a conoscere il tempo, il quale viveva solitario, a trecento bàttite lontano. Il vecchio gli disse che non c'era consiglio che potesse dargli, poiché era Koku che voleva Laika, e non il vecchio. Solo come una curiosità, mentre Koku gli descriveva l'accampamento dello Xoor, gli suggerì che forse quello aveva usato un'esca per catturare il manguièro. Un certo impasto di mokòn, che attirava questi animali anche da molto lontano. Di ritorno dal campo del vecchio, Koku non aveva ancora idea di che fare, ma qualcosa era scattato in lui, e lo scoramento per la perdita di Laika aveva lasciato il posto alla determinazione di tentare qualcosa, comunque.

Al mattino successivo si recò in prossimità della radura della Pâtma, vicino ai primi alberi del bosco, ad un mezzo cammino dall'accampamento dello Xoor, verso ponente. Preparò dei grumi con impasto di mokòn, avendo cura di rivoltare prima la terra sulla quale li poneva, così che il tutto odorasse ancora più forte. Disponendo quei grumi in un percorso, si spinse fino ad alcune bàttite da dove Laika era tenuta prigioniera. Poi si nascose ed attese. Arrivarono due manguièri, che si misero a leccare il mokòn, ormai indurito. Poi ne arrivò un altro. Da lontano, i cani sentirono l'odore di quelle bestie selvatiche, e presero ad abbaiare. Dalla loro inquietudine, lo Xoor avrebbe indovinato la presenza della selvaggina, e si sarebbe diretto verso il luogo in cui si trovavano quei suini. Koku sentì i cani andare nella direzione che aveva previsto, mentre lui attraversava il bosco dov'esso era più fitto. Lui andava nella direzione opposta, verso l'accampamento.

Arrivato lì, trovò Laika seduta ed immobile. Le si avvicinò, e le pose i palmi delle mani sulle guance. Lei allora alzò lo sguardo verso di lui, ma lo guardò come se egli fosse stato trasparente. Era sicuramente sotto l'effetto di un qualche incantesimo. «Vieni, andiamocene via da qui». Cercò di convincerla a muoversi da lì. La cinse per la vita con un braccio, e riuscì ad indurla ad alzarsi. Fosse stato un grande uomo, un principe, sarebbe riuscito a sciogliere l'incantesimo con un tocco, con un bacio. Ma era solo un povero villano, giovane ed inesperto.

Mentre erano così, in piedi, lei lo sorprese con un «perché?», ed aggiunse «tu mi vuoi rapire». «Laika! Io sono Koku! È lo Xoor che ti vuole rapire, non io...», ma ella gli rispose «io non ho paura... tu vuoi portarmi via». Koku non sapeva più che fare. Certo, che voleva portarla via, come diceva lei, ma per salvarla dallo Xoor. Di fronte alle argomentazioni di lei, però, cosa valevano le sue? «Lo Xoor ti porterà nel suo paese, nel freddo e nella neve». «Io voglio il sole», rispose Laika, e lo guardò in modo diverso da prima. «Se mi porti nel sole, là non ci seguirà».




Il prossimo blogger, e' Donna_Ombra.


 
 
 

Capitolo uno. Tempo al tempo.

Post n°3 pubblicato il 14 Febbraio 2007 da Mille_Piede
 


Scritto da scalzasempre


Ci sono storie che nascono dentro la storia o una storia. E nell'intreccio sviluppano quel compiuto che apporta un tempo nuovo in un tempo che è già stato, anche nel dimenticato. Perchè fondamentalmente alcune abitudini, al di là delle mode e dei momenti sociali, restano quei gesti semplificati, nelle linee dipinte dalle dita di pittori improvvisati che ispirati dalla semplice visione della Vita, hanno immortalato il riflesso della visione stessa. Anche la Vita fa così, compagna degli uomini e del tempo che nasce un qualsiasi giorno, di un qualsiasi anno, in un qualsiasi posto. Come quel mattino, che il sole era già sorto e le ombre disegnavano un profilo più corto della figura. Koku camminava per certi sentieri vicino ai campi e si era ricordato di quel giorno che quel vecchio che puzzava di latte di capra, gli aveva insegnato a leggere le ombre per comprendere il tempo. Misurava con un bastone e poi si metteva a fare i segni sulla terra. A koku piaceva la terra, perchè era compatta ma se metteva le sue mani dentro, diventava morbida, friabile. Si lasciava penetrare, lavorare, accarezzare nel profondo. A koku piaceva anche Laika e la guardava sempre con quella voglia di restarle vicino, tanto vicino. Lei camminava un po' più dritta ed era anche un po' più forte. Ma forse certi ragionamenti neppure servivano a capire il perchè. Gli piaceva punto e basta. Anche al cane di Koku piaceva Laika. Ma poi il cane era morto e Koku aveva deciso che era proprio lei che sarebbe diventata la sua compagna.
Mentre camminava pensando a tutte queste cose perchè non aveva niente da fare, sentì un urlo arrivare dal bosco che si trovava nella direzione delle montagne più alte. Avrebbe dovuto correre ma un uomo con sette lance dalla punta di pietra [perchè il metallo fu scoperto da un suo pro[tanto]nipote duemila anni dopo], lo guardava con aria inferocita.


immagine


Questa è laika disegnata da koku.




Il prossimo blogger invitato e' reduced noise


 
 
 

Un eterno abbraccio

Post n°2 pubblicato il 12 Febbraio 2007 da Mille_Piede
 



immagine

Ed ecco il primo incipit, la prima frase traccia da cui si sviluppera' il primo racconto:

Febbraio 2007, nei dintorni di Mantova vengono alla luce i due scheletri di un uomo ed una donna, sepolti 6000 anni prima, abbracciati in quello che sembra un ultimo atto d'amore, e questa e' la loro storia.

La prima blogger invitata a partecipare e' scalzasempre.





 
 
 

Benvenuti!

Post n°1 pubblicato il 11 Febbraio 2007 da Mille_Piede
 


MillePiedi, che cos'è?
E' innanzitutto un gioco. Un divertimento. Un momento leggero.
Ha la forma di un blog, di un blog collettivo. Ma alla fine sempre gioco è.
Come funziona MillePiedi?
E' forse più difficile da raccontare che da fare.
Partendo da una frase/traccia data dalla redazione, il primo blogger invitato a partecipare comporra' il suo post, per poi passare il testimone ad un altro blogger a sua scelta per il post successivo fino alla conclusione del racconto stesso, che in genere potrebbe svilupparsi in una decina di post: in fondo è un racconto, non un romanzo!
Chi scrivera' l'ultimo post del racconto, lancera' anche la frase/traccia per il racconto successivo, oltre a scegliere naturalmente il blogger da invitare a proseguire il racconto. Non è necessario fermarsi alla piattaforma di Libero, più ci si allontana dai confini, meglio è.
I post dei blogger invitati, dovranno essere inviati via email alla redazione che provvedera' a pubblicarli.
MillePiedi nasce come un semplice strumento di divertimento, il titolo ne e' una espressione evidente, e dalla curiosita' di vedere come la fantasia ed i diversi stili dei vari blogger che si presteranno a scriverne i post, svilupperanno un'esile traccia, un incipit, in un racconto a piu' mani che potra' cambiare di direzione ad ogni post, a seconda di quel che decide l'autore, senza nessuna restrizione.

 
 
 
 

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Nickname: Mille_Piede
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